13 maggio 2010

Per far le somme meglio Omero della calcolatrice

Il biologo Carlo Cirotto sfata un luogo comune: «Al primo esame universitario di calcolo integrale noi del classico andammo meglio dei ragazzi usciti dal liceo scientifico: tutto merito dell’allenamento a ragionare maturato studiando i classici»
di Luigi Dell'Aglio
«Le scienze della natura sono come il sistema nervoso periferico, quello del tatto o della vista: di utilità immediata, ma molto semplice Invece le scienze dello spirito sono come il cervello, raffinato ma difficile da definire. Per dare senso alla realtà le due culture devono cooperare»
«Si può immaginare ciò che si vuole, ma non si può essere normali e vedere ciò che si vuole». Sembra una formula criptica, l’oscuro responso di un oracolo, che richiede una faticosa interpretazione. E invece è la chiave che spiega – da un punto di vista neurobiologico, e perciò scientifico – la differenza fra scienze della natura e scienze umane. La frase l’ha scritta il gesuita Bernard Lonergan (1904-1984), matematico e filosofo canadese, e su di essa richiama l’attenzione il professor Carlo Cirotto, presidente nazionale del Meic, Movimento ecclesiale di impegno culturale, e ordinario di Citologia e istologia presso l’Università di Perugia. La frase di Lonergan, che negli anni Ottanta insegnò alla Pontificia università Gregoriana, inquadra in maniera nuova la disputa su conoscenza scientifica e conoscenza umanistica. «C’è un sistema nervoso 'periferico', che dipende strettamente dagli stimoli sensoriali e ci permette di vedere, udire, gustare, ecc.; e un sistema nervoso 'centrale' che è il cervello, sede di inventiva e creatività», dice Cirotto.
Procedendo su questa traccia, lasciata da Lonergan, si arriva a semplificare e a capire meglio le differenze tra i due saperi. Ecco come le neuroscienze vedono il divario scienza­humanitas, spiega il professor Cirotto, al quale la diversità fra scienza e umanesimo provocò nottate di incubo quando, con il diploma del liceo classico, s’iscrisse alla facoltà di Chimica.
«Al classico non si studiava quasi il calcolo differenziale e integrale che invece i diplomati provenienti dallo scientifico dominavano pienamente. Poi all’esame di matematica, la sorpresa: noi 'sfondammo', meritando voti nettamente superiori a quelli degli studenti che venivano dallo scientifico. Ci aveva aiutato molto il buon allenamento acquistato studiando i classici».

Professore, a Lonergan viene riconosciuta una straordinaria profondità di analisi. Ma in che modo la sua frase spalanca le porte a un nuovo approccio?
«Quando la lessi per la prima volta, non fui affatto colpito e passai oltre. Anni dopo, rileggendola con calma, mi apparve sotto una luce totalmente diversa: suggeriva come dare ordine alle tante, confuse e spesso contraddittorie idee sui complessi rapporti tra i due saperi. Ecco, in breve, ciò che dicono quelle righe: gli organi di senso che ci permettono di vedere, udire, gustare, ecc. sono strutture immensamente più semplici del cervello, capace di elaborare queste sensazioni. Di conseguenza, la libertà d’azione di cui godono le terminazioni nervose sensoriali è terribilmente più ridotta di quella del cervello. A causa della relativa semplicità del sistema nervoso periferico, il colore giallo, ad esempio, è visto allo stesso modo da tutti gli appartenenti al genere umano perché posseggono organi di senso uguali. Altrettanto non si può dire per le immagini di fantasia che vengono elaborate dai nostri cervelli».

