15 gennaio 2011

Lucrezio, L’estraneità degli dèi (De rerum natura, V 146-173)

Nei versi del libro V che seguono, Lucrezio affronta due importanti questioni di carattere religioso: quella relativa all’ubicazione delle sedi divine (vv. 146-155), che si inserisce in una più ampia discussione, che inizia al v. 126, riguardo alla collocazione naturale di tutto ciò che esiste, e quella relativa al rapporto tra gli dèi e la creazione del mondo (vv. 156-173, ma il discorso continua fino al v. 194).
Per quanto riguarda la prima questione, l’autore dimostra che gli dèi hanno una natura così tenuis, “sottile”, che non possono che trovare posto in sedes costituite della loro stessa sostanza. Epicuro poneva queste sedi negli spazi tra mondi, i metakósmia; il poeta romano non dà per ora una risposta al problema, promette di ritornare sull’argomento successivamente, anche se in realtà non lo farà, nonostante più avanti si occupi ancora della tematica religiosa (vv. 1161-1240). È evidente che Lucrezio è qui in contrasto con la concezione stoica dell’esistenza di un’anima mundi, cioè di uno spirito divino che permea di sé l’intero universo: nei versi precedenti (vv. 108-145) aveva infatti dimostrato che il mondo non è divino, dunque è evidente che gli dèi non possono trovare posto in ogni parte di esso.
Per quanto riguarda la seconda questione, fondamentale nella filosofia epicurea, l’autore entra ancora in polemica con la concezione stoica, affermando che il mondo non è affatto stato creato dalla providentia divina.
di Martino Menghi

Illud item non est ut possis credere, sedis
esse deum sanctas in mundi partibus ullis.
Tenvis enim natura deum longeque remota
sensibus ab nostris animi vix mente videtur;
150 quae quoniam manuum tactum suffugit et ictum,
tactile nil nobis quod sit contingere debet.
Tangere enim non quit quod tangi non licet ipsum.
Quare etiam sedes quoque nostris sedibus esse
dissimiles debent, tenues de corpore eorum;
155 quae tibi posterius largo sermone probabo.
Dicere porro hominum causa voluisse parare
praeclaram mundi naturam proptereaque
allaudabile opus divum laudare decere
aeternumque putare atque immortale futurum
160 nec fas esse, deum quod sit ratione vetusta
gentibus humanis fundatum perpetuo aevo,
sollicitare suis ulla vi ex sedibus umquam
nec verbis vexare et ab imo evertere summa,
cetera de genere hoc adfingere et addere, Memmi,
165 desiperest. Quid enim immortalibus atque beatis
gratia nostra queat largirier emolumenti,
ut nostra quicquam causa gerere aggrediantur?
Quidve novi potuit tanto post ante quietos
inlicere ut cuperent vitam mutare priorem?
170 Nam gaudere novis rebus debere videtur
cui veteres obsunt; sed cui nil accidit aegri
tempore in anteacto, cum pulchre degeret aevum,
quid potuit novitatis amorem accendere tali?
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146-151 Illud ... credere: “né allo stesso modo accade che tu possa credere ciò”. Item è una di quelle espressioni di cui Lucrezio si serve per collegare strettamente le diverse parti del discorso; ut introduce una completiva retta dal verbo esse: si sarebbe potuto dire semplicemente non potes, ma così il concetto risulta maggiormente enfatizzato. Sedis... ullis: “cioè che le sacre sedi degli dèi siano in qualche parte del mondo”. L’infinitiva sedis (= sedes) esse sanctas è esplicativa di Illud prolettico; deum è una forma arcaica del genitivo plurale deorum: l’uscita in -um al posto di quella in -orum è di uso comune in Lucrezio con questo vocabolo (cfr. anche i vv. 148, 158 e 160); l’uso di ullus è dovuto al senso negativo dell’intero periodo, che dipende infatti da non est.
Tenvis... videtur: “infatti la natura degli dèi, sottile e di gran lunga lontana dai nostri sensi, a stento è percepibile (videtur) dalla facoltà del pensiero”. In Tenvis si noti la v al posto della comune u semiconsonantica; videtur è usato qui nel senso di “essere percepibile”; animi mente è complemento di causa efficiente; normalmente in Lucrezio animus e mens sono sinonimi (in III, v. 94 Lucrezio dice: «primum animum dico, mentem quam saepe vocamus»), ma non in questo caso, come in altri comunque nel poema, dove la mens è la facoltà intellettiva e percettiva e l’animus è la sede dei pensieri e delle emozioni. quae quoniam... debet: “e poiché essa sfugge al contatto e all’impulso delle mani, non deve toccare nulla che sia per noi tangibile”. Quae è nesso relativo ed equivale a et ea (cioè la natura); si tratta di una proposizione causale introdotta da quoniam; il verbo suffugere è costruito qui transitivamente; tactile è un hápax (Lucrezio usa intactile in I, v. 437); nil = nihil; nobis è un dativo di interesse; quod introduce una relativa al congiuntivo con sfumatura consecutiva.
152-155 Tangere... ipsum: ordina: enim non quit tangere quod ipsum (“ciò che di per se stesso”) non licet tangi. Quit è voce del verbo quire, “potere”; quod è accusativo, soggetto dell’infinitiva retta da non licet. Quare: “perciò”; il discorso di Lucrezio procede sempre con inoppugnabili passaggi logici ben marcati. etiam sedes quoque: l’uso contemporaneo di etiam e di quoque intensifica il concetto. dissimiles: l’aggettivo è costruito qui con il dativo nostris sedibus, “dissimili dalle nostre sedi”. tenues... eorum: “sottili conformemente al corpo di quelli”. De è utilizzato qui al posto dell’usuale pro, secondo un uso arcaico, attestato soprattutto in Plauto. quae tibi... probabo: “ma ti dimostrerò ciò successivamente in un ampio discorso”. Quae è nesso relativo ed equivale a sed ea (accusativo neutro plurale oggetto di probabo). Posterius è comparativo neutro in caso diretto dell’aggettivo posterus, con valore avverbiale. Questa mancata promessa (Lucrezio non tornerà più sull’argomento), insieme al tragico finale della peste di Atene, che mal si concilia con il messaggio ottimistico e liberatorio della filosofia epicurea, è stata interpretata come una prova dell’incompiutezza dell’opera.

