06 novembre 2009

I giovani autori italiani? Nichilisti e provinciali

Autoreferenziali e minimalisti, confondono la cronaca con il senso dell’esistenza: il panorama letterario è arido. Non ci sono più le grandi narrazioni, ai personaggi manca l'anima e lo stile è anonimo
di Ferruccio Parazzoli
Dov’è l’amato e odiato Céline? E il faustiano Thomas Mann? Dove il deprecato Mishima? Dove la geniale ingenuità di un Serpente piumato? E Caldwell con la sua testa da taglialegna? Dove gli allegri e tragici bevitori di Steinbeck? E Malcolm Lowry in meditazione alcolica ai piedi del Popocatepetl? Camus con la sigaretta all’angolo della bocca, l’occhio strabico di Sartre, il bevitore di Roth, e Vittorini che affascinava anche se non sapeva scrivere romanzi, Comisso tra entroterra e mare, Malraux eroico e menzognero, Bernanos atticciato d’ira contro gli imbecilli, il sottile Kawabata vigile tra fanciulle addormentate, Santiago e il grande marlin, la luce di Faulkner, i torbidi di Moravia, la Sicilia di Sciascia, le ipocondrie di Gadda, le bordate corsare di Pasolini, l’infido Capote, i santi vagabondi di Kerouac, lo sguardo obliquo di Malaparte, il labbro cadente di Montale, l’occhio rapace di Ungaretti...
«Tutti, tutti dormono sulla collina», come sussurrava Lee Masters. Perché, per quanto scrivano e parlino, non più altri scrittori sono diventati miti? La loro voce va dispersa, soffocata dal nichilismo di massa di cui gli scrittori stessi fanno parte per assuefatta e inconscia assimilazione. Eppure sono abili, “altrimenti abili”. Che cosa manca allo scrittore “altrimenti abile”? L’Ideologia, la Passione, la Fede; che gli manchi la Guerra? Una letteratura senza identità per una società senza identità.
Il dio Pan altri non era se non il gioioso affrontamento del rischio. Se abbandonato dal démone del rischio, l’oracolo è muto. L’accettazione del rischio è comunque un attentato all’ordine subdolamente imposto da una società nichilista che ha fatto della propria debolezza la misura della propria esistenza creando l’illusione rassicurante di una realtà all’altezza del nostro ombelico, cioè di noi stessi nella nostra accettata miopia. Pessimi discepoli di Flaubert, crediamo che Madame Bovary sia la storia di una provinciale insoddisfatta e adultera. Pessimo maestro, Flaubert sembra autorizzarci a usare il cannocchiale alla rovescia in cui l’universo ci appare talmente piccolo da illuderci che le nostre ubbie, i nostri poveri amori di un giorno o di un mese, i nostri tradimenti, perfino i nostri delitti come le nostre impotenze, il nostro io malato siano la realtà più importante da tramandare. Ma lo stesso Flaubert non vedeva più in là delle proprie ossessioni: insuperabile almeno in questo, trasformerà una tragedia in una posateria di reperti e la chiamerà Salambò. Paul Bourget lo inserirà nell’elenco dei nichilisti «bramosi del nulla».
Talvolta, nel nostro sonno provinciale e minimalista, sorpresi da un sobbalzo interiore, non sapendo più che nome dargli, ci affrettiamo a discuterne a voce troppo alta – come ci hanno insegnato i politici – perché, come Nietzsche diceva di Pascal, ne abbiamo paura. Le nostre piccole baruffe casalinghe le chiamiamo dibattiti.
Rischio è liberarci sia da chi ci tiene occupati facendoci correre dietro a falsi problemi, sia da chi ci rassicura con le passerelle degli avanspettacoli.
