di Vittorio Mathieu
Più che per caratterizzare i tre autori studiati, il libro di Vincenzo Vitale (Volti dell’ateismo. Mancuso, Augias, Odifreddi, Sugarco, Milano 2010, pp. 216, € 16) è prezioso per mettere in luce la fede dell’ateo. Mentre lo scienziato e l’agnostico non hanno opinioni su Dio, l’ateo è un credente. La sua opinione su Dio o gli dèi della religione non si limita a dire che la parola «Dio» non significa niente, non corrisponde a nulla: egli si prefigge di combattere un errore che mina l’esistenza dell’uomo. Se la parola «dio» (come abracadabra) non pretendesse di significare qualcosa, dire che Dio non esiste sarebbe vano. Ma, al contrario, l’esistenza di Dio ha molti significati, non solo per il religioso, ma per il filosofo, lo scienziato, il politico, l’uomo comune; e questi significati insinuano nell’esistenza umana opinioni e comportamenti dannosi, a volte aberranti. La fede in Dio suscita una condotta contraria al benessere e alla felicità. Non essendo un semplice sbaglio intellettuale, ma una persuasione radicata, va combattuta, non solo intellettualmente, ma per mezzo di una fede contraria.
Miti, provvidenza, superstizione
Che nel modo di rappresentare gli dèi, o il Dio unico degli ebrei, emergano molte cose che «non stanno né in cielo né in terra» lo si è sempre saputo. Pensiamo all’osservazione di Senofane: se i buoi pensassero a un loro dio, ne farebbero un bovino. Allora affermazioni spacciate come vere, nel migliore dei casi alluderebbero ad altro (cioè: «significherebbero giocando»); come tali, più che confutate, andranno interpretate: il credente che le prenda alla lettera non capisce niente. Le credenze spesso assumono l’aspetto di racconti, come se narrassero cose accadute, mentre sono allegorie, allucinazioni allusive. Dei mitologi, pertanto, si dovrà diffidare. E del sovrano fra loro, Omero, Eraclito dice che «andrebbe cacciato dagli agoni letterari con la frusta» (fr. 84). Né migliore accoglienza trovano in lui Esiodo e Pitagora, perché «il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto» (fr. 82). Su Omero non è molto diverso il parere di Platone: se avesse avuto il tempo di fare il letterato anziché il politico, Pisistrato sarebbe stato molto superiore. (Curioso tuttavia, che al mito il tardo Platone sostituisse l’utopia di Atlantide).
Credo che occorra arrivare al sec. XVIII dell’èra cristiana per trovare rivalutato il mito da Giambattista Vico: come favola, sì, ma come «favola vera». Vico teorizza tre forme di inadeguatezza del conoscere, che si succedono nel tempo: la prima, ancora «bestiale» è soprattutto timore di Giove, cioè del fulmine; la seconda è fantasia di eventi immaginati, in cui si mescolano uomini e dèi; la terza è «sapienza riposta» cioè scientifica, concettuale, ma come tale astratta. Essa dà luogo a un ritorno alle origini, cioè alla barbarie, come «barbarie della raffinatezza». Tutte le preferenze del Vico vanno all’età di mezzo, della verità fantastica; la più inventiva anche di cose utili (occhiali, bussola, nave a sole vele), che succede alla rinnovata barbarie dell’alto Medioevo e si prolunga fino a Galileo, prima di degenerare in uno scientismo sempre più arido e astratto.
