di Bianca Garavelli
Che il Novecento sia stato un secolo di violento razzismo non ci sono dubbi. Quel che non si conosce ancora abbastanza è il suo impatto su intellettuali e scrittori. Un convegno, a settanta anni dalle leggi razziali italiane (1938) ne ha indagato conseguenze e reazioni, attraverso l’imporsi dell’idea forte di 'razza' nella società e nella cultura: ora le due curatrici, Sonia Gentili e Simona Foà, ne espongono i cospicui risultati in un volume dalle due anime, storica e letteraria, che in alcuni casi si intrecciano.
Come in quelli, complementari ed emblematici, di Primo Levi e Umberto Saba. Del primo leggiamo una testimonianza di grande forza emotiva, che ne rievoca l’arresto, l’interrogatorio, il tragico dilemma nel trovare risposte che conciliassero la sua dignità e il suo legittimo desiderio di salvarsi.
Confessare di essere un partigiano o di appartenere alla comunità ebraica? La prima risposta significa fucilazione immediata, la seconda «spalanca uno scenario che oggi non è lecito semplificare». Levi infine sceglie la seconda risposta, e ne scopre di persona le drammatiche conseguenze. Sarà da questa esperienza che riuscirà a trarre il suo giudizio sul fascismo e sulla storia italiana. Un giudizio che si concentra nel ritratto del suo grigio aguzzino, centrale nel racconto Ferro, incluso nel volume Il sistema periodico: «un fascista da manuale, stupido e coraggioso, che il mestiere delle armi aveva cerchiato di solida ignoranza, ma non corrotto né reso disumano». Se Primo Levi fu travolto dalla persecuzione, Umberto Saba riuscì a salvarsi: da alcune lettere scopriamo le sue vicissitudini e la protezione che trovò proprio da un gruppo di intellettuali italiani, Enrico Falqui e Curzio Malaparte, che intervennero in suo aiuto presso Mussolini, con l’appoggio di Ungaretti e Soffici. Un coalizzarsi di menti contro una proterva idea di razza la quale invece dilaga nella narrativa coloniale del Ventennio, indagata in una lunga rassegna da Graziella Pagliano, in cui spiccano casi sorprendenti: Riccardo Bacchelli nel 1934 pubblica il romanzo Mal d’Africa, che parla della natura selvaggia dei neri, ma affermandone l’innocenza e giustificandone il cannibalismo; il popolarissimo Sem Benelli che nel romanzo Io in Africa (1936) chiede protezione per una bambina meticcia, perché «le nazioni sono piene di incroci a cominciare da noi». E Mura, pseudonimo di una scrittrice, Maria Volpi, che affronta per la prima volta il tema della relazione mista, nel romanzo Sambadù, amore negro (1934), il cui protagonista maschile, ingegnere nero di successo, subisce una metamorfosi sconcertante subito dopo il matrimonio, diventando sempre più selvaggio, fino alla decisione di tornare in Africa. Ma il caso più interessante è quello di Vitaliano Brancati, il cui innamoramento del fascismo e il successivo disamorarsi di ogni suo retorico inganno si intreccia con le grandi presenze di Giuseppe Antonio Borgese, il suo maestro, e Thomas Mann, che di Borgese divenne il genero.
Sonia Gentili analizza i passaggi di questa singolare evoluzione, che vede dapprima in Mussolini l’incarnazione dell’'uomo razza', un 'superindividuo' che riassume in sé i caratteri di una razza dominante, e perciò rappresentato sulla cima del monte più alto del mondo nella prima opera di Brancati, il testo teatrale Everest del 1928. L’immagine arriva al totale rovesciamento, ma restando fondata sull’idea di razza, nel grottesco, 'gogoliano' romanzo Il vecchio con gli stivali del 1944, in cui i fascisti stessi sono una razza, determinata non da tratti somatici ma da abiti e oggetti, stivali, cinture, distintivi, contro cui il protagonista riversa tutto il suo odio. Come mostra Sonia Gentili, entrambe le immagini provengono dall’idea di «connessione sovrapersonale che spezza i limiti dell’io», che fonda l’«ideologia della guerra» abbracciata dal primo Thomas Mann.
