Spunta una lettera inedita in cui la scrittrice dice che l'uccisione di Gentile fu una carognata, i gappisti erano dei "cacasotto" e semmai dovevano ammazzare Croce, che "leccava il culo" al Duce. Oriana ha ragione su tutto, tranne sull'ultimo punto
di Marcello Veneziani
Ci voleva la zampata postuma di Oriana Fallaci, da morta, per rianimare il dibattito sulla cultura italiana. Ieri hanno fatto brillare una mina lasciata dalla bellicosa Oriana in una lettera inedita di dieci anni fa. È una lettera su Gentile, Croce e la viltà degli antifascisti, dura e schietta come nella prosa fallaciana, scritta a Chicco Testa e resa nota dal Riformista. In questa densa lettera (scritta a fine luglio del 2000), la Fallaci dice quattro cose: che l’assassinio di Gentile fu una carognata ingiusta e vigliacca. Che Gentile non era fascista. Che gli antifascisti furono dei «cacasotto» perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero il coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano minato. E infine, che avrebbero dovuto ammazzare Croce, che, parole sue, all’inizio «leccò il culo» a Mussolini, come molti intellettuali «che poi sarebbero diventati numi del Pci». In quattro mosse la Fallaci descrive con la sua brutale franchezza il Novecento intellettuale italiano.
Sì, l’assassinio di Gentile fu una carognata, ingiusta e vigliacca, ha ragione la Fallaci. Ma la cosa più grave che alla Fallaci sfugge fu che Gentile non fu ucciso perché fascista intransigente, ma al contrario perché puntava alla concordia, chiedeva a fascisti e antifascisti di sentirsi prima di tutto italiani e uniti nella tragedia della guerra. Questo non gli fu perdonato: non piaceva ai fascisti fanatici e spiazzava gli antifascisti feroci, in larga parte di estrazione comunista. De Felice distinse tra fascismo-movimento, radicale e rivoluzionario, e fascismo-regime, conservatore e autoritario. Io credo che esista anche un fascismo-partito e un fascismo-nazione, ovvero una visione militante e partigiana del fascismo; ed un fascismo-nazione che pensava al fascismo come al braccio secolare dell’Italia, nel senso che il fascismo era per loro la realizzazione dell’Italia nel Novecento, come il Risorgimento lo era stato nel secolo precedente; ma l’Italia era il punto fermo. A questa idea del fascismo-nazione aderirono Gentile e Rocco, Volpe e altri grandi. Anche la Repubblica sociale fu per loro una necessità storica ma non l’apoteosi del fascismo. Gentile vi aderì per coerenza col suo passato, Volpe si tenne in disparte, Rocco era già morto. Tutto il pensiero di Gentile era percorso dall’idea di unità, identità, comunità e non da quello di fazione e guerra civile.
Per la Fallaci, Gentile non era fascista; è una mezza verità. Sì, perché il suo pensiero si era compiuto prima che nascesse il fascismo: l’arco della sua teoria è già conchiuso nella prima guerra mondiale. Sul piano della cultura politica il suo fu un pensiero risorgimentale, percorso da un’idea della politica come religione civile e dello Stato come valore etico super partes. Con le pericolose controindicazioni totalitarie che sappiamo. La sua riforma della scuola non fu la più fascista delle riforme, come disse Mussolini, ma una grande riforma umanistica di idealismo educativo, percorsa da amor patrio. La sua «Enciclopedia» fu aperta a studiosi antifascisti. Ma la sua adesione al fascismo non fu un incidente di percorso e nemmeno un equivoco: l’idea dello Stato nel fascismo ebbe in lui il teorico più forte; la filosofia della guerra ebbe in Gentile la sua più alta elaborazione; il tentativo di annodare il fascismo al Risorgimento fu opera di Gentile sul piano filosofico e di Volpe sul piano storico. No, non fu occasionale il suo fascismo.
Dure ma veritiere poi le parole di Oriana Fallaci sugli antifascisti. Noto solo che quei partigiani non vollero sminare i ponti non solo per mancanza di coraggio, come lei scrive, ma perché -come insegna anche la vicenda via Rasella-Fosse ardeatine a Roma - c’era in alcuni capi partigiani la logica del tanto peggio tanto meglio. Ovvero le brutalità naziste potevano servire a generare un clima di odio verso i medesimi e i loro alleati fascisti, e quindi a legittimare la lotta antifascista, la guerra rivoluzionaria e le vendette più atroci.
