27 giugno 2010

Abbiamo bisogno di laicità «buona»: non di battaglie e di divisioni

A proposito di una nuova rivista promossa da Stefano Rodotà
di Francesco D'Agostino
E’ appena stato pubblicato il numero uno di una nuova rivista, Quaderni laici.
Se ne sentiva la necessità? Ne dubito. La rivista potrà però svolgere una funzione estremamente utile, se saprà scegliere chiaramente da che parte collocarsi nella sua esplicita e orgogliosa rivendicazione di un principio, così complesso, come quello di 'laicità'. A 'laicità', infatti, si possono dare molti significati: cercherò di sintetizzarli, ricorrendo volutamente a un lessico elementare. C’è una laicità 'buona'; ce n’è una 'cattiva' e, per soprammercato, ce n’è una 'pessima'. Qualcosa del genere capita anche per un altro termine di estrema complessità e cioè 'religione'. C’è una religione 'buona', quella che predica l’universale fratellanza umana, perché percepisce che in tutti gli uomini c’è un autentico anelito all’infinito (anelito che può orientarsi verso un Dio personale o verso un divino impersonale) e che di esso rispetta tutte le diverse manifestazioni, pur senza ritenerle equivalenti, appiattirle o confonderle l’una con l’altra. C’è una religione 'cattiva', che crea discriminazioni e conflitti, la religione di chi guarda con disprezzo le confessioni di fede diverse dalla propria e non riesce a percepirne l’autenticità. E c’è (purtroppo) una religione 'pessima', violenta, quella che ritiene che i credenti in altre religioni vadano perseguitati, convertiti coercitivamente o addirittura sterminati e che arriva a ritenere che un simile atteggiamento costituisca un modo di rendere omaggio a Dio. Di una complessità paragonabile a quella di religione è appunto il concetto di laicità. La laicità 'buona' è quella di chi riconosce l’autonomia del governo delle cose terrene rispetto al governo delle cose spirituali, di chi si impegna per la massimizzazione del bene comune di tutti, credenti e non credenti (o, per usare formule equivalenti, alla massimizzazione della tutela e della promozione dei diritti umani e delle libertà civili). Ma, soprattutto, la laicità 'buona' si caratterizza per la sua convinzione che il bene politico non abbia un carattere arbitrario, non dipenda cioè dall’arbitrio di chi detenga occasionalmente il potere (chiunque esso sia, un soggetto individuale o un soggetto collettivo, come nelle democrazie moderne). Il 'buon' laico – e c’è chi, come il presidente Napolitano, continua a testimoniarlo – è consapevole che la promozione del bene comune ha bisogno di un forte radicamento, nelle coscienze dei cittadini, di 'valori' non negoziabili, primo tra tutti quello di giustizia, e che le religioni 'buone', operando potentemente in tal senso, sono fattori costitutivi di una 'buona' vita civile. La laicità 'cattiva', invece, ritiene che tutte le religioni siano forme premoderne, infantili, mitologiche o comunque immature di pensiero: essa vede nelle religioni un’insanabile negatività. Di conseguenza anche se può provvisoriamente tollerarle, opererà per farle prima deperire, poi scomparire; nel frattempo, esse dovranno essere il più possibile escluse o comunque tenute ai margini della vita pubblica. Questa laicità è 'cattiva', perché si basa su di un’antropologia sbagliata; perché si illude che una visione disincantata e demitizzata del mondo corrisponda alla massimizzazione del bene umano, quando ne rappresenta piuttosto la massima alienazione. Infine, chiameremo 'pessima' quella laicità che, pervasa da un narcisistico furore antidogmatico, ritenga doveroso perseguitare (a volte anche nelle forme più estreme, cioè più violente, se non cruente) ogni dimensione di pensiero e di pratica religiosa.
A quale orizzonte di laicità aderiranno (o hanno già aderito) gli amici che hanno fondato i Quaderni laici? Vorrei sbagliarmi, ma temo che la loro sia già, in partenza, una laicità 'cattiva' (non oso pensare che, almeno nelle intenzioni, sia piuttosto 'pessima'). Me ne convinco per il fatto che tra di loro si colloca Stefano Rodotà, che insiste da tempo nel proporre una laicità 'senza aggettivi' (ma come è possibile, se le distinzioni che ho appena fatto hanno un pur minimo senso?) e che soprattutto denuncia con veemenza la presenza nel nostro tempo di una laicità «flebile, timida, devota»... che mi sembra corrispondere perfettamente a quella che ho chiamato una laicità 'buona'.
Ripeto: vorrei sbagliarmi, perché di nulla abbiamo meno bisogno che di una nuova rivista, la quale contribuisca a esasperare divisioni ideologiche tra cattolici e laici, come fanno da sempre i sostenitori della laicità 'cattiva'. Ciò di cui abbiamo invece davvero bisogno è un pensiero che si misuri sulle diverse possibili dimensioni della laicità, confutando e rigettando le sue variabili estremiste, e che soprattutto entri in un dialogo articolato con chi della laicità ha una visione 'buona', un dialogo aperto, attento e, soprattutto, non arrogante.
«Avvenire» del 27 giugno 2010

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