Un film che dice qualcosa anche a noi: internet, fantasia e lavoro
di Beppe Severgnini
La forza dirompente dei giovani
La scena più sexy di The Social Network non è quella in cui le stagiste sculettano nella nuova sede di Facebook, ma un’altra. Il rettore di Harvard, l’ex segretario al Tesoro Larry Summers, strapazza due atletici studenti in visita: «Mettetevelo in testa: qui i ragazzi non vengono per trovare lavoro. Vengono per inventarsene uno». The Social Network, che esce oggi in Italia, avrà un grande, meritato successo. Veloce e succulento, scritto e recitato col ritmo nervoso che rende indimenticabili i film, i lavori e gli amori. Speriamo che gli adulti italiani capiscano anche la lezione che contiene. I ragazzi italiani ci riusciranno di sicuro. La lezione, come ricorda Paolo Mereghetti su Corriere.it, non riguarda solo il capitalismo americano, capace di reinventarsi e, quindi, di continuare a condurre il gioco. Riguarda la forza dirompente delle nuove idee, che nelle università trovano l’incubatore naturale. Un incubatore caotico, frenetico e rischioso, com’è prevedile. Ma formidabile, com’è la gioventù.
È tra gli eccessi e nel disordine che, spesso, spuntano le idee. Microsoft è nato nei primi anni 70 a Harvard, dove Bill Gates - pokerista e casinista - conobbe Steve Ballmer e trovò un nuovo algoritmo per l’ordinamento delle frittelle (pancake sorting), una variante degli algoritmi di ordinamento in cui l’unica operazione ammessa è invertire gli elementi di una parte iniziale della successione. La posta elettronica s’è affermata nei college, a metà degli anni 90. Google è l’idea di due studenti di Stanford. Facebook, come dicevano, è nato a Harvard e per Harvard, estendendosi prima alle università dell’est, poi a quelle dell’ovest. Il college americano non è un luogo facile. Gli undergraduates - gli studenti di primo livello - sono sballottati tra proposte e lezioni, feste e riunioni, sport e concerti, giornate infinite e notti in bianco, competizione feroce e solidarietà perenni. Ma vengono invitati - per usare le parole di Steve Jobs - «a essere curiosi e folli». A pensare outside the box, fuori dalla scatola delle convenzioni.
La selezione della specie dei geni avviene così: qualcuno, nel fiume del caos, trova l’oro. Capire che la rete accademica poteva diventare il prototipo per la società: questa l’intuizione di Mark Zuckerberg, classe 1984, nel 2003. Molti avevano capito, già da anni, le potenzialità sociali di internet. Ma unire un algoritmo a un’intuizione, e cavarci un affare planetario be’, è un’altra cosa. In Italia non abbiamo bisogno di inventarci «il libro della facce» - d’accordo, non suona altrettanto bene - per usare al meglio le università. Basta non affamarle (i ricercatori hanno ragione), non permettere che diventino feudi (i baroni hanno torto), e utilizzarle per quello che sono: fabbriche di entusiasmo e di idee. È vero. In Italia non abbiamo i campus americani, la cui promiscuità intellettuale (e non solo) produce reazioni continue, in un gigantesco esperimento di chimica umana. Ma abbiamo città che sono campus naturali: Pavia, Padova, Pisa, Parma, Piacenza, Perugia. In queste «P Cities» che il mondo c’invidia, ma anche nelle buone università metropolitane, stanno le chiavi del nostro futuro comune: la fantasia, l’intuizione, l’incoscienza, l’incapacità di ripetersi perché si è troppo giovani per avere qualcosa da ripetere. Qualsiasi governo italiano - anche questo, finché c’è - dovrebbe capire che il petrolio nazionale sta nella nostra testa: altro non ne abbiamo. I rettori sono sceicchi inconsapevoli: amministrino la nostra ricchezza, investano sul nostro futuro. Un anno fa, di questi tempi, ho trascorso un periodo al Mit (Massachusetts Institute of Technology) come «scrittore in residenza», spostandomi anche a Harvard e a Brown University. Ho capito perché l’America sopravvive alle ondate del mondo e agli squali di Wall Street. Perché la sua parte migliore - c’è anche l’altra - non frustra i ragazzi; li incoraggia. Non li sfrutta; ci investe. Non li investe di rampogne; ne accompagna il volo nella vita. Non è bontà: è bassa, egoistica lungimiranza. Convincere un ragazzo o una ragazza che può diventare felice, ricco e famoso con un’idea; non mostrando i tatuaggi e le mutandine in televisione. Spiegare che creare una società commerciale può essere eccitante come partire per un viaggio; ed evitare di soffocare di regole e cavilli la partenza di quel viaggio. Andate a vedere The Social Network, e invidiateli.
«Corriere della Sera» del 12 novembre 2010
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