Infine trovo ingiusto il giudizio della Fallaci su Croce. È vero che il primo Croce sostenne il fascismo e anzi lo alimentò anche teoricamente: le opere di Sorel, che furono breviari per il fascismo, le aveva portate lui in Italia. L’idea di un dittatore che rimettesse a posto l’Italia dopo il biennio rosso non dispiaceva a Croce. Ma pensava ad una dittatura momentanea, come ai tempi dei romani. E non dimentichiamo che, a differenza di Gentile, Croce non fu interventista; era e restava giolittiano. Poi, dal ’25 in avanti, avversò il fascismo, chiamò a raccolta gli intellettuali nel celebre manifesto, mantenne dignitoso dissenso, e pubblicò per quasi tutto il ventennio La Critica che fu una palestra di antifascismo. No, Croce non fu un «leccaculo» e nemmeno un voltagabbana.
E qui, infine, vorrei dire una cosa sugli intellettuali italiani. Li consideriamo opportunisti e vigliacchi, camaleonti e servili ma è giusto se ci riferiamo alle seconde file. I grandi intellettuali italiani del Novecento furono coerenti e pagarono di persona. Tralascio quanti combatterono o persero la vita nella prima guerra mondiale, interventisti intervenuti, ma dico Gentile e Gobetti, Gramsci e Martinetti, Rensi e Soffici, Bonaiuti e Ducati, Volpe e Marinetti o fra i più giovani Berto Ricci e Giaime Pintor. Alcuni furono uccisi, altri pagarono con l’emarginazione, l’esilio, la perdita delle loro cattedre. A differenza di altri intellettuali europei pusillanimi e defilati: penso ad esempio a Sartre o al grande Heidegger. Croce non patì per il suo antifascismo ma fu comunque sorvegliato e minacciato. Il vero errore degli intellettuali civili italiani fu che credettero alla coincidenza di cultura e politica, e così restarono prigionieri del loro sogno totalitario: dico Gentile, Gramsci, Gobetti. L’idea che cultura e politica coincidono fu la madre di tutte le più rovinose utopie e di quella brutta razza che fu l’intellettuale organico e asservito al potere.
Sciagurato è pure separare cultura e politica: più saggio è pensare alla loro continuità pur nell’autonomia delle sfere. Ma toglietevi il cappello quando parlate di loro, perché pagarono di persona le loro idee. E non confondeteli con la media, anzi con la marmaglia dei professori che giurarono per il regime e per le leggi razziali, pur essendo antifascisti, e poi saltarono il fosso. I mediocri galleggiano sempre, tra clan mafiosi e servitù; i grandi pagano la loro grandezza con la vita e la solitudine.
Sì, l’assassinio di Gentile fu una carognata, ingiusta e vigliacca, ha ragione la Fallaci. Ma la cosa più grave che alla Fallaci sfugge fu che Gentile non fu ucciso perché fascista intransigente, ma al contrario perché puntava alla concordia, chiedeva a fascisti e antifascisti di sentirsi prima di tutto italiani e uniti nella tragedia della guerra. Questo non gli fu perdonato: non piaceva ai fascisti fanatici e spiazzava gli antifascisti feroci, in larga parte di estrazione comunista. De Felice distinse tra fascismo-movimento, radicale e rivoluzionario, e fascismo-regime, conservatore e autoritario. Io credo che esista anche un fascismo-partito e un fascismo-nazione, ovvero una visione militante e partigiana del fascismo; ed un fascismo-nazione che pensava al fascismo come al braccio secolare dell’Italia, nel senso che il fascismo era per loro la realizzazione dell’Italia nel Novecento, come il Risorgimento lo era stato nel secolo precedente; ma l’Italia era il punto fermo. A questa idea del fascismo-nazione aderirono Gentile e Rocco, Volpe e altri grandi. Anche la Repubblica sociale fu per loro una necessità storica ma non l’apoteosi del fascismo. Gentile vi aderì per coerenza col suo passato, Volpe si tenne in disparte, Rocco era già morto. Tutto il pensiero di Gentile era percorso dall’idea di unità, identità, comunità e non da quello di fazione e guerra civile.