Una riflessione quanto mai stimolante per un biologo.
«Apre la strada a una serie di considerazioni e analogie appassionanti. Per cominciare, la struttura che stiamo considerando è chiaramente bipolare: un polo, quello 'periferico' è costituito dalle terminazioni nervose incapaci di elaborazioni proprie e strettamente dipendenti dagli stimoli sensoriali; l’altro, 'centrale', è il cervello che è sede di inventiva e creatività. Tra i due poli possiamo immaginare che si localizzino le situazioni intermedie. Nelle vicinanze del polo 'periferico' trova posto la scienza empirica; essa infatti parte dai dati dei sensi e vi fa ritorno per verificare la correttezza delle spiegazioni che propone. Ciò rende ragione dell’universale condivisione del linguaggio della scienza e dell’unità dell’impresa scientifica. Il colore giallo, per intenderci, è giallo per tutti, indipendentemente da razze e patrie. Spostato verso l’altro polo sta, invece, il sapere degli umanisti. Per loro, il rispetto del dato dei sensi non è vincolante in senso stretto. Spesso funge solo da punto di partenza per scorribande nel modo della fantasia, della sensibilità artistica o dell’interiorità. Ciò è inevitabilmente legato a tradizioni culturali, scuole di pensiero, tendenze artistiche, tempi e luoghi particolari».

Due mondi irriducibilmente diversi?
«Credo sia più che evidente che la cultura scientifica e quella umanistica sono differenti. In passato su tale diversità si è insistito molto, soprattutto da parte degli uomini di scienza, quasi a mostrare una dicotomia culturale tanto profonda da essere insanabile. Oggi gli uomini di scienza più avveduti non credono che la spaccatura sia definitiva. È diffusa in essi la convinzione che ambedue le culture cooperino per comprendere la realtà, per darle un senso, per giungere alla verità pur utilizzando metodologie e strumenti diversi. La migliore conoscenza dei meccanismi psicologici della scoperta scientifica, poi, fa apprezzare sempre di più le doti di immaginazione e di creatività del ricercatore, rifiutando l’idea che siano esclusivo appannaggio dell’artista».

Quanti scienziati accettano il dialogo con le scienze umane?
«Oggi questo atteggiamento è proprio di una minoranza, sensibile alle esigenze della cultura umanistica e capace di fermarsi a riflettere criticamente sulla propria attività di ricerca. Ma c’è un’altra minoranza, che restringe il proprio orizzonte di interesse quasi esclusivamente entro i confini delle questioni scientifiche, considerate l’unica via efficace alla conoscenza. La situazione attuale sembra giustificare questo atteggiamento: l’avanzare della scienza ha portato indubbi benefici alla vita di tutti. È facile allora cedere alla tentazione di considerare il sapere umanistico come il residuo di un passato superato, frutto di un’elaborazione concettuale lontana dalla realtà della vita, di scarsa utilità e quindi da non prendere in seria considerazione. È, questa, la posizione estrema dello scientismo, spesso contrassegnata tanto da atteggiamenti snobistici di chiusura quanto da comportamenti di supponente arroganza. Coloro che difendono tale posizione estrema sono anch’essi una minoranza, anche se rumorosa».

Se queste sono le due 'ali', dov’è la maggioranza?
«Tra le due posizioni estreme si trova la maggioranza degli uomini di scienza, i quali lavorano senza porsi simili problemi oppure ondeggiano tra i due poli a seconda delle circostanze. Anche l’opinione pubblica è ondivaga. A volte si dimostra più sensibile ai richiami dello scientismo, a volte è preoccupata e intimorita per le conseguenze nefaste che il progresso scientifico potrebbe avere. In ambedue i casi, comunque, l’opinione pubblica guarda al sapere umanistico con occhi distratti, quasi convinta che la partita del futuro sia definitivamente da giocare sul campo della scienza».

Le scienze umane dovranno dunque lottare per non subire un progressivo declino?
«Lo sviluppo equilibrato dell’uomo non può fare a meno né dell’una né dell’altra polarità. Coniugarle, anzi, deve costituire lo scopo di ogni tipo di impegno culturale, primo fra tutti l’educazione delle giovani generazioni. Per la loro formazione è necessario il sapiente bilanciamento delle due culture».
«Avvenire» del 13 maggio 2010

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