di Redazione (?)
Il regista Milos Forman lasciando la Cecoslovacchia nel 1968, l’anno in cui il «nuovo corso» di Praga sarebbe stato represso dai carri armati sovietici, fece tappa a Berlino Ovest. Fu colpito dal fatto che il Muro che dal 1961 sbarrava l’accesso alla Germania dell’Est era ormai considerato con indifferenza e chi cercava di scappare non suscitava moti di solidarietà. La «spada piantata nel cuore dell’Europa» con le sue 165 «torri di guardia» e 232 «posti di tiro» lungo quindici chilometri tra le due zone di Berlino per poi proseguire per altri 130 chilometri di filo spinato lungo l’intero confine con la Germania di Bonn non era al centro delle proteste: le manifestazioni che il regista vedeva inneggiavano invece all’anticapitalismo e all’antimperialismo. «Mentre noi cecoslovacchi cercavamo di abbattere la bandiera rossa - commentò -, loro cercavano d’innalzarla». Era così da Washington a Parigi.
La storia del Muro di Berlino comprende anche il capitolo su come esso sia stato accettato in campo occidentale. La solitudine dell’opposizione che covava e riusciva a sopravvivere nella Germania Orientale e nel complesso dei Paesi caduti in mano al comunismo con l’occupazione sovietica del 1945 è infatti il tema più inquietante che percorre il saggio di Frederick Taylor, Il Muro di Berlino. 13 agosto 1961-9 novembre 1989 (Mondadori, pp. 392, 23 euro).
Il Muro ha rappresentato in modo concreto la sostanza dell’«idea comunista», il suo carattere antagonista (verso i Paesi atlantici) e repressivo (verso i popoli conquistati). Ma proprio quando dopo l’invasione della Cecoslovacchia il leader del Pcus proclamò la teoria della «sovranità limitata», negli anni Settanta calò l’attenzione sulle repressioni nei Paesi comunisti. Ed anche la presa di distanza che si ebbe da parte del Pci negli anni dell’«eurocomunismo» fu molto contenuta. Persino dopo «lo strappo» - e cioè il dissenso espresso da Enrico Berlinguer di fronte al colpo di stato militare in Polonia nel 1981 - i comunisti italiani tennero vivo il rapporto con le dittature comuniste: i «partiti fratelli», incluso quello polacco. Una delegazione del Pci fu infatti inviata a Varsavia nel marzo 1984 per riallacciare i rapporti e ancora, quasi alla vigilia della caduta del Muro, nel 1988 l’allora segretario del Pci, Alessandro Natta, dopo essere stato a Mosca per essere decorato dal presidente del Presidium del Soviet Supremo, Andreij Gromiko, della Medaglia d’onore del Pcus, l’«Ordine della Rivoluzione d’Ottobre», si recò a Berlino Est per ricevere dal leader della Germania comunista, Erich Honecker, una delle massime onorificenze del regime, il «Premio Karl Marx».
È da chiedersi quali reazioni ci sarebbero state all’epoca e quali giudizi storici sarebbero formulati oggi se democristiani o socialisti si fossero incontrati con i dittatori del Cile o della Grecia per ricevere onorificenze o per siglare comunicati congiunti circa «uno scambio di informazioni e valutazioni» senza cenno critico né presa di distanza.
La storia del Muro di Berlino comprende anche il capitolo su come esso sia stato accettato in campo occidentale. La solitudine dell’opposizione che covava e riusciva a sopravvivere nella Germania Orientale e nel complesso dei Paesi caduti in mano al comunismo con l’occupazione sovietica del 1945 è infatti il tema più inquietante che percorre il saggio di Frederick Taylor, Il Muro di Berlino. 13 agosto 1961-9 novembre 1989 (Mondadori, pp. 392, 23 euro).
Il Muro ha rappresentato in modo concreto la sostanza dell’«idea comunista», il suo carattere antagonista (verso i Paesi atlantici) e repressivo (verso i popoli conquistati). Ma proprio quando dopo l’invasione della Cecoslovacchia il leader del Pcus proclamò la teoria della «sovranità limitata», negli anni Settanta calò l’attenzione sulle repressioni nei Paesi comunisti. Ed anche la presa di distanza che si ebbe da parte del Pci negli anni dell’«eurocomunismo» fu molto contenuta. Persino dopo «lo strappo» - e cioè il dissenso espresso da Enrico Berlinguer di fronte al colpo di stato militare in Polonia nel 1981 - i comunisti italiani tennero vivo il rapporto con le dittature comuniste: i «partiti fratelli», incluso quello polacco. Una delegazione del Pci fu infatti inviata a Varsavia nel marzo 1984 per riallacciare i rapporti e ancora, quasi alla vigilia della caduta del Muro, nel 1988 l’allora segretario del Pci, Alessandro Natta, dopo essere stato a Mosca per essere decorato dal presidente del Presidium del Soviet Supremo, Andreij Gromiko, della Medaglia d’onore del Pcus, l’«Ordine della Rivoluzione d’Ottobre», si recò a Berlino Est per ricevere dal leader della Germania comunista, Erich Honecker, una delle massime onorificenze del regime, il «Premio Karl Marx».
È da chiedersi quali reazioni ci sarebbero state all’epoca e quali giudizi storici sarebbero formulati oggi se democristiani o socialisti si fossero incontrati con i dittatori del Cile o della Grecia per ricevere onorificenze o per siglare comunicati congiunti circa «uno scambio di informazioni e valutazioni» senza cenno critico né presa di distanza.
«Il Giornale» dell'8 novembre 2009
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