Assumere il rischio è fare una scelta e la scelta provoca scandalo nella società del nichilismo debole. Lo scandalo turba perché è la clamorosa smentita del minimalismo. Il miracolo è scandalo. «Che bisogno c’è di camminare sulle acque?», dice il sociologo scuotendo la testa con un sorriso. Se il tuo problema è un oscuro rodimento, che ti importa di camminare sull’acqua? Vai dallo psicanalista. E se per caso ti imbatti in qualcuno che si ostina a volerci camminare sopra, tu volta la faccia dall’altra parte. Sarà meglio per te, non si sa mai, rifuggi il ridicolo di credere ai miracoli. È rischioso soltanto guardare.
La scelta è moralistica? La scelta rende intolleranti? La scelta porta all’esclusione? Accettare o no. A che punto comincia la mia responsabilità, a che punto divento complice? È la domanda di ogni futuro terrorista, una domanda che rende sospetti. Il rischio è ambiguo.
Nella scelta del rischio, nell’uscire dall’apatia del nichilismo di massa c’è un punto in cui la strada si biforca: da una parte la disperazione, dall’altra la speranza. Entrambe pericolose. Il terrorismo è la follia della verità, il suicidio l’estrema affermazione della propria verità. Anche il nichilismo di massa protesta la propria verità: essere motivato dalla viltà. Ma «abbiamo l’arte per non morire di verità», dice Nietzsche.
Solo quando l’arte diventa mito aiuta a non morire delle verità del mondo.
«Non si raccontano più storie – scrive Camus auspicando il trionfo dell’assurdo contro coloro che, acquiescenti al nichilismo di massa, si adattano a descrivere, arredare, spiegare, fare cronaca, dare risposte soddisfacenti – ma si crea il proprio universo» (Il mito di Sisifo). Niente sarà più affascinante del momento in cui qualcuno, risvegliandosi dall’apatia del nichilismo di massa che svuota l’individuo e cancella il mito, rischierà di scegliere.
Lo scrittore di una società senza identità è simile a quell’uomo con la lanterna che si aggira inutilmente per il mercato alla ricerca di Dio. Ma non lo trova perché il Dio d’Occidente, come il grande dio Pan, a forza di tacere, ormai dimenticato, è morto. Oracolo disabitato, lo scrittore dimezzato s’ingegna a vendere sul mercato lo spettacolo di se stesso recitando le proprie minimali sciagure, talvolta cercando di alzare la voce per trovare compagni che come lui soffrano senza sapere più di quale malattia; talvolta lo attira il sangue delle cronache, impasta storie provvisorie di una società provvisoria, in continuo mutamento, che ha ritrovato la vecchia maschera italiana, buona ogni qual volta si sia perso ogni punto di riferimento: un volto che piange e ride di se stesso.
Vittima del nichilismo debole, egli stesso ammalato, lo scrittore dimezzato diviene scrittore “altrimenti abile” nell’ingegnarsi, magari con le improvvisate protesi del sociologismo e della cronaca, a ritrovare il fantasma di quanto prima creava per istinto grazie alla gioia assurda della creazione.
La sua scrittura, addomesticata dagli usi correnti e dalla generale indifferenza verso il linguaggio, suscita una galleria di anemici sconosciuti, personaggi di un’ora, di una breve stagione. Il nichilismo di massa non sopporta le Grandi Ombre. Lo scrittore “altrimenti abile” non ha più la forza di suscitare immortali fantasmi. Gli oracoli, ormai vuoti, non interessano più, non hanno più nulla da profetare e non hanno nulla da profetare perché non interessano più: malati della medesima malattia della società, la fede in loro viene meno ogni giorno.
Lo scrittore “altrimenti abile”, memore dei tempi passati in cui l’ispirazione, tanto derisa, non era ancora morta, talvolta ha un sussulto, lancia un richiamo. Ne risulta un guaito che va sbattendosi e sconciandosi contro le pareti delle cronache come una falena in una stanza, per cadere poi tra le chiacchiere degli addetti alle pulizie.
«Il Giornale» del 6 novembre 2009

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