13 maggio 2010

Loi: «La poesia è cibo spirituale»

Duomo di Milano sul potere «educativo» della letteratura
di Bianca Garavelli
Domani alle 19, nel Battistero del Duomo di Milano, Fran­co Loi, uno dei più apprez­zati poeti italiani, parlerà di «Edu­cazione spirituale della poesia» nel­la conferenza «Tremare insieme co­me Dio vuole». L’incontro è pro­mosso dal Vicariato per la cultura e dal Coordinamento dei Centri Cul­turali Cattolici dell’Arcidiocesi di Milano, curato dall’Associazione Sant’Anselmo e dall’Assessorato al­la Cultura. Ne è nata questa conver­sazione.


Un titolo che fa pensare al tremito dell’aria che annuncia l’arrivo dell’amata nella poesia medievale, e al tremare di emozione del poeta. C’è un legame?
«C’è e non c’è. È un indice di sensi­bilità: una persona che sta attenta alla vita ha tante occasioni di tre­more. Quello a cui penso è il trema­re, o forse meglio il vibrare dell’es­senza spirituale che ogni cosa pos­siede e che dà impulso alla vita.
Quando questa vibrazione si prova in due, allora si ha il senso di aver toccato il mistero. È in momenti come questo che si risveglia la con­sapevolezza del Dio che è dentro di noi. I poeti se ne rendono conto, ma non tutti. La grande importan­za dell’arte, non solo della poesia ma anche della musica, per esem­pio (e la poesia è anche musica) sta in questo: ti fa vibrare in tutto il tuo essere. Il corpo, lo spirito, e anche l’essenza profonda di cui parlavo prima. È come il ripercuotersi di un’onda musicale nell’universo in­tero: non riguarda solo te e chi ti a­scolta. Quando ascoltavo la Passio­ne secondo Matteo di Bach, mi toc­cava delle corde così profonde che a volte mi scendevano le lacrime, anche se non pensavo a niente».
È questa 'l’educazione' che la poe­sia può attuare?
«Certo: compito della poesia è portare alla consapevolezza della propria essenza divina. Quando dico 'tremare' intendo l’essere travolti da qualcosa che non sappiamo bene che co­sa sia. Noi gli diamo dei nomi, come ai colori, ai fiori, alla dolcezza di u­na stella: gli diamo ine­sorabilmente una veste corporale, ma sentiamo anche di aver raggiunto le corde divine dentro di noi. Dice Cristo: il regno dei cieli è dentro di voi. È questa dignità che vibra: il Dio che portiamo dentro. Io ho provato, in poesia, l’importanza che ha questo 'lasciarsi dire' da ciò che si muove dentro. L’ho provato nei più bei momenti della mia vita.
È quello di cui parla Leopardi quando scrive alla sorella Paolina: finalmente sono tornato all’alle­grezza dello scrivere poesia. Anche la Cvetaeva diceva che quando scri­veva poesia era come se qualcuno dentro di lei volesse disperatamen­te emergere. È il fenomeno che Dante descrive quando dice 'I’ mi son un che, quando / Amor mi spi­ra, noto, / e a quel modo / ch’ e’ dit­ta dentro vo significando': quando amore lo ispira ascolta e prende nota. Non è il tuo consapevole io, né la tua sapienza a farti scrivere, ma qualcosa che avviene dentro di te. I momenti della scrittura sono momenti di grande gioia, inegua­gliabili: io mi sono sentito unico al mondo. Ma succede anche a chi a­scolta: non sa dire perché, gli si ri­sveglia dentro il senso di qualcosa che non sa, o non ricordava. Un tremare dell’amore divino».
Nella scuola di oggi si potrebbe fa­re un investimento sulla poesia?
«No. Perché si fa la scuola pensan­do che sia imparare dai libri, men­tre nessuno si preoccupa della ra­gione fondamentale per cui è nata, far crescere la consapevolezza profonda di sé, il 'regno dei cieli' in noi. Lo fa a volte qualche professo­re bravo: i ragazzi quando lo incon­trano se ne innamorano, perché è così difficile che qualcuno parta da loro. La scuola era nata per fare scoprire all’uomo la sua profondità infinita, la spiri­tualità viva dentro di lui e farla crescere. Don Milani diceva che la scuola c’è quando c’è un maestro. A me nessun professore ha mai spiegato il vero signifi­cato di quel 'noto' di Dan­te, messo non a caso tra due virgole, né che cosa a­scoltava Dante».
Che rapporto c’è fra l’essere poeta e l’attività di critico?
«Io sono un critico sui generis: quando trovo un po’ di poesia, cer­co di aiutare chi la fa, partendo sempre dalla qualità, ma senza fare dei discorsi letterari. Credo poco nelle linee letterarie, non ho in mente tutto il ciarpame letterario o l’ideologia attraverso cui alcuni considerano la poesia. Mengaldo mi ha definito 'la voce del sotto­proletariato milanese', Fortini di­ceva che ho una vena anarchica: non so perché. Certi critici o parto­no dall’ideologia o dai canoni della letteratura. Invece io parto da quel­lo che c’è scritto e ne parlo».
Che cosa pensi delle polemiche sulle antologie di poesia? È giusto chiedere spazio per i poeti più gio­vani?
«Non credo che facciano bene alla poesia: ritengo che dietro le pole­miche si nasconda la vanità. Non si può chiedere attenzione per i poeti. Faccio un paragone col ciclismo: u­na volta c’erano i grandi corridori, e c’erano i gregari. Che magari erano bravissimi, però non chiedevano più attenzione, e nessuno propone­va che diventassero i leader della squadra. Restavano gregari, e tutto procedeva. Chi fa polemiche sulla poesia non ha il senso di quanto sia importante la poesia. Non è un poeta. Mi sembra che la polemica sia un segno della decadenza della nostra civiltà, come le scenate dei politicanti. E non credo che nean­che le antologie servano a molto. Io mi sono lasciato convincere a farne una, ma non lo rifarei: le scelte di un’antologia sono troppo parziali, legate alle conoscenze personali».
«Avvenire» del 13 maggio 2010

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