Per la Fallaci, Gentile non era fascista; è una mezza verità. Sì, perché il suo pensiero si era compiuto prima che nascesse il fascismo: l’arco della sua teoria è già conchiuso nella prima guerra mondiale. Sul piano della cultura politica il suo fu un pensiero risorgimentale, percorso da un’idea della politica come religione civile e dello Stato come valore etico super partes. Con le pericolose controindicazioni totalitarie che sappiamo. La sua riforma della scuola non fu la più fascista delle riforme, come disse Mussolini, ma una grande riforma umanistica di idealismo educativo, percorsa da amor patrio. La sua «Enciclopedia» fu aperta a studiosi antifascisti. Ma la sua adesione al fascismo non fu un incidente di percorso e nemmeno un equivoco: l’idea dello Stato nel fascismo ebbe in lui il teorico più forte; la filosofia della guerra ebbe in Gentile la sua più alta elaborazione; il tentativo di annodare il fascismo al Risorgimento fu opera di Gentile sul piano filosofico e di Volpe sul piano storico. No, non fu occasionale il suo fascismo.
Dure ma veritiere poi le parole di Oriana Fallaci sugli antifascisti. Noto solo che quei partigiani non vollero sminare i ponti non solo per mancanza di coraggio, come lei scrive, ma perché -come insegna anche la vicenda via Rasella-Fosse ardeatine a Roma - c’era in alcuni capi partigiani la logica del tanto peggio tanto meglio. Ovvero le brutalità naziste potevano servire a generare un clima di odio verso i medesimi e i loro alleati fascisti, e quindi a legittimare la lotta antifascista, la guerra rivoluzionaria e le vendette più atroci.
Infine trovo ingiusto il giudizio della Fallaci su Croce. È vero che il primo Croce sostenne il fascismo e anzi lo alimentò anche teoricamente: le opere di Sorel, che furono breviari per il fascismo, le aveva portate lui in Italia. L’idea di un dittatore che rimettesse a posto l’Italia dopo il biennio rosso non dispiaceva a Croce. Ma pensava ad una dittatura momentanea, come ai tempi dei romani. E non dimentichiamo che, a differenza di Gentile, Croce non fu interventista; era e restava giolittiano. Poi, dal ’25 in avanti, avversò il fascismo, chiamò a raccolta gli intellettuali nel celebre manifesto, mantenne dignitoso dissenso, e pubblicò per quasi tutto il ventennio La Critica che fu una palestra di antifascismo. No, Croce non fu un «leccaculo» e nemmeno un voltagabbana.
E qui, infine, vorrei dire una cosa sugli intellettuali italiani. Li consideriamo opportunisti e vigliacchi, camaleonti e servili ma è giusto se ci riferiamo alle seconde file. I grandi intellettuali italiani del Novecento furono coerenti e pagarono di persona. Tralascio quanti combatterono o persero la vita nella prima guerra mondiale, interventisti intervenuti, ma dico Gentile e Gobetti, Gramsci e Martinetti, Rensi e Soffici, Bonaiuti e Ducati, Volpe e Marinetti o fra i più giovani Berto Ricci e Giaime Pintor. Alcuni furono uccisi, altri pagarono con l’emarginazione, l’esilio, la perdita delle loro cattedre. A differenza di altri intellettuali europei pusillanimi e defilati: penso ad esempio a Sartre o al grande Heidegger. Croce non patì per il suo antifascismo ma fu comunque sorvegliato e minacciato. Il vero errore degli intellettuali civili italiani fu che credettero alla coincidenza di cultura e politica, e così restarono prigionieri del loro sogno totalitario: dico Gentile, Gramsci, Gobetti. L’idea che cultura e politica coincidono fu la madre di tutte le più rovinose utopie e di quella brutta razza che fu l’intellettuale organico e asservito al potere.
Sciagurato è pure separare cultura e politica: più saggio è pensare alla loro continuità pur nell’autonomia delle sfere. Ma toglietevi il cappello quando parlate di loro, perché pagarono di persona le loro idee. E non confondeteli con la media, anzi con la marmaglia dei professori che giurarono per il regime e per le leggi razziali, pur essendo antifascisti, e poi saltarono il fosso. I mediocri galleggiano sempre, tra clan mafiosi e servitù; i grandi pagano la loro grandezza con la vita e la solitudine.
«Il Giornale» del 10 maggio 2010
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