A proposito dell'ultimo film di Clint EastwoodLe
di Fernando Camon
Per chi scrive libri, il film è un’opera d’arte che gode di un favore iniquo. Un libro nuovo, appena esce, va allo sbaraglio della critica per sei-sette mesi, se è mediocre o sbagliato vien fermato, non arriva al successo. Il film funziona in tutt’altro modo. Anche un film mediocre o sbagliato può essere lanciato come un capolavoro, ancor prima che esca sugli schermi. In una settimana può anche rastrellare tutti i soldi che è costato. Dopo una settimana, la critica lo inquadra e lo giudica. Ma è tardi, spesso ormai il 'successo' è incamerato.
Sono andato a vedere Hereafter di Clint Eastwood con in testa giudizi irresistibili: Clint più invecchia più sforna capolavori, toccati gli ottant’anni ci regala il suo capolavoro assoluto, stavolta lancia uno sguardo sull’aldilà, vede qualcosa che nessuno ha mai visto, ce lo racconta con parole-immagini turbate-commosse, insinua il dubbio che qualcosa c’è, anche chi non crede esce dal cinema con l’idea che la morte non è la fine.
Prenoto il posto, non vorrei restar fuori. La prenotazione costa, ma è una buona idea, se tardavo di un quarto d’ora non potevo più entrare. È un multisala, la sala riservata a Clint è la più grande e la più contesa, quella dei film-evento. Mi siedo, guardo il pubblico: spettatori raffinati, non vedo bicchieroni di popcorn. Sono sicuro, tutti richiamati dai giudizi: 370mila italiani già corsi a vederlo in 4 giorni, la scena iniziale dello tsunami vale da sola un Oscar per gli effetti speciali, sono tre storie ma finiscono in una, il tema è un particolare aspetto dell’aldilà, più esattamente noi e i morti, come noi vediamo i morti ma anche come i morti vedono noi. Poiché tutti abbiamo dei morti, è un film che ci chiama in causa tutti.
Silenzio, comincia. Lo tsunami ha l’apocalittica violenza delle catastrofi bibliche: spiaggia brulicante di vita, l’Oceano si ritira come per prendere la rincorsa, ritirandosi scopre il fondo, poi costruisce una muraglia liquida alta come una città e la scaraventa sulla costa.
Via un’ondata sotto un’altra. Le ondate sbattono sulle costruzioni e le sradicano, poi scorrono per le vie trasportando auto, tavoli, ringhiere, frigoriferi, tutto. Le riprese son girate da sopra l’acqua e da sotto. La giornalista francese protagonista della prima storia va sotto, e sotto si sente il crac di una massa nera che le sbatte sul cranio. Poi lei resta inquadrata come attonita. È il tempo fra il di qua e il di là. C’è un medium americano che ha il potere, lui dice la maledizione, di entrare in questo tempo, collegarsi con i morti, sentire le loro parole, e dircele.
Un bambino inglese di 9 anni è figlio di una tossicodipendente, ha un fratello, godono quando la madre li manda a prendere una sostanza che (loro consultano Google) contrasta l’eroina. Vuol dire che sta guarendo. Ma dalla farmacia il piccolo non torna, un’auto l’ha travolto. Il fratellino vorrebbe collegarsi con lui, sentirlo parlare. Il medium si presta. È il momento di massima penetrazione di Clint nello spazio dell’aldilà. L’aldilà appare per lampi e squarci, è più detto che visto. Ma è l’aldilà dei medium, dove si muovono fantasmi proiettati dal di qua. La cosa più importante che il fratellino morto dice al fratellino vivo è: «Non mettere più quel berretto, è mio».
Un aldilà onirico, non metafisico. Incuriosisce, non interessa. Tanto meno un cattolico. Non interessa neanche i protagonisti, medium e giornalista francese, che infatti si mettono d’accordo per vivere insieme nel di qua, felici e contenti. 'V’è piaciuto?' chiedo agli spettatori che s’alzano in piedi intorno a me.
