Un’analisi di Crispino Valenziano delle radici teologiche dei dipinti di san Paolo e san Pietro nella Cappella Paolina rintuzza il dubbio che l’artista fosse «protestante»
di Michele Dolz
Il 13 ottobre 1449 Paolo III si arrampicò per l’ultima volta sui ponteggi della Cappella Paolina nel Palazzo Apostolico, che egli aveva voluta affrescata da Michelangelo. I due grandi dipinti, di oltre sei metri di lato, non erano ancora ultimati ma splendevano già della potenza figurativa del genio, non diversa da quella mostrata nel grande Giudizio Universale. Papa Paolo ricordava bene il fasto con cui aveva scoperto otto anni prima quella che chiamava «Parusia della Seconda Venuta», ma non sarebbe arrivato a inaugurare i nuovi affreschi, perché morì un mese dopo. Quella volta, sugli spalti, aveva trovato un Michelangelo stanco, rattristato, si direbbe quasi invecchiato. Ma sereno. Il 27 febbraio 1547 gli era morta Vittoria Colonna, la donna con la quale aveva trovato un’intesa intellettuale e spirituale profonda. Il Condivi scrisse: «Egli amó grandemente la Marchesana di Pescara, del cui divino spirito era inamorato, essendo all’incontro da lei amato sinceramente (…) A Roma se ne venne non mossa da altra cagione se non di veder Michelagnolo; e egli all’incontro tanto amor le portava che (…) per la costei morte più tempo se ne stette sbigottito e come insensate». Le lettere, le poesie e i disegni scambiati tra i due ne sono eloquente testimonianza.
Ora con tempestiva accortezza dopo il restauro degli affreschi, Crispino Valenziano pubblica una serrata analisi dell’opera, che vuole andare alle sue radici teologiche: San Paolo e San Pietro di Michelangelo nella Cappella Paolina in Vaticano (Libreria Editrice Vaticana, 101 pagine, 14,50 euro). Intanto si può essere d’accordo, come molti hanno già indicato, nel vedere il ritratto del tormentato artista nei volti di san Paolo caduto dal cavallo e di un personaggio che medita, come in disparte, nella crocifissione di san Pietro.
Molto assomigliano al Nicodemo della Pietà di Firenze. Quell’uomo era stato nominato da poco capo della Fabbrica di San Pietro e, dal cuore della cristianità, seguiva con attenzione lo svolgersi del Concilio di Trento, apertosi nel 1545. Nel febbraio 1546 era morto Lutero.
Una domanda relativa a questo periodo michelangiolesco ha attraversato la storia dell’arte: il circolo di Vittoria Colonna aveva tendenze protestanti? A volte sembra una domanda strumentale all’intorbidamento delle acque nell’arte cristiana. Certo è che un cenacolo della Colonna veniva chiamato a Roma, che se ne parlasse a favore o contro, la «chiesa viterbese». Ma leggendo le lettere si scopre che il gruppo spiccava semmai per una spiritualità molto forte e intima e per una apertura mentale non comune nella Roma dell’epoca: «…aspettar con preparato animo substantiosa occasione di servirvi, pregando quell Signore, del quale con tanto ardente et humil core mi parlaste al mio partir da Roma, che io vi trovi al mio ritorno con l’imagin sua sì rinovata et per vera fede nel anim vostra, come ben l’avete dipinta nella mia Samaritana», scriveva Vittoria.
Del gruppo faceva parte anche Reginald Pole, cugino di Enrico VIII al quale aveva tentato d’impedire un’avventura troppo pericolosa.
Paolo III lo aveva voluto nella commissione De Emendanda Ecclesia, cardinale e legato papale al Concilio. Suo fu il discorso inaugurale. Ma si dovette persino allontare temporaneamente perché trovò molti avversari nell’ala rigorosamente tradizionalista. Oggi si può dire che la sua posizione sul tema del momento, la giustificazione, era ben ortodossa, ma che egli era «conciliatorista», vale a dire non trovava giusto la semplice respinta delle tesi luterane senza tentare neanche un approfondimento dialogico. Teologicamente, la conclusione della commissioni mista di teologi protestanti e cattolici del 1999 - purtroppo poco nota - gli ha dato ragione. Pole e I suoi amici vivevano un radicale spiritualismo, ma nell’obbedienza alla chiesa di Roma. Tutto ciò traspare negli affreschi. La caduta di san Paolo è il trionfo della grazia, con un Cristo che si tuffa dal cielo preceduto da una luce abbagliante. La grazia inonda Paolo, ma la mano sinistra di Cristo indica la città di Damasco (che potrebbe assomigliare alla Roma classica): là ti verrà detto cosa devi «fare» (le opere). La fede, insomma, non à mai disgiunta dalla carità, pena la sua stessa morte. E l’apostolato è la più grande carità. Questo sembra dire l’affresco. In quello di Pietro fu Michelangelo stesso a cambiare soggetto: non la chiamata, come voleva il papa, ma il martirio, l’opera suprema in risposta alla fede. Entrambe furono composizioni innovative.Un esempio per tutti i dipinti di soggetto simile di Caravaggio, considerando però la versione Odescalchi della conversione di Paolo.Notevole questa inquadratura di Valenziano, che va a evidenziare l’unico modo per comprendere la decorazione della cappella.