156-158 Dicere... decere: “poi affermare (Dicere è infinito sostantivato con valore di soggetto) che (gli dèi) abbiano voluto predisporre la mirabile struttura del mondo per gli uomini (hominum causa è complemento di fine) e che perciò convenga lodare l’opera ammirevole degli dèi”. Inizia qui una serie di infiniti sostantivati (Dicere, putare, adfingere, addere) che dipendono da desiperest (“è delirante”) al v. 165. Porro segnala in maniera evidente il passaggio alla seconda questione; voluisse e decere sono i verbi di due proposizioni infinitive rette da Dicere, il primo seguito dall’infinito parare, il secondo preceduto dall’infinito laudare; propterea sottolinea il procedere serrato delle argomentazioni. Si noti il gioco etimologico allaudabile... laudare, a dare maggiore enfasi al concetto; l’aggettivo allaudabilis ha solo un’altra attestazione, e neppure certa, in Plauto.

159-162 aeternumque... futurum: “e ritenere che (l’opera) sarà eterna e immortale”. Putare è un altro infinito sostantivato con valore di soggetto e regge una infinitiva il cui soggetto è sottinteso e si ricava da opus del verso precedente; futurum (sottinteso esse) è infinito futuro del verbo esse. Si noti l’accostamento degli aggettivi aeternum e immortale: l’uno guarda al passato, l’altro al futuro, entrambi indicano comunque una durata infinita. nec fas... umquam: ordina: nec fas esse sollicitare umquam ulla vi ex suis sedibus quod sit fundatum gentibus humanis perpetuo aevo ratione vetusta deum, “e che non sia lecito strappare mai con una qualche violenza dalla propria sede ciò che sia stato creato per gli uomini (destinato) dall’antico disegno degli dèi a durare per l’eternità”. Fas esse è un’altra infinitiva retta da putare del v. 159; quod introduce una relativa al congiuntivo perché esprime una sfumatura eventuale; ratione vetusta è ablativo di causa efficiente; la vetusta ratio è evidentemente la prónoia stoica, contro cui Lucrezio polemizza; gentibus humanis è dativo di fine; perpetuo aevo ha lo stesso valore di in perpetuum aevum; ulla vi è ablativo strumentale; l’uso di umquam e di ulla è dovuto alla presenza della negazione non; suis ex sedibus è anastrofe.

163-167 nec verbis... summa: “né scuotere con argomentazioni e stravolgere dalle fondamenta la sommità”. L’espressione ab imo evertere summa (summa è accusativo neutro plurale dell’aggettivo summus) continua la metafora di fundatum del v. 161. cetera... desiperest: “e aggiungere altri fittizi argomenti di tal genere, o Memmio, è puro delirio”. Desiperest è aferesi per desipere (infinito presente) est. Quid... emolumenti: ordina: enim quid emolumenti nostra gratia queat largirier immortalibus atque beatis, “quale vantaggio la nostra gratitudine potrebbe donare agli dèi immortali e felici”. Gli dèi sono definiti attraverso le loro due fondamentali caratteristiche: la perfetta felicità e la perpetua esistenza. Quid è accusativo che regge il genitivo partitivo emolumenti; il congiuntivo queat esprime una sfumatura eventuale; largirier è una forma arcaica dell’infinito largiri. ut nostra... aggrediantur: “a tal punto che essi cercano di fare qualcosa per noi (nostra causa, ablativo)”. Ut introduce una consecutiva; l’uso di quicquam è giustificato dal fatto che la domanda presuppone una risposta negativa.