Rispondono: 'Lo tsunami'. Ma quella non è arte, è professionalità. Il film rivela un’ambizione immensa, ma inane. Se questo è ciò che Clint ha da dirci sull’Aldilà, tra ascoltarlo e non ascoltarlo non fa differenza.
Sono andato a vedere Hereafter di Clint Eastwood con in testa giudizi irresistibili: Clint più invecchia più sforna capolavori, toccati gli ottant’anni ci regala il suo capolavoro assoluto, stavolta lancia uno sguardo sull’aldilà, vede qualcosa che nessuno ha mai visto, ce lo racconta con parole-immagini turbate-commosse, insinua il dubbio che qualcosa c’è, anche chi non crede esce dal cinema con l’idea che la morte non è la fine.
Prenoto il posto, non vorrei restar fuori. La prenotazione costa, ma è una buona idea, se tardavo di un quarto d’ora non potevo più entrare. È un multisala, la sala riservata a Clint è la più grande e la più contesa, quella dei film-evento. Mi siedo, guardo il pubblico: spettatori raffinati, non vedo bicchieroni di popcorn. Sono sicuro, tutti richiamati dai giudizi: 370mila italiani già corsi a vederlo in 4 giorni, la scena iniziale dello tsunami vale da sola un Oscar per gli effetti speciali, sono tre storie ma finiscono in una, il tema è un particolare aspetto dell’aldilà, più esattamente noi e i morti, come noi vediamo i morti ma anche come i morti vedono noi. Poiché tutti abbiamo dei morti, è un film che ci chiama in causa tutti.
Silenzio, comincia. Lo tsunami ha l’apocalittica violenza delle catastrofi bibliche: spiaggia brulicante di vita, l’Oceano si ritira come per prendere la rincorsa, ritirandosi scopre il fondo, poi costruisce una muraglia liquida alta come una città e la scaraventa sulla costa.
Via un’ondata sotto un’altra. Le ondate sbattono sulle costruzioni e le sradicano, poi scorrono per le vie trasportando auto, tavoli, ringhiere, frigoriferi, tutto. Le riprese son girate da sopra l’acqua e da sotto. La giornalista francese protagonista della prima storia va sotto, e sotto si sente il crac di una massa nera che le sbatte sul cranio. Poi lei resta inquadrata come attonita. È il tempo fra il di qua e il di là. C’è un medium americano che ha il potere, lui dice la maledizione, di entrare in questo tempo, collegarsi con i morti, sentire le loro parole, e dircele.
Un bambino inglese di 9 anni è figlio di una tossicodipendente, ha un fratello, godono quando la madre li manda a prendere una sostanza che (loro consultano Google) contrasta l’eroina. Vuol dire che sta guarendo. Ma dalla farmacia il piccolo non torna, un’auto l’ha travolto. Il fratellino vorrebbe collegarsi con lui, sentirlo parlare. Il medium si presta. È il momento di massima penetrazione di Clint nello spazio dell’aldilà. L’aldilà appare per lampi e squarci, è più detto che visto. Ma è l’aldilà dei medium, dove si muovono fantasmi proiettati dal di qua. La cosa più importante che il fratellino morto dice al fratellino vivo è: «Non mettere più quel berretto, è mio».
Un aldilà onirico, non metafisico. Incuriosisce, non interessa. Tanto meno un cattolico. Non interessa neanche i protagonisti, medium e giornalista francese, che infatti si mettono d’accordo per vivere insieme nel di qua, felici e contenti. 'V’è piaciuto?' chiedo agli spettatori che s’alzano in piedi intorno a me.
Rispondono: 'Lo tsunami'. Ma quella non è arte, è professionalità. Il film rivela un’ambizione immensa, ma inane. Se questo è ciò che Clint ha da dirci sull’Aldilà, tra ascoltarlo e non ascoltarlo non fa differenza.
La scena iniziale dello tsunami vale da sola un Oscar per gli effetti speciali, ma poi «Hereafter» che sta riscuotendo grande attenzione delude le attese rivelando un’ambizione immensa, ma inane
«Avvenire» dell'11 gennaio 2011
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