17 giugno 2010

Ma l’aborto è l’unica scelta «libera»?

Negli Usa un’indagine sui motivi che spingono a mettere fine a una gravidanza solleva il velo su mille pressioni. Uno studio simile da noi aiuterebbe a prendere atto della realtà
di Domenico Delle Foglie
In Italia è stato detto davvero tutto sull’abor­to? Oppure, com’è ra­gionevole supporre, c’è ancora un’area di non detto, di non racconta­to, di non indagato? L’inter­rogativo è assolutamente le­gittimo perché, come ogni fenomeno sociale che si rispetti, anche l’aborto ha una sua storia remota e u­na recente, una legislazione e una sua pratica attua­zione, una mole di dati statistici alle spalle e un fu­turo da scrivere.
I dubbi che proveremo a sollevare nascono da una notizia diffusa nei giorni scorsi: l’Elliot Institute, un’organizzazione pro life dell’Illinois dedita al­l’aiuto psicologico delle donne che hanno abortito, afferma che «probabilmente la maggior parte degli aborti negli Stati Uniti è indesiderato o forzato». Un’affermazione impegnativa a cui seguono una se­rie di dati che mostrano come sulla decisione di a­bortire pesino le pressioni delle famiglie e dei fidan­zati, così come quelle esercitate dai datori di lavoro. Ma le sollecitazioni non finiscono qui: ci sono an­che altre pressioni sociali come la discriminazione nel trovare un alloggio o le condizioni coercitive di la­voro. Insomma, un quadro da «aborto forzato» in un Paese occidentale, in cui vari soggetti entrano in gio­co nell’opera di dissuasione alla maternità.
L’Elliot Institute a dire il vero racconta anche molti casi emblematici, dalla giovane studentessa atleta del college costretta ad abortire per non perdere la bor­sa di studio, all’attrice licenziata perché incinta, al ca­so estremo dei predatori sessuali che costringono so­prattutto le minorenni all’interruzione di gravidan­za. Un quadro inquietante, che fa sorgere qualche domanda ragionevole.
Innanzitutto, noi italiani possiamo continuare a il­luderci di vivere nel più perfetto dei mondi possi­bili dove le donne, tutte le donne, scelgono l’in­terruzione della gravidanza in piena coscienza e nel rispetto totale della propria libertà? Siamo diventati all’improvviso il Paese guida nell’autodeterminazio­ne? Le ragazze minorenni sono tutte perfettamente consapevoli e mature da scegliere l’aborto in totale indipendenza? E veniamo alle domande più scomode: nessuna don­na viene indotta all’aborto per un ricatto di natura
Qsessuale? Nessuna soggiace alle violenze o alle inti­midazioni del marito, fidanzato, compagno o part­ner occasionale? Nessuna donna o ragazza ha una fa­miglia che la spinge a disfarsi del nascituro? Nessu­na è così povera da rinunciare al figlio perché non può dargli un futuro? Nessuna abortisce perché ri­schierebbe di perdere il lavoro? ualche tempo fa ci scandalizzammo per le lette­re di dimissioni in bianco che alcuni datori di lavoro facevano firmare alle loro dipendenti al­l’atto dell’assunzione. Lettere ovviamente senza da­ta, per garantirsi la possibilità di mandarle via in ca­so di gravidanza. Quante donne hanno accettato il ricatto per necessità? Ecco, noi vorremmo che le statistiche ufficiali sull’a­borto venissero arricchite da questi elementi quali­tativi. Non tocca ovviamente al ministero della Sa­lute né all’Istat, che gestisce le rilevazioni in base al­le quali si costruisce il rapporto annuale sulla legge 194. Piuttosto, dovrebbe scendere in campo un sog­getto terzo (il Cnel?), libero da ipoteche ideologiche, in grado di restituirci una fotografia realistica delle motivazioni che inducono all’aborto. Forse avrem­mo delle sorprese che infrangerebbero definitiva­mente il mito dell’autodeterminazione assoluta che un certo settore del femminismo militante ha pro­pagandato, al punto da far chiudere occhi, tappare orecchie e addormentare coscienze.
«Avvenire» del 16 giugno 2010

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