A colloquio con l’italianista che l’Università Cattolica lunedì prossimo festeggia per i 70 anni. Luzi e Montale i preferiti
di Alessandro Zaccuri
I veri maestri, alla fine, non sono quelli che insegnano: sono quelli che continuano a imparare. E Claudio Scarpati è così, lo è sempre stato fin da quando, nelle sue lezioni di Letteratura italiana alla Cattolica di Milano, si interrompeva all’improvviso per guardare fuori dalla finestra mentre gli studenti, in aula, aspettavano.
Ora, da poco superato il traguardo dei settant’anni, Scarpati riceve l’omaggio di molti di quegli allievi, diventati suoi discepoli e colleghi. Il risultato è un volume di oltre mille e cento pagine ( Studi di letteratura italiana in onore di Claudio Scarpati, curato da Eraldo Bellini, Maria Teresa Girardi e Uberto Motta per Vita e Pensiero), che verrà presentato lunedì 3 maggio alle 16 presso la Cripta dell’Aula Magna dell’ateneo milanese.
Scarpati - che ha ormai lasciato l’insegnamento - parlerà delle rime spirituali di Michelangelo: poesia, pittura e spiritualità che si intrecciano, ancora una volta.
Professore, lei è figlio di un pittore molto apprezzato, Giorgio Scarpati. Non è mai stato tentato dal disegno?
«No, però inizialmente volevo studiare architettura - confessa. Ho sempre trovato appassionante la grafica, in particolare la varietà dei caratteri tipografici. Ho disegnato diversi alfabeti, lo ammetto. Ma niente di più».
Un atteggiamento da uomo del Rinascimento, il periodo a cui ha dedicato i suoi studi più conosciuti…
«Quello per il Rinascimento è un interesse nato in modo apparentemente casuale, come a volte accade qui in università. In seguito ho capito, magari tardivamente, che in quest’epoca più di una nazione europea riconosce le sue origini. È un periodo in cui l’Italia è ancora osservata come esemplare e in cui la nostra letteratura si muove in una dimensione europea. Sono convinto che le nazioni con le quali oggi il nostro Paese riesce più facilmente dialogare sono quelle che hanno in qualche modo partecipato al Rinascimento. Per contro, l’attuale assopimento del sentimento nazionale unitario, che nell’Ottocento ha avuto testimoni eccellenti in autori come Manzoni e Leopardi, è una conseguenza dell’appannarsi della nostra tradizione letteraria».
Lei ha spesso adoperato autori del passato come punto di partenza per una riflessione sul presente. Quanto è nostro contemporaneo, per esempio, il suo Leonardo?
«Negli anni Ottanta il dibattito intorno ai linguaggi era molto inteso, ma restava tutto ancorato al presente, senza riferimenti alla lezione rinascimentale. Così ho sentito il bisogno di tornare a Leonardo: il suo Paragone delle arti tratteggia il primo moderno sistema organico dei linguaggi artistici, anticipando le acquisizioni di Herder nell’età dell’Illuminismo».
Un altro suo importante tema di ricerca è stato il rapporto fra verità e falsificazione in letteratura. A che punto siamo?
«La letteratura non può essere mera evasione. Ne va di mezzo, tra l’altro, la missione educativa che all’insegnamento universitario resta strettamente connaturata.
Leggendo la Gerusalemme liberata ci si rende conto che per Tasso l’arte può sì esplorare i territori dell’immaginario, a patto però di non rinnegare l’insegnamento di Agostino, per cui ciò che significa non è mai falso. Detto altrimenti, ogni invenzione, se è capace di alludere, contiene in sé un germe di verità. Nell’ultimo secolo, tuttavia, la produzione letteraria è stata talmente ampia da rendere fatale il dirigersi verso le zone più lontane dall’esperienza profonda dell’individuo. Ma se consideriamo la ricerca poetica in senso stretto, possiamo dire che i poeti non hanno abdicato. Al contrario, hanno riservato a sé questo compito, presentandosi come gli ultimi interpreti dell’esigenza fondamentale dell’uomo, quella cioè della conoscenza di sé».
I poeti come custodi della spiritualità, dunque?
«Di sicuro nel Novecento hanno avuto coraggio, sono stati quasi ardimentosi nel non escludere i temi più decisivi, le questioni radicali. Personalmente mi affascina scoprire come la poesia abbia saputo suggerire al linguaggio religioso nuove modalità di interrogazione, accessibili anche all’uomo frastornato di oggi. Sono i motivi per cui ho studiato Luzi e Montale, specie quello della Bufera, che per me resta il poeta capace, più di ogni altro di bussare, 'a tutte le porte'».
E lei, a quale porta vorrebbe bussare adesso?
«Uno dei miei ultimi corsi universitari è stato dedicato a Leopardi e, in quell’occasione, ho rischiato di naufragare nella bibliografia critica. Mi sembra però di essere riemerso e ora ho qualche domanda da porre a questo poeta».
Non le mancheranno gli studenti?
«Ho imparato molto da loro, dalla loro generosità nel volontariato, dalla loro capacità di donare il proprio tempo. Più in generale, sono convinto che una ricerca non trova terreni nuovi se non dopo aver operato assaggi nella comunicazione con un gruppo. È la reazione del gruppo a indicare le vie percorribili o quelle da escludere, rivelando un’autentica comunità. In questi ultimi anni, in particolare, ho assistito a una crescita sorprendente della domanda vitale, un ritorno alle questioni essenziali sull’essere, sul vivere, sull’essere giovani. Si dice che i ragazzi di oggi sono più distratti, ed è vero. Ma proprio per questo cercano nell’università un’oasi in cui pensare, in cui interrogarsi. Gli studenti sono meravigliosi, come sempre».
