05 gennaio 2011

Consumismo demodé

Parla l’economista Erik Assadourian: «Viviamo al di sopra delle nostre possibilità, come se avessimo a disposizione quattro pianeti»
di Silvia Pochettino
«Il consumismo è un orien­tamento culturale che ci viene inculcato fin dalla più tenera età. Non è un fatto natu­rale », così esordisce Erik Assadou­rian, ricercatore del Wordlwatch In­stitute, il prestigioso istituto di ricer­ca ambientale che ogni anno fa usci­re il rapporto sullo stato del pianeta, «State of the World»: «La cultura è la base di ogni nostro modo di vivere, ma è relativa, basti pensare che alcu­ni tipi di insetti sono una leccornia per certi popoli e fanno schifo ad al­tri, che non li mangerebbero mai». E l’idea che sia necessario un profon­do cambiamento della cultura per salvare il pianeta sta proprio alla ba­se dello «State of the World 2010», che Assadourian rilancia con con­vinzione quando lo incontriamo al Forum internazionale di Greenac­cord «People building future», tenu­tosi in Italia a ottobre. «Non basta ridurre la Co2. Se anche le trattative di Copenhagen fossero andate a buon fine, e non è succes­so, noi avremmo comunque un in­nalzamento della temperatura terre­stre di 4 gradi da qui al 2100 – conti­nua Assadourian –, viviamo molto al di sopra delle nostre possibilità, co­me avessimo a disposizione quattro pianeti». E infatti i consumi di beni e servizi sono sestuplicati dal ’60 a og­gi, benché la popolazione mondiale sia aumentata solo di poco più di due volte nello stesso periodo. Senza dimenticare comunque che «per il 2050 è previsto un incremento de­mografico a 9 miliardi».
Il problema di fondo è semplice: consumiamo male, e troppo. Secon­do la definizione dell’economista Paul Ekins, «il possesso e l’utilizzo di un numero e una varietà crescente di beni e servizi è l’aspirazione cul­turale principale e la strada percepi­ta come più sicura verso la felicità individuale, lo status sociale e il suc­cesso nazionale». Ed è proprio que­sta concezione che, per gli studiosi del Worldwatch Institute, va scalza­ta. «L’unica possibilità è trasformare profondamente le radici della nostra cultura, con un atteggiamento proattivo».
Gli esempi sono molti, a partire dal più classico: «L’industria automobilistica ha trasfor­mato i nostri concetti di spazio e tempo. Attraverso la potenza della pubblicità si è fatta passare l’idea che le strade sono delle auto, e si è plasmato il territorio a misura d’au­to. Campagne informative nelle scuole hanno inculcato nei bambini il concetto che la strada è pericolosa, i pedoni devono fare attenzione alle auto e non viceversa». Ecco allora u­na piccola azione di contro informa­zione e contro cultura che il Worldwatch Institute sta realizzando negli Usa, la promozione «dell’e­coautobus »: gruppi di bambini che vanno a scuola a piedi accompagna­ti da un «conducente» che li scorta fino all’entrata. Un piccolo gesto dal significato culturale profondo: i bambini si riappropriano della stra­da senza correre rischi, fermano il traffico quando necessario, non in­quinano e in più socializzano e si di­vertono.
Lo stesso vale per l’alimentazione e il cibo spazzatura: le aziende ali­mentari spendono 1,9 miliardi di dollari l’anno in campagne pubblici­tarie mirate ai bambini. Tutto ciò ha reso colossi come McDonald’s capa­ci di modificare le regole alimentari di gran parte della popolazione mondiale. Si tratta allora, secondo Assadourian, di usare le stesse armi ma con fini diversi: così è nata una campagna pubblicitaria molto simi­le a quelle delle patatine fritte, che propone però carote fresche ai bam­bini, erogandole anche nei distribu­tori automatici. «Il nemico del tuo nemico in certi casi può essere tuo amico» sentenzia Assadourian. Ma le azioni possono essere molto più strutturali, come il buon esempio di Scozia e Italia che in molte regioni hanno inserito nelle mense scolasti­che prodotti biologici, freschi e di stagione.
Altro esempio di modifica culturale operata in vista delle vendite è quel­lo dell’industria degli animali dome­stici che ha umanizzato gli animali, cambiandone la nostra percezione e rendendoli talvolta la caricatura di se stessi: cani con cappottini, letti, giochi e bambole. Ma il problema di fondo da affrontare è quello delle imprese. «La missione reale dell’in­dustria non è massimizzare il profit­to ma massimizzare il benessere so­ciale » dice Assadourian. E i massimi sforzi vanno profusi per istituziona­lizzare il cambiamento di finalità delle imprese. Ne è un esempio B corporation (www.bcorporation.net), il marchio di certificazione istituito negli Usa per riconoscere le aziende che assu­mono i principi base della responsa­bilità sociale e allo stesso tempo traggono vantaggi competitivi dal­l’essere parte del network. Oggi sono 315 le aziende associate con un fat­turato di 1,5 miliardi di dollari.
Discorso a sé è poi quello delle ore lavorative. «Oggi molte persone la­vorano troppe ore, guadagnano molto e trasformano il loro reddito in consumi, spesso superflui. D’altra parte ci sono moltissimi disoccupati. La­vorare meno vuol dire impie­gare più perso­ne, avere più tempo libero e migliore qualità di vita, far dimi­nuire i consumi energetici».
Ma in tutto que­sto resta centrale il ruolo dello Stato e delle amministrazioni pub­bliche. Dalla messa al bando dei sac­chetti di plastica in Irlanda e Italia al ritiro dal commercio delle lampade a incandescenza nel Canada, alle pesanti imposte sulle emissioni in Svezia, le iniziative per promuovere stili di vita sostenibili non mancano.
Fino al caso più avanzato, quello dell’Ecuador, che ha riconosciuto nella propria Costituzione i diritti della madre terra: per cui le aziende che non rispettano l’ambiente pos­sono essere citate in giudizio dallo Stato.
L a cultura è anche plasmata dai film, tra i più responsabili nel diffondere modelli imitativi, e dall’arte e la musica. Ma anche dalle tradizioni e dalla religione: «Poiché l’86% della popolazione mondiale afferma di appartenere a una religio­ne organizzata, è indispensabile coinvolgere le religioni nella diffu­sione della cultura della sostenibi­lità». Ecco allora nascere la «Bibbia verde» (la sottolineatura di tutti quei passaggi che nel libro sacro cristiano parlano del rispetto dell’ambiente), il lavoro concertato con le Chiese per introdurre i concetti di rispetto del creato nella morale religiosa, ma anche il recupero delle tradizioni e­cologiche dei popoli nativi, come la trasformazione del rito della morte. «Oggi i morti sono im­bottiti di formal­deide, messi in bare costosissi­me e non biode­gradabili, anche nella morte si stacca l’uomo dalla natura, in­vece di sottoli­neare che quan­do moriamo tor­niamo alla terra, e da lì creiamo nuova vita», dice Assadourian. La sfi­da è a 360 gradi dunque, appare im­pegnativa, utopica, ma è iniziata: «Dobbiamo far sì che il consumismo diventi un tabù, qualcosa di vecchio, brutto, non 'cool'. E la sostenibilità la cultura dominante». Pena la so­pravvivenza del pianeta.
Una sfida utopica, cambiare la cultura, ma già cominciata, con il bando dei sacchetti di plastica, il ritiro delle lampade a incandescenza, gli ecoautobus per i bambini
«Avvenire» del 5 gennaio 2011

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