13 maggio 2010

Ridley Scott riscrive la storia di Robin Hood ma non riesce a divertirci

Troppa voglia di dare un messaggio
di Mariarosa Mancuso
Tutto lasciava immaginare “Il gladiatore” tra Nottingham e la foresta di Sherwood, impegnato a ridistribuire ai poveri un po’ di denaro sottratto ai ricchi. Sbagliato: “Robin Hood” di Ridley Scott – ieri ha aperto il Festival di Cannes, in contemporanea con l’uscita nelle sale - riparte da “Le crociate”. Alla fine di quel film, una croce veniva pietosamente rialzata da una mano musulmana, in una Gerusalemme semidistrutta. Qui, il Robin Longstride che diventerà Robin Hood racconta a Riccardo Cuor di Leone il punto più infame della spedizione appena conclusa in Terra Santa: “Abbiamo radunato 2.500 musulmani e li abbiamo uccisi. Ci siamo comportati come gente senza Dio”. Il sovrano non gradisce la critica, Robin si ritrova alla gogna (sarà questo l’inizio delle sue leggendarie imprese, ma prima di sentirlo dichiarare fuorilegge passerà l’intero film) e lo spettatore stanco di History Channel può godersi un altro capitolo della storia secondo Ridley Scott. Quella, appunto, dove i re medievali consultano gli arcieri rissosi per ascoltare le loro opinioni sull’andamento della terza crociata (e i gladiatori che combattono nella provincia romana di Zucchabar hanno sul braccio il tatuaggio SPQR).
Niente di male, come diceva il produttore Samuel Goldwyn “nulla è peggio di un film storicamente corretto ma noioso”. Eppure la volontà di inventarsi una plausibile biografia per Robin Hood, comprensiva di infanzia difficile e di intersezioni con la storia medievale britannica, stavolta guasta lo spettacolo. Possiamo sempre contare su Ridley Scott per un bell’assedio o un’imboscata nella foresta o una violenta battaglia con frecce di fuoco che incendiano la pece e la scritta in sovraimpressione che spiega esattamente in quale castello della Normandia siamo. Possiamo sempre contare su di lui per un vecchio saggio, per un discorso da capopopolo, per un eroe con la faccia da cane bastonato deciso a far valere i propri diritti, per un doppiogiochista dallo sguardo gelido (qui Mark Strong, Blackwood in “Sherlock Holmes”). Ci sono lo sceriffo, il frate, i Merry Men delle ballate, Giovanni Senza Terra che impone tasse per riempire i forzieri svuotati dalla crociata. Ogni cosa da sola dovrebbe trascinare, insieme finiscono per danneggiarsi.
Manca, rispetto al “Gladiatore”, gran parte del divertimento con cui il regista aveva tirato giù dal piedistallo il polpettone storico. Abbonda, come già nelle “Crociate”, la voglia di messaggio. Tanto che il critico del Times scrive, non nascondendo un certo entusiasmo rafforzato da quattro stellette su cinque: “Erroll Flynn incontra il Manifesto del Partito comunista”. Nella rimessa a nuovo del mito Robin – che cavalca un destriero bianco – dà una mano anche Freud, con una fitta trama di padri assenti, padri finti, padri ritrovati. Shakespeare e la “Bisbetica domata” sovrintendono agli scontri tra Robin e Marion-Cate Blanchett.
L’idea di un’attrice australiana e di un attore della Nuova Zelanda che amoreggiano nel Nottinghamshire – confessiamo – un certo spaesamento lo procura. Lo stesso si può dire dell’esercito di re Filippo che sbarca in Inghilterra imitando lo sbarco in Normandia, così come l’abbiamo visto nella prima scena di “Salvate il soldato Ryan”: le frecce oscurano il cielo, l’acqua si arrossa, le bandiere azzurre con i gigli vengono calpestate dai cavalli, Cate Blanchett rispolvera l’armatura scintillante di Elisabetta I in “The Golden Age”. I francesi sono passabilmente messi in ridicolo, come sempre nel medioevo cinematografico ci si lava parecchio (mancano i cosciotti da addentare, arriveranno con Enrico VIII). Una volta la scena serviva per far spogliare le femmine, oggi l’oggetto del desiderio è Russell Crowe, avvantaggiato dalla sua posizione di eroe nonché produttore del film. Per lo stanco e puzzolente Robin è pronto un bel bagno caldo, e lui deve confessare a Marion che non riesce a sfilarsi la maglietta di ferro senza aiuto. Le braghe se le sfila da solo, dopo un’occhiataccia di lei.
«Il Foglio» del 12 maggio 2010

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