Il rapporto del divino col mondo degli uomini è designato dal Vico come «Provvidenza» e dagli uomini è interpretato in un modo che varia nelle tre età: come minaccia dai «bestioni di Hobbes»; come guida (spesso «abscondita sub contrario») dalla fantasia; come necessità che domina il caso (alla Jacques Monod) nello scientismo. In questa terza forma è ovvio che non posso ammettere il Dio della fede, perché la fede è l’opposto del sapere. Quando manca il sapere, e quindi la necessità, la fede può servire di speranza o di consolazione, ma quando nella scienza non c’è spazio se non per il caso e la necessità, l’effetto della fede sarà di ridurre il più possibile i benefici della scienza e di assoggettarci a una speranza decettiva. Diviene così un dogma per la ragione stessa la necessità di difenderci dalla fede religiosa, e la fede andrà combattuta, non solo diffondendo il sapere, ma con una controfede, come persuasione attiva e operativa di ateismo. Sembra un paradosso che l’ateo debba avere una fede, ma non lo è, perché è la stessa superstizione religiosa quella che impone una fede all’ateo.
La fede dello scientismo
L’ateismo contemporaneo è quindi giustamente collegato dal Vitale allo scientismo, che è una sorta di fede nella scienza, a cui il Vitale obietta che la scienza è la prima a demolire radicalmente lo scientismo: non solo in matematica (teoremi d’incompletezza di Gódel e compagni), ma nella stessa fisica, che affronta la realtà di petto. Per accantonare la creazione c’è chi dice che basta l’esplosione del big bang, e poi la gravità a spiegare tutto. Ma la fisica del Novecento ha mostrato, con Bohr e con Schródinger, che appunto quei due postulati escludono l’autosufficienza: il big bang perché è per definizione l’inconcepibile (una sorta di unico quantum di energia infinita: Lemaitre); e la gravità perché sfugge alla teoria unificata del campo, che Einstein cercò invano sulle orme di Maxwell (che aveva unificato elettricità e magnetismo). Non si riesce, infatti, a mettere in luce i «gravitoni», o particelle elementari che, per la meccanica quantistica, dovrebbero essere associati a onde gravitazionali.
Salviamo la materia!
Mentre il positivista ottocentesco era un materialista, la fisica del Novecento rischia di dissolvere la materia; di fame un «costrutto» puramente mentale. Al punto che, in un mio saggio filosofico di prossima pubblicazione, ho invocato: «Salvate la materia!». Come la salvava Tommaso d’Aquino, ammettendo una materia provvisoria per le anime in attesa della risurrezione dei corpi. C’è oggi bensì la speranza (e il timore) di ottenere una sorta di big bang artificiale, accelerando particelle a una velocità vicina alla velocità della luce; ma, a quanto pare, le speranze e connessi timori di una distruzione totale sono per il momento andate deluse. La fisica del Novecento, nella sua disarticolazione tra meccanica classica e meccanica quantistica, è la migliore confutazione dello scientismo.
Miti, provvidenza, superstizione
Che nel modo di rappresentare gli dèi, o il Dio unico degli ebrei, emergano molte cose che «non stanno né in cielo né in terra» lo si è sempre saputo. Pensiamo all’osservazione di Senofane: se i buoi pensassero a un loro dio, ne farebbero un bovino. Allora affermazioni spacciate come vere, nel migliore dei casi alluderebbero ad altro (cioè: «significherebbero giocando»); come tali, più che confutate, andranno interpretate: il credente che le prenda alla lettera non capisce niente. Le credenze spesso assumono l’aspetto di racconti, come se narrassero cose accadute, mentre sono allegorie, allucinazioni allusive. Dei mitologi, pertanto, si dovrà diffidare. E del sovrano fra loro, Omero, Eraclito dice che «andrebbe cacciato dagli agoni letterari con la frusta» (fr. 84). Né migliore accoglienza trovano in lui Esiodo e Pitagora, perché «il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto» (fr. 82). Su Omero non è molto diverso il parere di Platone: se avesse avuto il tempo di fare il letterato anziché il politico, Pisistrato sarebbe stato molto superiore. (Curioso tuttavia, che al mito il tardo Platone sostituisse l’utopia di Atlantide).