168-173 Quidve... inlicere: ordina: quidve novi potuit inlicere tanto post (eos) ante quietos, “o quale novità avrebbe potuto spingere tanto tempo dopo loro prima tranquilli”. Quid è nominativo e regge il genitivo partitivo novi; l’indicativo potuit ha qui valore di condizionale, come al v. 173. ut... priorem: “a desiderare di mutare la loro vita precedente”. Ut introduce una completiva retta da inlicere; priorem è comparativo derivato dalla preposizione prae. Nam... obsunt: “è infatti evidente e necessario (debere videtur) che si compiaccia del nuovo colui cui spiace l’antico”; obsunt, come tutti i composti di sum, regge il dativo. sed cui... anteacto: “ma in colui al quale non è accaduto nulla di male nel passato”. La frase relativa è in posizione prolettica, nella traduzione va premesso in eo al relativo. Aegri è genitivo partitivo retto da nil; tempore in anteacto è anastrofe. cum pulchre... aevum: “vivendo anzi una vita felice” o meglio, più liberamente, “e che viveva anzi una vita felice”. Cum ha valore avversativo. quid... tali?: “che cosa avrebbe potuto accendere il desiderio di una tale novità?”.
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ANALISI DEL TESTO

I TEMI
Il De rerum natura affronta la questione religiosa in maniera disorganica, talora con accenni, talora con trattazioni più o meno estese, distribuite qua e là nel corso dell’opera. Lucrezio, seguendo le orme di Epicuro, non nega l’esistenza degli dèi, ma li ritiene del tutto estranei al mondo e alla vita dell’uomo. Più difficile è invece determinare come siano questi dèi: nel poema infatti non si descrive esplicitamente quale forma abbiano, sembra però che l’autore abbracci l’idea tradizionale di una loro natura antropomorfica, sul modello, anche questa volta, del suo predecessore greco. Certo, per Lucrezio, gli dèi non sono proprio come gli uomini: sono più belli (V, v. 1170), più grandi (V, v. 1171), più forti (V, v. 1177); la loro vita non conosce né la sofferenza né la morte, sono perfettamente felici (V, vv. 1179-1182).
Nonostante la forma degli dèi sia simile a quella umana, la loro sostanza non è la stessa. A Lucrezio sembra interessare soprattutto questo problema. Ovviamente i corpi degli dèi sono materiali, costituiti di atomi, come tutto ciò che esiste; l’autore però sottolinea in maniera insistita che è una natura tenuis a contraddistinguerli. Questa natura non è afferrabile attraverso i sensi (longeque remota / sensibus ab nostris, vv. 148-149; quae quoniam manuum tactum suffugit et ictum, v. 150), ma solo attraverso le facoltà del pensiero (animi mente, v. 149). In particolare Lucrezio ribadisce il fatto che gli dèi non si possano toccare, e lo fa con un sapiente uso verbale, quasi un gioco di parole: tactum (v. 150), tattile (v. 151), contingere (v. 151), Tangere (v. 152), tangi (v. 152).
Ma dove vivono allora dèi di tale costituzione? Lucrezio procede con la consueta logica stringente: dopo aver detto che tutto ciò che esiste si colloca in un luogo adatto alla propria natura (vv. 126-143) e che il mondo non ha natura divina (vv. 144-145), conclude dunque che gli dèi non possono trovare spazio in esso (vv. 146-147); inoltre, poiché gli dèi hanno, a differenza del mondo, una struttura tenuis (vv. 148-152), anche le loro sedi devono avere questa stessa struttura; ne consegue dunque ulteriormente che esse debbano trovarsi fuori del mondo (vv. 153-155). I passaggi sono segnalati in maniera chiara e precisa (item al v. 146; enim al v. 148; Quare al v. 153), l’argomentazione procede con l’evidenza della necessità, come sottolinea il verbo debent al v. 154.
Ma allora quale rapporto c’è tra gli dèi e il mondo? È ormai evidente che non si può ipotizzare una presenza divina che informa di sé tutto ciò che esiste, come ritenevano gli stoici. D’altronde sarebbe assurdo anche pensare a un mondo creato dalla providentia a vantaggio del
genere umano (vv. 156-167), oppure immaginare che gli dèi, creando il mondo, abbiano agito per amore di novità (vv. 168-173). E poi, anche se fossero state le divinità a creare il mondo, resterebbe sempre il problema di come avrebbero fatto a concepire e a realizzare la sua complessa architettura (vv. 181-186). Lucrezio polemizza dunque contro una visione antropocentrica e finalistica dell’universo che ha i suoi massimi assertori nei filosofi stoici: la sua teoria (spiegata nei versi seguenti non antologizzati) è che il mondo è nato dal movimento vorticoso degli atomi che, per caso, nei loro innumerevoli urti, hanno dato origine a tutto ciò che esiste.