A cura di Sonia Gentili e Simona Foà, CULTURA DELLA RAZZA E CULTURA LETTERARIA NELL’ITALIA DEL NOVECENTO, Carocci, pp. 302, € 28,50
Come in quelli, complementari ed emblematici, di Primo Levi e Umberto Saba. Del primo leggiamo una testimonianza di grande forza emotiva, che ne rievoca l’arresto, l’interrogatorio, il tragico dilemma nel trovare risposte che conciliassero la sua dignità e il suo legittimo desiderio di salvarsi.
Confessare di essere un partigiano o di appartenere alla comunità ebraica? La prima risposta significa fucilazione immediata, la seconda «spalanca uno scenario che oggi non è lecito semplificare». Levi infine sceglie la seconda risposta, e ne scopre di persona le drammatiche conseguenze. Sarà da questa esperienza che riuscirà a trarre il suo giudizio sul fascismo e sulla storia italiana. Un giudizio che si concentra nel ritratto del suo grigio aguzzino, centrale nel racconto Ferro, incluso nel volume Il sistema periodico: «un fascista da manuale, stupido e coraggioso, che il mestiere delle armi aveva cerchiato di solida ignoranza, ma non corrotto né reso disumano». Se Primo Levi fu travolto dalla persecuzione, Umberto Saba riuscì a salvarsi: da alcune lettere scopriamo le sue vicissitudini e la protezione che trovò proprio da un gruppo di intellettuali italiani, Enrico Falqui e Curzio Malaparte, che intervennero in suo aiuto presso Mussolini, con l’appoggio di Ungaretti e Soffici. Un coalizzarsi di menti contro una proterva idea di razza la quale invece dilaga nella narrativa coloniale del Ventennio, indagata in una lunga rassegna da Graziella Pagliano, in cui spiccano casi sorprendenti: Riccardo Bacchelli nel 1934 pubblica il romanzo Mal d’Africa, che parla della natura selvaggia dei neri, ma affermandone l’innocenza e giustificandone il cannibalismo; il popolarissimo Sem Benelli che nel romanzo Io in Africa (1936) chiede protezione per una bambina meticcia, perché «le nazioni sono piene di incroci a cominciare da noi». E Mura, pseudonimo di una scrittrice, Maria Volpi, che affronta per la prima volta il tema della relazione mista, nel romanzo Sambadù, amore negro (1934), il cui protagonista maschile, ingegnere nero di successo, subisce una metamorfosi sconcertante subito dopo il matrimonio, diventando sempre più selvaggio, fino alla decisione di tornare in Africa. Ma il caso più interessante è quello di Vitaliano Brancati, il cui innamoramento del fascismo e il successivo disamorarsi di ogni suo retorico inganno si intreccia con le grandi presenze di Giuseppe Antonio Borgese, il suo maestro, e Thomas Mann, che di Borgese divenne il genero.
Sonia Gentili analizza i passaggi di questa singolare evoluzione, che vede dapprima in Mussolini l’incarnazione dell’'uomo razza', un 'superindividuo' che riassume in sé i caratteri di una razza dominante, e perciò rappresentato sulla cima del monte più alto del mondo nella prima opera di Brancati, il testo teatrale Everest del 1928. L’immagine arriva al totale rovesciamento, ma restando fondata sull’idea di razza, nel grottesco, 'gogoliano' romanzo Il vecchio con gli stivali del 1944, in cui i fascisti stessi sono una razza, determinata non da tratti somatici ma da abiti e oggetti, stivali, cinture, distintivi, contro cui il protagonista riversa tutto il suo odio. Come mostra Sonia Gentili, entrambe le immagini provengono dall’idea di «connessione sovrapersonale che spezza i limiti dell’io», che fonda l’«ideologia della guerra» abbracciata dal primo Thomas Mann.
A cura di Sonia Gentili e Simona Foà, CULTURA DELLA RAZZA E CULTURA LETTERARIA NELL’ITALIA DEL NOVECENTO, Carocci, pp. 302, € 28,50
«A» del giugno 2010
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