La triste deriva di Strasburgo
di Carlo Cardia
La Corte di Strasburgo ha aperto le ostilità contro il crocifisso nelle scuole, con una sentenza che non soltanto è andata oltre le sue competenze (e la sua stessa giurisprudenza), ma ha dato una interpretazione gelida, esclusivista, antiumanistica della libertà religiosa. Perché la libertà religiosa è una libertà aperta a tutti, inclusiva, che dialoga e insegna ai giovani a dialogare con gli altri, a vedere nei simboli religiosi segni di affratellamento tra gli uomini. La Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 prevede che il ragazzo sia educato «nel rispetto dei valori nazionali del Paese nel quale vive e del Paese di cui può essere originario e delle civiltà diverse dalla sua» (articolo 29). Per Strasburgo questa Convenzione non esiste. Esiste l’assenza di valori, esiste un deserto nel quale ciascuno di noi nasce per caso, senza una storia ricca di eventi, eroismi, valori e simboli religiosi ed etici, tra i quali il crocifisso è il più noto in tutto il mondo.
L’aspetto più doloroso della pronuncia è quando essa parla del crocifisso come di un simbolo di parte, che divide e limita la libertà di educazione, ignorando che il crocifisso è, dovunque, simbolo di pace e di amore tra gli uomini, è all’origine di una spiritualizzazione che ha animato e permeato la cultura occidentale per espandersi con linguaggio universale in tutto il pianeta. Il crocifisso ricorda chi è andato incontro alla morte senza colpa per aver trasmesso un messaggio di spiritualità e di fratellanza, chi ha predicato l’amore per il prossimo come comandamento eguale all’amore verso Dio, chi ha annunciato nel discorso della Montagna il riscatto per gli ultimi e per chi soffre dell’ingiustizia, ha promesso il regno di Dio a chi opera bene nella vita terrena andando incontro agli altri, a chi è malato, a chi non ha nulla e ha bisogno di tutto. Questo è Gesù di Nazaret raffigurato nel simbolo della Croce. Per questi insegnamenti – e per aver alimentato la fede e la spiritualità di generazioni di uomini nel corso dei secoli – è conosciuto, amato, rispettato e venerato in tutti gli angoli della terra. Aprire le ostilità verso il crocifisso vuol dire opporsi a quanto di più alto e spirituale sia entrato nella storia dell’umanità, vuol dire fare la guerra a se stessi e alla propria coscienza. Per sette giudici di Strasburgo il crocifisso non sarebbe un simbolo neutrale, ma dietro questa asserita neutralità si nasconderebbe un provincialismo arido, un vuoto antropologico, perfino un filo di ignavia. Scriveva Jhoann Ficthe che «il cuore del cosmopolita non è ospizio per nessuno», intendendo dire che gli uomini hanno radici e identità, senza le quali non possono parlare con altri, non possono accogliere con amore altre persone. Un Paese che voglia essere soltanto neutrale sarebbe un guscio vuoto, una parentesi fredda nel fluire della storia. Anche un’Europa che giunga al punto di negare, nascondere, o abbattere, la propria tradizione e identità cristiana diventerebbe una terra di nessuno, derisa dagli altri, incapace di trasmettere i suoi valori più profondi, di confrontarsi con altri popoli e continenti proprio in un’epoca di globalizzazione che chiede incontro e dialogo.
Quale europeo avrebbe il coraggio di chiedere all’Asia buddista di togliere dagli spazi pubblici i simboli di Buddha il compassionevole, o all’Asia induista le ricche raffigurazioni di quella religione, o ai musulmani di nascondere il Corano, tacere il nome di Allah in pubblico e celare la propria fede nelle scuole? Nessuno avrebbe il coraggio di farlo, perché proverebbe istintivamente vergogna interiore nel proporre agli altri di spogliarsi della propria storia e tradizione religiosa. Chi predicasse questa neutralità sarebbe respinto come un estraneo, riguardato come un essere senza cuore e passione. Il crocifisso non divide gli uomini, li unisce in un orizzonte di valori che sono a servizio dell’umanità intera, alla base del dialogo interreligioso per il bene degli uomini e della società. Con questa sentenza, una certa Europa perde di nuovo l’innocenza, come altre volte è avvenuto in passato, perché tradisce sé e le proprie origini, apre una ferita nella propria anima, e offende con il crocifisso tutti i simboli e ogni coscienza religiosa. Se applicassimo la pronuncia di Strasburgo al mondo intero, questo – come ha notato ieri il presidente della Cei, cardinal Bagnasco – diverrebbe più povero. E si allontanerebbe un po’ dal cielo. Ma la stragrande maggioranza degli uomini non vorrebbe una deriva così triste e continuerebbe a venerare ed esibire con orgoglio i simboli della propria fede.