Ora con tempestiva accortezza dopo il restauro degli affreschi, Crispino Valenziano pubblica una serrata analisi dell’opera, che vuole andare alle sue radici teologiche: San Paolo e San Pietro di Michelangelo nella Cappella Paolina in Vaticano (Libreria Editrice Vaticana, 101 pagine, 14,50 euro). Intanto si può essere d’accordo, come molti hanno già indicato, nel vedere il ritratto del tormentato artista nei volti di san Paolo caduto dal cavallo e di un personaggio che medita, come in disparte, nella crocifissione di san Pietro.
Molto assomigliano al Nicodemo della Pietà di Firenze. Quell’uomo era stato nominato da poco capo della Fabbrica di San Pietro e, dal cuore della cristianità, seguiva con attenzione lo svolgersi del Concilio di Trento, apertosi nel 1545. Nel febbraio 1546 era morto Lutero.
Una domanda relativa a questo periodo michelangiolesco ha attraversato la storia dell’arte: il circolo di Vittoria Colonna aveva tendenze protestanti? A volte sembra una domanda strumentale all’intorbidamento delle acque nell’arte cristiana. Certo è che un cenacolo della Colonna veniva chiamato a Roma, che se ne parlasse a favore o contro, la «chiesa viterbese». Ma leggendo le lettere si scopre che il gruppo spiccava semmai per una spiritualità molto forte e intima e per una apertura mentale non comune nella Roma dell’epoca: «…aspettar con preparato animo substantiosa occasione di servirvi, pregando quell Signore, del quale con tanto ardente et humil core mi parlaste al mio partir da Roma, che io vi trovi al mio ritorno con l’imagin sua sì rinovata et per vera fede nel anim vostra, come ben l’avete dipinta nella mia Samaritana», scriveva Vittoria.
Del gruppo faceva parte anche Reginald Pole, cugino di Enrico VIII al quale aveva tentato d’impedire un’avventura troppo pericolosa.
Paolo III lo aveva voluto nella commissione De Emendanda Ecclesia, cardinale e legato papale al Concilio. Suo fu il discorso inaugurale. Ma si dovette persino allontare temporaneamente perché trovò molti avversari nell’ala rigorosamente tradizionalista. Oggi si può dire che la sua posizione sul tema del momento, la giustificazione, era ben ortodossa, ma che egli era «conciliatorista», vale a dire non trovava giusto la semplice respinta delle tesi luterane senza tentare neanche un approfondimento dialogico. Teologicamente, la conclusione della commissioni mista di teologi protestanti e cattolici del 1999 - purtroppo poco nota - gli ha dato ragione. Pole e I suoi amici vivevano un radicale spiritualismo, ma nell’obbedienza alla chiesa di Roma. Tutto ciò traspare negli affreschi. La caduta di san Paolo è il trionfo della grazia, con un Cristo che si tuffa dal cielo preceduto da una luce abbagliante. La grazia inonda Paolo, ma la mano sinistra di Cristo indica la città di Damasco (che potrebbe assomigliare alla Roma classica): là ti verrà detto cosa devi «fare» (le opere). La fede, insomma, non à mai disgiunta dalla carità, pena la sua stessa morte. E l’apostolato è la più grande carità. Questo sembra dire l’affresco. In quello di Pietro fu Michelangelo stesso a cambiare soggetto: non la chiamata, come voleva il papa, ma il martirio, l’opera suprema in risposta alla fede. Entrambe furono composizioni innovative.Un esempio per tutti i dipinti di soggetto simile di Caravaggio, considerando però la versione Odescalchi della conversione di Paolo.Notevole questa inquadratura di Valenziano, che va a evidenziare l’unico modo per comprendere la decorazione della cappella.
«Avvenire» del 7 maggio 2010
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