Ora, da poco superato il traguardo dei settant’anni, Scarpati riceve l’omaggio di molti di quegli allievi, diventati suoi discepoli e colleghi. Il risultato è un volume di oltre mille e cento pagine ( Studi di letteratura italiana in onore di Claudio Scarpati, curato da Eraldo Bellini, Maria Teresa Girardi e Uberto Motta per Vita e Pensiero), che verrà presentato lunedì 3 maggio alle 16 presso la Cripta dell’Aula Magna dell’ateneo milanese.
Scarpati - che ha ormai lasciato l’insegnamento - parlerà delle rime spirituali di Michelangelo: poesia, pittura e spiritualità che si intrecciano, ancora una volta.
Professore, lei è figlio di un pittore molto apprezzato, Giorgio Scarpati. Non è mai stato tentato dal disegno?
«No, però inizialmente volevo studiare architettura - confessa. Ho sempre trovato appassionante la grafica, in particolare la varietà dei caratteri tipografici. Ho disegnato diversi alfabeti, lo ammetto. Ma niente di più».
Un atteggiamento da uomo del Rinascimento, il periodo a cui ha dedicato i suoi studi più conosciuti…
«Quello per il Rinascimento è un interesse nato in modo apparentemente casuale, come a volte accade qui in università. In seguito ho capito, magari tardivamente, che in quest’epoca più di una nazione europea riconosce le sue origini. È un periodo in cui l’Italia è ancora osservata come esemplare e in cui la nostra letteratura si muove in una dimensione europea. Sono convinto che le nazioni con le quali oggi il nostro Paese riesce più facilmente dialogare sono quelle che hanno in qualche modo partecipato al Rinascimento. Per contro, l’attuale assopimento del sentimento nazionale unitario, che nell’Ottocento ha avuto testimoni eccellenti in autori come Manzoni e Leopardi, è una conseguenza dell’appannarsi della nostra tradizione letteraria».
Lei ha spesso adoperato autori del passato come punto di partenza per una riflessione sul presente. Quanto è nostro contemporaneo, per esempio, il suo Leonardo?
«Negli anni Ottanta il dibattito intorno ai linguaggi era molto inteso, ma restava tutto ancorato al presente, senza riferimenti alla lezione rinascimentale. Così ho sentito il bisogno di tornare a Leonardo: il suo Paragone delle arti tratteggia il primo moderno sistema organico dei linguaggi artistici, anticipando le acquisizioni di Herder nell’età dell’Illuminismo».
Un altro suo importante tema di ricerca è stato il rapporto fra verità e falsificazione in letteratura. A che punto siamo?
«La letteratura non può essere mera evasione. Ne va di mezzo, tra l’altro, la missione educativa che all’insegnamento universitario resta strettamente connaturata.
Leggendo la Gerusalemme liberata ci si rende conto che per Tasso l’arte può sì esplorare i territori dell’immaginario, a patto però di non rinnegare l’insegnamento di Agostino, per cui ciò che significa non è mai falso. Detto altrimenti, ogni invenzione, se è capace di alludere, contiene in sé un germe di verità. Nell’ultimo secolo, tuttavia, la produzione letteraria è stata talmente ampia da rendere fatale il dirigersi verso le zone più lontane dall’esperienza profonda dell’individuo. Ma se consideriamo la ricerca poetica in senso stretto, possiamo dire che i poeti non hanno abdicato. Al contrario, hanno riservato a sé questo compito, presentandosi come gli ultimi interpreti dell’esigenza fondamentale dell’uomo, quella cioè della conoscenza di sé».
I poeti come custodi della spiritualità, dunque?
«Di sicuro nel Novecento hanno avuto coraggio, sono stati quasi ardimentosi nel non escludere i temi più decisivi, le questioni radicali. Personalmente mi affascina scoprire come la poesia abbia saputo suggerire al linguaggio religioso nuove modalità di interrogazione, accessibili anche all’uomo frastornato di oggi. Sono i motivi per cui ho studiato Luzi e Montale, specie quello della Bufera, che per me resta il poeta capace, più di ogni altro di bussare, 'a tutte le porte'».
E lei, a quale porta vorrebbe bussare adesso?
«Uno dei miei ultimi corsi universitari è stato dedicato a Leopardi e, in quell’occasione, ho rischiato di naufragare nella bibliografia critica. Mi sembra però di essere riemerso e ora ho qualche domanda da porre a questo poeta».
Non le mancheranno gli studenti?
«Ho imparato molto da loro, dalla loro generosità nel volontariato, dalla loro capacità di donare il proprio tempo. Più in generale, sono convinto che una ricerca non trova terreni nuovi se non dopo aver operato assaggi nella comunicazione con un gruppo. È la reazione del gruppo a indicare le vie percorribili o quelle da escludere, rivelando un’autentica comunità. In questi ultimi anni, in particolare, ho assistito a una crescita sorprendente della domanda vitale, un ritorno alle questioni essenziali sull’essere, sul vivere, sull’essere giovani. Si dice che i ragazzi di oggi sono più distratti, ed è vero. Ma proprio per questo cercano nell’università un’oasi in cui pensare, in cui interrogarsi. Gli studenti sono meravigliosi, come sempre».
«Avvenire» del 1 maggio 2010
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