Tra i grandi temi del prossimo Salone del Libro ci sarà il declino delle recensioni, strette tra la crescente insofferenza degli scrittori e la sempre più frequente confusione con il marketing
di Fulvio Panzeri
Gli scrittori non amano più i critici, soprattutto se osano fare appunti sulle loro scelte narrative; gli editori cercano di portarsi i critici al loro fianco per farli diventare parte di un gioco di convincimento sulla presunta grandezza di uno scrittore; i lettori cercano voci autorevoli che possano guidarli nelle loro scelte di lettura, ma diventa difficile trovare oggi una critica che sia veramente indipendente e soprattutto difenda la possibilità di contribuire con un esercizio critico, condivisibile o meno, ma autentico, autonomo, controcorrente se necessario, che non tiene conto di favori da prestare o di amicizie da non deludere. Oggi, lo ha ricordato anche Giulio Ferroni, domenica scorsa sul 'Corriere della Sera', la critica è in una profonda crisi e viene recepita da anni come decrepita, se non addirittura morta. Non sono più gli anni Sessanta e Settanta dove le recensioni erano concepite come dei 'micro-saggi' e venivano pubblicate da tutti i quotidiani, con una serie di 'critici designati' come voce del giornale, in fatto di libri.
Pietro Citati ha iniziato come critico per 'Il Giorno'; Carlo Bo è stato l’autorevolissima voce critica e morale del 'Corriere della Sera'; Geno Pampaloni ha fatto del suo spazio scritto sulle colonne de 'Il Giornale' di Montanelli, una sorta di personale ed etico diario di riflessione sulle sue letture; Giuliano Gramigna indagava le scritture più sperimentali, con una personalissima lettura strutturale, rivelatrice dei significati del testo; Giuseppe Bonura ha riletto, attraverso la sua attività critica, da vero iconoclasta, e in divenire, il secondo Novecento; Grazia Cherchi, prematuramente scomparsa, aveva un ruvido, ma acutissimo approccio ai libri degli altri. La critica spesso veniva affidata anche agli scrittori, che in alcuni casi hanno dato modo di definire un nuovo approccio, meno critico ma più interpretativo, del libro: è il caso di due scrittori molto lontani tra di loro come Giorgio Manganelli e Pier Vittorio Tondelli. Come è possibile intuire, la critica ha avuto una grande tradizione, anche di esemplarità etica dell’esercizio critico, di indipendenza dai vari salotti mondani-letterari che sono il vero centro nevralgico della società letteraria di casa nostra. Perché tutto cambia e perde di valore in Italia (si veda il caso appunto della critica letteraria), ma il vero trasformista, colui che rinasce sempre, è il salotto mondano, che via via ha avuto nei decenni i suoi cerimonieri e le sue dame di potere, d’alta borghesia illuminata, ma anche dei nuovi ricchi radical-chic, dei progressisti e via dicendo. Salotti che ci sono anche oggi e dove certi critici si trovano più a loro agio che sulle pagine dei giornali su cui scrivono, a senso unico e naturalmente nella direttiva del 'salotto', compiacendo editori e agenti letterari. Oggi la critica non è più amata dai giornali: un libro interessa di più per altri fattori, che sono diversi dall’esercizio critico. Deve rappresentare un caso, deve essere legato ad una storia da raccontare, deve fare un po’ di spettacolo per attirare il lettore. Così vari critici si sono convertiti all’arte della sublimazione, gridando al capolavoro per romanzetti gialli di serie B, o per mistici e dannunziani furori da romanzo rosa impegnato; oppure a quella della denigrazione (stroncare per il puro piacere di farlo), per 'bucare' la pagina e essere sempre al centro dell’attenzione. I critici veramente 'militanti' e 'indipendenti' sono rimasti decisamente in pochi. Mosche bianche. Sui settimanali le pagine di recensione sono praticamente scomparse per lasciare spazio a mini-segnalazioni, della lunghezza delle 