L’aspetto più doloroso della pronuncia è quando essa parla del crocifisso come di un simbolo di parte, che divide e limita la libertà di educazione, ignorando che il crocifisso è, dovunque, simbolo di pace e di amore tra gli uomini, è all’origine di una spiritualizzazione che ha animato e permeato la cultura occidentale per espandersi con linguaggio universale in tutto il pianeta. Il crocifisso ricorda chi è andato incontro alla morte senza colpa per aver trasmesso un messaggio di spiritualità e di fratellanza, chi ha predicato l’amore per il prossimo come comandamento eguale all’amore verso Dio, chi ha annunciato nel discorso della Montagna il riscatto per gli ultimi e per chi soffre dell’ingiustizia, ha promesso il regno di Dio a chi opera bene nella vita terrena andando incontro agli altri, a chi è malato, a chi non ha nulla e ha bisogno di tutto. Questo è Gesù di Nazaret raffigurato nel simbolo della Croce. Per questi insegnamenti – e per aver alimentato la fede e la spiritualità di generazioni di uomini nel corso dei secoli – è conosciuto, amato, rispettato e venerato in tutti gli angoli della terra. Aprire le ostilità verso il crocifisso vuol dire opporsi a quanto di più alto e spirituale sia entrato nella storia dell’umanità, vuol dire fare la guerra a se stessi e alla propria coscienza. Per sette giudici di Strasburgo il crocifisso non sarebbe un simbolo neutrale, ma dietro questa asserita neutralità si nasconderebbe un provincialismo arido, un vuoto antropologico, perfino un filo di ignavia. Scriveva Jhoann Ficthe che «il cuore del cosmopolita non è ospizio per nessuno», intendendo dire che gli uomini hanno radici e identità, senza le quali non possono parlare con altri, non possono accogliere con amore altre persone. Un Paese che voglia essere soltanto neutrale sarebbe un guscio vuoto, una parentesi fredda nel fluire della storia. Anche un’Europa che giunga al punto di negare, nascondere, o abbattere, la propria tradizione e identità cristiana diventerebbe una terra di nessuno, derisa dagli altri, incapace di trasmettere i suoi valori più profondi, di confrontarsi con altri popoli e continenti proprio in un’epoca di globalizzazione che chiede incontro e dialogo.
Quale europeo avrebbe il coraggio di chiedere all’Asia buddista di togliere dagli spazi pubblici i simboli di Buddha il compassionevole, o all’Asia induista le ricche raffigurazioni di quella religione, o ai musulmani di nascondere il Corano, tacere il nome di Allah in pubblico e celare la propria fede nelle scuole? Nessuno avrebbe il coraggio di farlo, perché proverebbe istintivamente vergogna interiore nel proporre agli altri di spogliarsi della propria storia e tradizione religiosa. Chi predicasse questa neutralità sarebbe respinto come un estraneo, riguardato come un essere senza cuore e passione. Il crocifisso non divide gli uomini, li unisce in un orizzonte di valori che sono a servizio dell’umanità intera, alla base del dialogo interreligioso per il bene degli uomini e della società. Con questa sentenza, una certa Europa perde di nuovo l’innocenza, come altre volte è avvenuto in passato, perché tradisce sé e le proprie origini, apre una ferita nella propria anima, e offende con il crocifisso tutti i simboli e ogni coscienza religiosa. Se applicassimo la pronuncia di Strasburgo al mondo intero, questo – come ha notato ieri il presidente della Cei, cardinal Bagnasco – diverrebbe più povero. E si allontanerebbe un po’ dal cielo. Ma la stragrande maggioranza degli uomini non vorrebbe una deriva così triste e continuerebbe a venerare ed esibire con orgoglio i simboli della propria fede.
«Avvenire» del 5 ottobre 2009
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