Grazie a una nuova traduzione dei Canti, l'America scopre Leopardi
di Mauro Baudino
"Può diventare importante per noi quanto Baudelaire o Rilke"
Rendere plausibile in inglese il suono di Leopardi è stato molto, molto laborioso - ed eccitante». Jonathan Galassi sa che si trattava di un lavorio infinito, perché, spiega, «una traduzione, come del resto una poesia originale, non è mai finita, viene solo abbandonata». Intanto ha messo on line, con le correzioni e i ripensamenti dell’ultima ora, alcune bozze della sua edizione dei Canti, pubblicata con testo a fronte per la casa editrice da lui diretta, Farrar, Straus & Giroux. Il libro cartaceo è imponente: quasi 500 pagine con rimandi, note e spiegazioni anche biografiche, dove il nostro poeta rivive in un inglese moderno che cerca di mantenere pur senza arcaismi la patina ottocentesca. Non è la prima versione americana: una scelta dei Canti fu pubblicata già nel 1853 dal critico Matthew Arnold. È un’edizione abbastanza a ridosso, per i tempi, alla morte del poeta, avvenuta nel 1837, sei anni dopo l’edizione dei Canti da lui curata a Firenze.
Col tempo ce ne sono state altre, per esempio quella di L. C. Trevelyan (1941), ma in sostanza, come ha scritto sul New York Times un altro poeta, Peter Campion, «per molte generazioni la poesia italiana è esistita per scrittori e lettori anglofoni più come qualcosa di cui si era sentito dire che come fonte di ispirazione». Ora, invece, «Leopardi può diventare importante per la nostra letteratura quanto, ad esempio, Baudelaire o Rilke». Il ritorno in America, grazie al lavoro di Galassi e anche certamente all’autorevolezza di questo editore-scrittore dalle lontane origine italiane, che guida una grande editrice di cultura e ha in passato pubblicato un’ottima traduzione di Montale, è stato un evento letterario. Tutte le più importanti pagine culturali, dal New York Times al Washington Post al Wall Street Journal, per non parlare del New Yorker e della New Republic, gli hanno dedicato critiche entusiastiche.
È una strana coincidenza che l’interesse si sia riacceso nel mondo di lingua inglese proprio mentre in Italia Pietro Citati pubblicava uno dei suoi libri più impegnativi (Leopardi, appunto, da Mondadori), che comincia nel segno di Gioachino Rossini, e cioè con «un’opera buffa», e termina con il Tramonto della luna, letto nel segno del dubbio più lancinante, perché «sul punto di morire, mentre il sole - scrive Citati - stava per scomparire per sempre, Leopardi provò un immenso desiderio di quella fiamma che fino a allora aveva taciuto o nascosto». Il poeta filosofo, che ha visto la luna come mai nessuno prima di lui, al termine della vita sembra chiedersi, nella lettura che ne dà Citati, se non abbia sbagliato tutto.
Ma «vedere» la luna come Leopardi per il lettore può essere uno sforzo impegnativo ed esaltante; per il traduttore è impresa terribile. Prendiamo quella della Vita solitaria, dove Galassi sembra quasi addolcire il ritmo verbale di Leopardi: «Dear moon, underneath whose tranquil light / hares dance in the woods» («O cara luna, al cui tranquillo raggio / Danzan le lepri nelle selve»). Sosteneva Robert Frost che quel che si perde in traduzione è proprio la poesia, ma ciò non ha mai impedito le traduzioni. Il Leopardi di Galassi non è «letterale», è ricreato come accade ogni volta nel passaggio da una lingua all’altra, e soprattutto da un tempo all’altro. Affrontando trappole infinite.
Come tradurre, poniamo, quell’inimitabile «Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai, / silenziosa luna?» del Canto notturno di un pastore errante? Helen Vendler sulla New Republic confronta la versione di Trevelyan con quella di Galassi. La prima dice, puntando decisamente sugli arcaismi: «What dost thou, Moon? / What dost thou in the sky?». La seconda: «What are you doing, moon, up in the sky / What are you doing, tell me, silent moon». Non c’è gara.
Col tempo ce ne sono state altre, per esempio quella di L. C. Trevelyan (1941), ma in sostanza, come ha scritto sul New York Times un altro poeta, Peter Campion, «per molte generazioni la poesia italiana è esistita per scrittori e lettori anglofoni più come qualcosa di cui si era sentito dire che come fonte di ispirazione». Ora, invece, «Leopardi può diventare importante per la nostra letteratura quanto, ad esempio, Baudelaire o Rilke». Il ritorno in America, grazie al lavoro di Galassi e anche certamente all’autorevolezza di questo editore-scrittore dalle lontane origine italiane, che guida una grande editrice di cultura e ha in passato pubblicato un’ottima traduzione di Montale, è stato un evento letterario. Tutte le più importanti pagine culturali, dal New York Times al Washington Post al Wall Street Journal, per non parlare del New Yorker e della New Republic, gli hanno dedicato critiche entusiastiche.
È una strana coincidenza che l’interesse si sia riacceso nel mondo di lingua inglese proprio mentre in Italia Pietro Citati pubblicava uno dei suoi libri più impegnativi (Leopardi, appunto, da Mondadori), che comincia nel segno di Gioachino Rossini, e cioè con «un’opera buffa», e termina con il Tramonto della luna, letto nel segno del dubbio più lancinante, perché «sul punto di morire, mentre il sole - scrive Citati - stava per scomparire per sempre, Leopardi provò un immenso desiderio di quella fiamma che fino a allora aveva taciuto o nascosto». Il poeta filosofo, che ha visto la luna come mai nessuno prima di lui, al termine della vita sembra chiedersi, nella lettura che ne dà Citati, se non abbia sbagliato tutto.
Ma «vedere» la luna come Leopardi per il lettore può essere uno sforzo impegnativo ed esaltante; per il traduttore è impresa terribile. Prendiamo quella della Vita solitaria, dove Galassi sembra quasi addolcire il ritmo verbale di Leopardi: «Dear moon, underneath whose tranquil light / hares dance in the woods» («O cara luna, al cui tranquillo raggio / Danzan le lepri nelle selve»). Sosteneva Robert Frost che quel che si perde in traduzione è proprio la poesia, ma ciò non ha mai impedito le traduzioni. Il Leopardi di Galassi non è «letterale», è ricreato come accade ogni volta nel passaggio da una lingua all’altra, e soprattutto da un tempo all’altro. Affrontando trappole infinite.
Come tradurre, poniamo, quell’inimitabile «Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai, / silenziosa luna?» del Canto notturno di un pastore errante? Helen Vendler sulla New Republic confronta la versione di Trevelyan con quella di Galassi. La prima dice, puntando decisamente sugli arcaismi: «What dost thou, Moon? / What dost thou in the sky?». La seconda: «What are you doing, moon, up in the sky / What are you doing, tell me, silent moon». Non c’è gara.
«La Stampa» del 5 gennaio 2011
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