'massime' dei Baci Perugina. Sui quotidiani sembrano timidamente ritornare le pagine 'Libri', in cui però lo spazio di recensione vera e propria è sempre minoritario rispetto a quello degli articoli di informazione e di descrizione dei libri. Che i critici ormai contino poco nella società letteraria non lo dice solo la loro lenta estinzione dalle pagine dei giornali, ma lo hanno dichiarato apertamente anche i premi letterari: come ha fatto il Campiello, qualche anno fa, facendo fuori e rinnovando da zero una 'giuria dei letterati', per la maggior parte composta dai critici letterari di varie testate, con una giuria sempre di 'letterati', ma dove è in nettissima minoranza il critico militante e dove si trovano varie personalità del mondo universitario o del cinema (il cotè mondano che ritorna a domi- nare). Mentre il premio Strega è manovrato dalla società letteraria: più che la critica contano le amicizie. La sua parte di responsabilità ce l’ha anche la critica letteraria italiana: se la sua considerazione frana così inesorabilmente, il motivo principale sta nell’asservimento cui molta critica si è sottomessa, non distinguendo più i ruoli diversi che esistono tra chi pubblica il libro (l’editore) e chi è demandato a giudicarlo (il critico). Quest’ultimo sembra aver rinunciato al proprio ruolo di ricerca e di viaggio tra le scritture della narrativa italiana. Si occupa solo, e in senso positivo, dei libri che vanno in classifica e delle sollecitazioni, che spesso sono imbarazzanti, degli uffici stampa. Giocando in modo disonesto, il critico finisce per perdere credibilità.
Anche lui diventa non più un elemento di qualità e di confronto, ma un’esca per attirare ignari lettori. Può rinascere certamente la critica, ma su basi nuove, sul richiamo all’indipendenza di giudizio, alla stroncatura vista come libertà di esercizio e non come spesso viene usata come arma impropria per rese di conti personali, alla libera scelta di ciò che si vuol recensire, alla riscoperta del valore della scrittura. Lo auspica anche Ferroni, ha ragione quando scrive che «la critica ha senso se cerca una letteratura che sia conoscenza e non mero intrattenimento, che interroghi ciò che è davvero essenziale per il nostro destino, che miri a saldare il nostro passato con un futuro davvero possibile». Un futuro che potrà esserci anche per la critica se smette di passare il suo tempo nei salotti modaioli o facendosi raccontare al telefono il libro dall’ufficio stampa, per rimettersi a leggere seriamente, prima di scrivere.
Pietro Citati ha iniziato come critico per 'Il Giorno'; Carlo Bo è stato l’autorevolissima voce critica e morale del 'Corriere della Sera'; Geno Pampaloni ha fatto del suo spazio scritto sulle colonne de 'Il Giornale' di Montanelli, una sorta di personale ed etico diario di riflessione sulle sue letture; Giuliano Gramigna indagava le scritture più sperimentali, con una personalissima lettura strutturale, rivelatrice dei significati del testo; Giuseppe Bonura ha riletto, attraverso la sua attività critica, da vero iconoclasta, e in divenire, il secondo Novecento; Grazia Cherchi, prematuramente scomparsa, aveva un ruvido, ma acutissimo approccio ai libri degli altri. La critica spesso veniva affidata anche agli scrittori, che in alcuni casi hanno dato modo di definire un nuovo approccio, meno critico ma più interpretativo, del libro: è il caso di due scrittori molto lontani tra di loro come Giorgio Manganelli e Pier Vittorio Tondelli. Come è possibile intuire, la critica ha avuto una grande tradizione, anche di esemplarità etica dell’esercizio critico, di indipendenza dai vari salotti mondani-letterari che sono il vero centro nevralgico della società letteraria di casa nostra. Perché tutto cambia e perde di valore in Italia (si veda il caso appunto della critica letteraria), ma il vero trasformista, colui che rinasce