Più feroci (e più curiosi)
di Maria Laura Rodotà
Il Web ci umilia. Il Web ci rende feroci. In compenso, il Web ci rende curiosi e ci fa navigare tra chi non la pensa come noi. A leggere analisi e ricerche rese note negli ultimi giorni, il bilancio sembra in pareggio. Il «Wall Street Journal» si indigna su quello (o quelli, la storiella è ormai leggenda metropolitana) che ha postato la foto nuda della fidanzata traditrice su Facebook, sperando venisse diffusa.
Social networks uguale rischio umiliazione, state attenti. Il New York Times e Slate invece raccontano della ricerca che sta ribaltando i già radicati luoghi comuni dell’informazione online: non è (non sarebbe) vero che Internet polarizza e radicalizza le opinioni politiche, perché gli utenti tendono ad autoghettizzarsi nei siti con cui sono d’accordo. Anzi: chi si informa online è molto meno «ideologicamente segregato» di chi guarda la tv e legge solo giornali di carta. Perché tutto è a portata di clic, oramai. Notizie, opinioni e possibilità di sfogare rabbie varie in tempo reale.
In quanto. Chiunque sia su Facebook sa quanto sia facile usare il social network quando si è infuriati. È facile, fa danni immediati. Crea quella che il WSJ ha appena battezzato, «culture of humiliation», cultura dell’umiliazione. Viene massacrata una quasi certamente fattissima Whitney Houston, che continua a fare concerti ma non riesce a finire una canzone (il video in cui biascica disperatamente I Will Always Love You è stato molto condiviso). Vengono fondati gruppi contro Mario Balotelli, intemperante giocatore dell’Inter (per ora), e i titoli sono irriferibili. Sono riferibili, ma a dir poco avvilenti, i nomi dei gruppi ignoti e terrificanti che se la prendono con amici (insomma, amici) e compagni di scuola: «Per quelli che pensano che Cislaghi puzzi», per dire. Sembra innocente, ma se Cislaghi è in terza media, una cattiveria online del genere gli segnerà la vita.
In America, il mobbing via Facebook ha già provocato dei suicidi di adolescenti. C’è chi obietta che ci sono sempre stati, tra ragazzi marginalizzati e presi in giro. E chi sostiene che ora il rischio è maggiore. Grazie all’anonimato possibile sul Web (ci si può dare un’identità fittizia su Fb, farsi degli amici, e distruggere qualcuno a furia di post e foto). «Non bisogna più guardare l’altro negli occhi per insultarlo», ha detto al WSJ Parry Aftab, avvocato esperto in cyber-sicurezza. «Siamo tutti coraggiosi, alla tastiera. Ed è più facile attraversare il confine tra umorismo e crudeltà». Più facile anche causa bombardamento dei reality. A furia di vedere gente che si rende ridicola e si fa umiliare per aumentare l’audience, molti pensano sia normale.
Così, tra coraggio dell’anonimato e ferocia insegnata dalla tv, i bersagli si moltiplicano: immigrati, omosessuali, rom, Down, e altro. Spesso, per fortuna, da noi, nonostante le preoccupazioni per la cultura dell’odio, l’ironia prevale («Aiutiamo Scajola a trovare chi gli ha pagato la casa» è uno dei gruppi più popolari di questi giorni, per dire). E, tra chi usa il Web per leggere le notizie (non solo da noi), prevale la curiosità che fa andare sui siti di chi non la pensa come te. L’hanno scoperto, dopo molte rilevazioni statistiche, due studiosi della University of Chicago, Matthew Gentzkow e Jesse Shapiro. Smentendo il loro ex collega (ora collaboratore di Obama) Cass Sunstein, che aveva cupamente previsto un Daily Me, fatto di notizie preselezionate, che avrebbe isolato gli utenti. Invece, pare, no. Su Slate c’è un test per misurare l’isolamento ideologico. Si legge «per iniziare clicca qui». Una volta cliccato, è finito. Slate ha già letto e quantificato i siti visitati via computer dal cliccatore, ed emette la sentenza. Altro che umiliazione, paura.
Social networks uguale rischio umiliazione, state attenti. Il New York Times e Slate invece raccontano della ricerca che sta ribaltando i già radicati luoghi comuni dell’informazione online: non è (non sarebbe) vero che Internet polarizza e radicalizza le opinioni politiche, perché gli utenti tendono ad autoghettizzarsi nei siti con cui sono d’accordo. Anzi: chi si informa online è molto meno «ideologicamente segregato» di chi guarda la tv e legge solo giornali di carta. Perché tutto è a portata di clic, oramai. Notizie, opinioni e possibilità di sfogare rabbie varie in tempo reale.
In quanto. Chiunque sia su Facebook sa quanto sia facile usare il social network quando si è infuriati. È facile, fa danni immediati. Crea quella che il WSJ ha appena battezzato, «culture of humiliation», cultura dell’umiliazione. Viene massacrata una quasi certamente fattissima Whitney Houston, che continua a fare concerti ma non riesce a finire una canzone (il video in cui biascica disperatamente I Will Always Love You è stato molto condiviso). Vengono fondati gruppi contro Mario Balotelli, intemperante giocatore dell’Inter (per ora), e i titoli sono irriferibili. Sono riferibili, ma a dir poco avvilenti, i nomi dei gruppi ignoti e terrificanti che se la prendono con amici (insomma, amici) e compagni di scuola: «Per quelli che pensano che Cislaghi puzzi», per dire. Sembra innocente, ma se Cislaghi è in terza media, una cattiveria online del genere gli segnerà la vita.
In America, il mobbing via Facebook ha già provocato dei suicidi di adolescenti. C’è chi obietta che ci sono sempre stati, tra ragazzi marginalizzati e presi in giro. E chi sostiene che ora il rischio è maggiore. Grazie all’anonimato possibile sul Web (ci si può dare un’identità fittizia su Fb, farsi degli amici, e distruggere qualcuno a furia di post e foto). «Non bisogna più guardare l’altro negli occhi per insultarlo», ha detto al WSJ Parry Aftab, avvocato esperto in cyber-sicurezza. «Siamo tutti coraggiosi, alla tastiera. Ed è più facile attraversare il confine tra umorismo e crudeltà». Più facile anche causa bombardamento dei reality. A furia di vedere gente che si rende ridicola e si fa umiliare per aumentare l’audience, molti pensano sia normale.
Così, tra coraggio dell’anonimato e ferocia insegnata dalla tv, i bersagli si moltiplicano: immigrati, omosessuali, rom, Down, e altro. Spesso, per fortuna, da noi, nonostante le preoccupazioni per la cultura dell’odio, l’ironia prevale («Aiutiamo Scajola a trovare chi gli ha pagato la casa» è uno dei gruppi più popolari di questi giorni, per dire). E, tra chi usa il Web per leggere le notizie (non solo da noi), prevale la curiosità che fa andare sui siti di chi non la pensa come te. L’hanno scoperto, dopo molte rilevazioni statistiche, due studiosi della University of Chicago, Matthew Gentzkow e Jesse Shapiro. Smentendo il loro ex collega (ora collaboratore di Obama) Cass Sunstein, che aveva cupamente previsto un Daily Me, fatto di notizie preselezionate, che avrebbe isolato gli utenti. Invece, pare, no. Su Slate c’è un test per misurare l’isolamento ideologico. Si legge «per iniziare clicca qui». Una volta cliccato, è finito. Slate ha già letto e quantificato i siti visitati via computer dal cliccatore, ed emette la sentenza. Altro che umiliazione, paura.
«Corriere della Sera» del 7 maggio 2010
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