04 novembre 2009

«Anticristiano, ha inventato il relativismo»

di Tommy Cappellini
Girava una vignetta satirica, a Parigi all’inizio degli anni Ottanta. Lacan, Barthes, Foucault e Lévi-Strauss, tutti e quattro in gonnellino di paglia da «tristi tropici», tutti e quattro a scaldarsi le mani, irresponsabili e sorridenti, intorno al fuoco dello strutturalismo, cioè a quelle fiamme che negli anni successivi avrebbero incenerito e sterilizzato la lussureggiante giungla della cultura umanista. Ne abbiamo parlato con Lucetta Scaraffia, autrice - per Vita e Pensiero, il bimestrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore - di un articolo critico intitolato: Lévi-Strauss, il trionfo del «pensiero selvaggio».
Da un certo punto di vista, non proprio un titolo positivo.
«In quel titolo ho parlato di trionfo perché Lévi-Strauss, comunque, è stato colui che ha letteralmente inventato l’antropologia come scienza, colui che l’ha resa immensamente di moda. Sull’immediato questo ha portato a un forte sviluppo culturale. Ma a lungo andare, è stato nefasto. Lévi-Strauss ha messo sullo stesso piano il pensiero dei selvaggi e il nostro, tenendo forse più la parte dei primi. Pensava che appartenessero a culture meno contaminate, perché non cristiane. Considerava distruttivo il cristianesimo».
Lévi-Strauss è forse il padre del relativismo?
«Possiamo ben dirlo, sì. Pensava che tutte le culture avessero lo stesso peso. Questo gli ha impedito di cogliere le differenze e di dare quei giudizi di valore che sono fondamentali per compiere delle scelte e avere una morale. Tristi tropici è un grande libro, ma suo malgrado rivela anche tutto il senso di colpa che l’Occidente prova, fino a trasformarlo in un rifiuto dell’Occidente verso se stesso. L’altro grande luogo comune messo in piedi da Lévi-Strauss è l’idea dell’uomo come parte del regno animale. Questo ha portato alla dimenticanza dell’esistenza del divino all’interno di ogni singolo essere umano».
Un tipo piuttosto freddo.
«Lo strutturalismo, di cui lui è certamente il padre, è di per se stesso un metodo freddo e distaccato. Richiede tantissimo materiale per non arrivare mai, in fondo, a una vera interpretazione della realtà, limitandosi a indagarla con l’ausilio di scienze il più possibili esatte. Rinuncia a cercare il senso profondo delle cose che studia. Anche Lévi-Strauss era così. Nelle interviste evitava sempre quelle grandi domande che impongono all’uomo un confronto col senso della vita. Diceva che non gli interessavano. Indagava la funzione dei miti e dei sacrifici, ma mai il loro significato, la domanda di senso, talora disperata, che troviamo dietro di essi».
L’eredità di Lévi-Strauss, oggi?
«Rimarrà come un grande scrittore, e come tale è stato pubblicato nella Pléiade. Scriveva benissimo, e questo è stato importante per la sua fama. Scrisse di arte, di musica, in particolare di Wagner, con grande maestria. Ma oggi né lui come scienziato né lo strutturalismo sono più di moda. Non sono più, per così dire, fecondi».
«Il Giornale» del 4 novembre 2009

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