sempre, è il salotto mondano, che via via ha avuto nei decenni i suoi cerimonieri e le sue dame di potere, d’alta borghesia illuminata, ma anche dei nuovi ricchi radical-chic, dei progressisti e via dicendo. Salotti che ci sono anche oggi e dove certi critici si trovano più a loro agio che sulle pagine dei giornali su cui scrivono, a senso unico e naturalmente nella direttiva del 'salotto', compiacendo editori e agenti letterari. Oggi la critica non è più amata dai giornali: un libro interessa di più per altri fattori, che sono diversi dall’esercizio critico. Deve rappresentare un caso, deve essere legato ad una storia da raccontare, deve fare un po’ di spettacolo per attirare il lettore. Così vari critici si sono convertiti all’arte della sublimazione, gridando al capolavoro per romanzetti gialli di serie B, o per mistici e dannunziani furori da romanzo rosa impegnato; oppure a quella della denigrazione (stroncare per il puro piacere di farlo), per 'bucare' la pagina e essere sempre al centro dell’attenzione. I critici veramente 'militanti' e 'indipendenti' sono rimasti decisamente in pochi. Mosche bianche. Sui settimanali le pagine di recensione sono praticamente scomparse per lasciare spazio a mini-segnalazioni, della lunghezza delle 'massime' dei Baci Perugina. Sui quotidiani sembrano timidamente ritornare le pagine 'Libri', in cui però lo spazio di recensione vera e propria è sempre minoritario rispetto a quello degli articoli di informazione e di descrizione dei libri. Che i critici ormai contino poco nella società letteraria non lo dice solo la loro lenta estinzione dalle pagine dei giornali, ma lo hanno dichiarato apertamente anche i premi letterari: come ha fatto il Campiello, qualche anno fa, facendo fuori e rinnovando da zero una 'giuria dei letterati', per la maggior parte composta dai critici letterari di varie testate, con una giuria sempre di 'letterati', ma dove è in nettissima minoranza il critico militante e dove si trovano varie personalità del mondo universitario o del cinema (il cotè mondano che ritorna a domi- nare). Mentre il premio Strega è manovrato dalla società letteraria: più che la critica contano le amicizie. La sua parte di responsabilità ce l’ha anche la critica letteraria italiana: se la sua considerazione frana così inesorabilmente, il motivo principale sta nell’asservimento cui molta critica si è sottomessa, non distinguendo più i ruoli diversi che esistono tra chi pubblica il libro (l’editore) e chi è demandato a giudicarlo (il critico). Quest’ultimo sembra aver rinunciato al proprio ruolo di ricerca e di viaggio tra le scritture della narrativa italiana. Si occupa solo, e in senso positivo, dei libri che vanno in classifica e delle sollecitazioni, che spesso sono imbarazzanti, degli uffici stampa. Giocando in modo disonesto, il critico finisce per perdere credibilità.
Anche lui diventa non più un elemento di qualità e di confronto, ma un’esca per attirare ignari lettori. Può rinascere certamente la critica, ma su basi nuove, sul richiamo all’indipendenza di giudizio, alla stroncatura vista come libertà di esercizio e non come spesso viene usata come arma impropria per rese di conti personali, alla libera scelta di ciò che si vuol recensire, alla riscoperta del valore della scrittura. Lo auspica anche Ferroni, ha ragione quando scrive che «la critica ha senso se cerca una letteratura che sia conoscenza e non mero intrattenimento, che interroghi ciò che è davvero essenziale per il nostro destino, che miri a saldare il nostro passato con un futuro davvero possibile». Un futuro che potrà esserci anche per la critica se smette di passare il suo tempo nei salotti modaioli o facendosi raccontare al telefono il libro dall’ufficio stampa, per rimettersi a leggere seriamente, prima di scrivere.
«Avvenire» del 30 aprile 2010
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