Credo che occorra arrivare al sec. XVIII dell’èra cristiana per trovare rivalutato il mito da Giambattista Vico: come favola, sì, ma come «favola vera». Vico teorizza tre forme di inadeguatezza del conoscere, che si succedono nel tempo: la prima, ancora «bestiale» è soprattutto timore di Giove, cioè del fulmine; la seconda è fantasia di eventi immaginati, in cui si mescolano uomini e dèi; la terza è «sapienza riposta» cioè scientifica, concettuale, ma come tale astratta. Essa dà luogo a un ritorno alle origini, cioè alla barbarie, come «barbarie della raffinatezza». Tutte le preferenze del Vico vanno all’età di mezzo, della verità fantastica; la più inventiva anche di cose utili (occhiali, bussola, nave a sole vele), che succede alla rinnovata barbarie dell’alto Medioevo e si prolunga fino a Galileo, prima di degenerare in uno scientismo sempre più arido e astratto.
Il rapporto del divino col mondo degli uomini è designato dal Vico come «Provvidenza» e dagli uomini è interpretato in un modo che varia nelle tre età: come minaccia dai «bestioni di Hobbes»; come guida (spesso «abscondita sub contrario») dalla fantasia; come necessità che domina il caso (alla Jacques Monod) nello scientismo. In questa terza forma è ovvio che non posso ammettere il Dio della fede, perché la fede è l’opposto del sapere. Quando manca il sapere, e quindi la necessità, la fede può servire di speranza o di consolazione, ma quando nella scienza non c’è spazio se non per il caso e la necessità, l’effetto della fede sarà di ridurre il più possibile i benefici della scienza e di assoggettarci a una speranza decettiva. Diviene così un dogma per la ragione stessa la necessità di difenderci dalla fede religiosa, e la fede andrà combattuta, non solo diffondendo il sapere, ma con una controfede, come persuasione attiva e operativa di ateismo. Sembra un paradosso che l’ateo debba avere una fede, ma non lo è, perché è la stessa superstizione religiosa quella che impone una fede all’ateo.
La fede dello scientismo
L’ateismo contemporaneo è quindi giustamente collegato dal Vitale allo scientismo, che è una sorta di fede nella scienza, a cui il Vitale obietta che la scienza è la prima a demolire radicalmente lo scientismo: non solo in matematica (teoremi d’incompletezza di Gódel e compagni), ma nella stessa fisica, che affronta la realtà di petto. Per accantonare la creazione c’è chi dice che basta l’esplosione del big bang, e poi la gravità a spiegare tutto. Ma la fisica del Novecento ha mostrato, con Bohr e con Schródinger, che appunto quei due postulati escludono l’autosufficienza: il big bang perché è per definizione l’inconcepibile (una sorta di unico quantum di energia infinita: Lemaitre); e la gravità perché sfugge alla teoria unificata del campo, che Einstein cercò invano sulle orme di Maxwell (che aveva unificato elettricità e magnetismo). Non si riesce, infatti, a mettere in luce i «gravitoni», o particelle elementari che, per la meccanica quantistica, dovrebbero essere associati a onde gravitazionali.
Salviamo la materia!
Mentre il positivista ottocentesco era un materialista, la fisica del Novecento rischia di dissolvere la materia; di fame un «costrutto» puramente mentale. Al punto che, in un mio saggio filosofico di prossima pubblicazione, ho invocato: «Salvate la materia!». Come la salvava Tommaso d’Aquino, ammettendo una materia provvisoria per le anime in attesa della risurrezione dei corpi. C’è oggi bensì la speranza (e il timore) di ottenere una sorta di big bang artificiale, accelerando particelle a una velocità vicina alla velocità della luce; ma, a quanto pare, le speranze e connessi timori di una distruzione totale sono per il momento andate deluse. La fisica del Novecento, nella sua disarticolazione tra meccanica classica e meccanica quantistica, è la migliore confutazione dello scientismo.
«Studi cattolici» n. 597 del novembre 2010, pp. 783-784
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