DAL TESTO AL CONTESTO
L’idea lucreziana di un mondo nato senza alcun intervento da parte della divinità trova una precisa corrispondenza nelle parole di Epicuro nella Epistola a Erodoto e in quelle che Cicerone fa pronunciare a Velleio, assertore della dottrina epicurea, nel De natura deorum.

Senza dubbio poi i moti celesti e le rivoluzioni e l’eclissarsi ed il sorgere e tramontare degli astri, e tutti i simili fenomeni, non si deve credere siano prodotti per apposito ministerio di alcuno che dia loro o debba dare regola e misura, e pur tuttavia possegga l’assoluta beatitudine e l’immortalità. Infatti occupazioni e cure ed ire e benevolenze, non si accordano con lo stato di perfetta beatitudine; ma vengono da debolezza e timore e necessità d’assistenza da parte dei vicini. Neppure poi si deve credere che pur essendo tali corpi celesti un po’ di conglobato fuoco, godano vita beata ed, a voler loro, assumano deliberatamente tali moti.
Epicuro, Epistola a Erodoto 76-77; trad. E. Bignone

È vostra abitudine, Balbo, chiederci quale sia la vita degli dèi e quale esistenza conducano. Evidentemente si tratta di una vita a paragone della quale non si può concepire nulla di più felice e di più ricco di tutti i beni. Il dio non fa nulla, non è coinvolto in nessuna attività, non si occupa di nessun lavoro, gode della sua saggezza e della sua virtù, sa con certezza che si troverà sempre in una condizione di piacere massimo ed eterno. A ragione diremo questo dio felice; il vostro invece è indaffaratissimo [...], un dio che regge, governa e mantiene il corso delle stelle, le stagioni, la successione ordinata degli eventi, e osservando le terre e i mari protegge gli agi e la vita dell’uomo [...]. Colui che ci ha insegnato tutto il resto, ci ha anche insegnato che il mondo è stato creato dalla natura, che non c’è stato bisogno di alcuna costruzione e che la creazione (che secondo voi è impossibile senza l’abilità divina) è così facile che la natura creerà, crea e ha creato mondi innumerevoli. [...] In questa immensità di larghezza, lunghezza, e altezza vola una quantità infinita di atomi innumerevoli i quali, pur essendo separati dal vuoto, aderiscono tra loro attaccandosi gli uni agli altri e formando ora questi ora quegli agglomerati; da questo processo sono costituite le forme e le figure delle cose che, secondo voi, non possono essere create senza mantici e incudini [...].
Cicerone, De natura deorum I, 21-23; 51-54; trad. M. Calcante

Contro le parole di Velleio polemizza Balbo, assertore della dottrina stoica:

Ma siccome noi possediamo una prenozione ben definita secondo la quale il dio è in primo luogo un essere vivente, poi che niente in tutta la natura gli è superiore, non vedo quale altra opinione sia più compatibile con questa nostra prenozione o idea se non quella secondo cui questo stesso mondo, a cui nulla può essere superiore, sia un essere vivente e divino. Su questo punto Epicuro [...] scherzi pure come vuole e dica di non riuscire a concepire un dio rotondo o in rotazione, tuttavia non mi smuoverà mai da questa convinzione che anche lui condivide: è convinto che gli dèi esistano, perché deve necessariamente esistere una natura eccellente a cui nulla è superiore. Ma chiaramente nulla è superiore al mondo, né si può dubitare che un essere vivente e dotato di sensibilità, ragione e mente sia superiore a un essere che ne è privo; ne consegue che il mondo è un essere vivente, dotato di sensibilità, mente, ragione; questo ragionamento porta alla conclusione che il mondo è dio. [...] Abbiamo parlato del mondo nella sua totalità, inoltre delle stelle, sicché appare con sufficiente evidenza una moltitudine di dèi che non se ne stanno inoperosi, ma che neanche compiono le loro attività con fatica pesante e molesta. Essi non sono infatti costituiti di vene, nervi e ossa, [...] né il loro corpo è tale che essi debbano temere cadute o ferite o le malattie che derivano dallo spossamento delle membra, timori che hanno indotto Epicuro a immaginare gli dèi come larve inoperose. Al contrario essi sono dotati di un aspetto bellissimo, risiedono nella regione più pura del cielo e si muovono regolando il loro corso così che sembrano accordarsi al fine di preservare e custodire l’universo.
Cicerone, De natura deorum II, 45-47; 59-60; trad. M. Calcante

Brano tratto da M.Menghi, Novae voces, Lucrezio, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2007, pp. 102-105
Postato il 15 gennaio 2011

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