17 maggio 2010

Consiglio per la festa del libro: leggere e scrivere meno, ma meglio

di Giuliano Ferrara
Uno dice la tv, e sputa. La tv è volgare. Poi la lingua: mediocre, oscura, povera lessicalmente. Per non parlare delle maniere e consuetudini, della moda: il trionfo del banale, dell’inestetico, del generico. Critichiamo tutto: i giornali quotidiani, i settimanali, i partiti, le accademie, la scuola. Dovunque rintracciamo il germe del mediocre, dello scadente, dell’insignificante. E il libro? Non si sputa. No, il libro è circondato dall’aura del sensibile, della joie de lire, dell’intimità intelligente, dell’esclusività per ciascuno. Il libro è festivaliero, la sua presentazione è un’epifania, il rito celebrativo non perde apparentemente un colpo: scrivere e pubblicare equivale a incantare, a sottrarre se stessi alla brutalità dell’epoca, alla sua massificazione culturale, come dicono i sociologi della cultura che hanno leggiucchiato Walter Benjamin e le sue tesi sull’auraticità dell’arte e la riproducibilità tecnica delle opere. Ma è così? Dicono questo le classifiche, i saloni del libro, i libri che si pubblicano?
Con tutto il rispetto per le molte buone cose che si stampano, per il lavoro degli editor autorevoli e intelligenti (quando c’è), per la perseveranza degli scrittori che hanno qualcosa da scrivere, per la funzione insostituibile dei libri, il Libro come idolo della cultura celebrativa e come bandiera di buona coscienza in chi legge e in chi non legge mi sembra la più volgaruccia tra le creature con le quali abbiamo a che fare nel vasto mondo. Se analizzate con scrupolo, le classifiche di vendita danno risultati disarmanti: salvo eccezioni, vincono la gara del successo quasi sempre libri poco sorprendenti, messaggi scontati, opere che si conquistano il dominio commerciale con più o meno sottili persuasioni televisive, passaggi giornalistici. Da quanto tempo non esce più un libro a sorpresa? Un racconto o un saggio che impegni il forte e il duraturo che abita le testoline di uomini e donne occidentali?
Ricordo da ragazzo, cioè trent’anni fa, la presentazione a Roma di un libro di Michel Foucault: c’era qualcosa di nuovo, e Umberto Eco non pareva un celebrante del banale (era “Le parole e le cose”). Dall’infanzia mi perseguitano le discussioni su Vladimir Nabokov e la sua “Lolita”, un romanzo che non ho amato, quando più tardi l’ho letto, ma certo non era un remake o una metafora ovvia per giovani scrittori. Il Gattopardo era un’ossessione, come Zivago. Tutte a loro modo sorprese, incursioni significative. La verità, a me sembra, è che i libri sono troppi, sono troppi gli scrittori e le scrittrici, troppi i premi, troppi i festival, troppo compiaciuta la miscela di letteratura e politica, letteratura e civismo, letteratura e sociologia della crescita economica e sociale dell’occidente. Non è questione di industria culturale, siamo oltre il novecentismo e anche oltre il postmoderno. È questione di esagerazione, di accessibilità inaudita dell’edizione, di pigrizia e vanità. Siamo al solito rimescolio di mezzacalzettaggine alla portata di tutte le borse, ma su una scala inverosimile di possibilità estreme: tutti autori, tutti scrittori, tutti produttori di libri.
La gioia di leggere resta. I buoni libri escono. Ma senza selezione, senza la decisione che discrimina e sceglie e rende raro, prezioso, ciò che oggi è diffuso, e a buon prezzo, fino alla noia, il libro dei nostri anni resterà consegnato nella bomboniera delle buone intenzioni realizzate, cioè in un luogo parecchio sordido. È un problema di etica della lingua, del pensiero e della sensibilità che sottopongo ai giovani giornalisti e a tutti coloro che hanno la tentazione del libro, come incitazione a non scrivere troppo, e agli utenti dell’auratico librarismo per tutte le borse che - anche loro - dovrebbero leggere meglio, e meno, meno ma meglio.
«Il Foglio» del 17 maggio 2010

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