Verga applica coerentemente i princìpi della sua poetica nelle opere veriste composte dal ‘78 in poi, e ciò dà origine ad una tecnica narrativa profondamente originale e innovatrice, che si distacca sia dalla tradizione sia dalle contemporanee esperienze italiane e straniere
La scomparsa del narratore “onnisciente”
Nelle sue opere effettivamente l’autore si «eclissa», si cala «nella pelle» dei personaggi, vede le cose «coi loro occhi» e le esprime «colle loro parole». A raccontare infatti non è il narratore "onnisciente" tradizionale, che, come nei romanzi di Manzoni, Balzac o Scott, riproduce il livello culturale, i valori, i princìpi morali, il linguaggio dello scrittore stesso, ed interviene continuamente nel racconto ad illustrare gli antefatti o le circostanze dell’azione, a tracciare il ritratto dei personaggi, a spiegare i loro stati d’animo e le motivazioni psicologiche dei loro gesti, a commentare e giudicare i loro comportamenti, a dialogare col lettore.
La "regressione" nell’ambiente rappresentato
Il punto di vista dello scrittore non si avverte mai, nelle opere di Verga: la "voce" che racconta si colloca tutta all’interno del mondo rappresentato, è allo stesso livello dei personaggi. Non è propriamente qualche specifico personaggio a raccontare, ma il narratore si mimetizza nei personaggi stessi, adotta il loro modo di pensare e di sentire, si riferisce agli stessi criteri interpretativi, agli stessi princìpi morali, usa il loro stesso modo di esprimersi. È come se a raccontare fosse uno di loro, che però non compare direttamente nella vicenda, e resta anonimo. Quindi i fatti non passano attraverso la «lente» dello scrittore: siccome chi narra è interno al piano della rappresentazione, il lettore ha l’impressione di trovarsi «faccia a faccia col fatto nudo e schietto». Tutto ciò si impone con grande evidenza agli occhi del lettore perché Verga, nei Malavoglia e nelle novelle, rappresenta ambienti popolari e rurali e mette in scena personaggi incolti e primitivi, contadini, pescatori, minatori, la cui visione e il cui linguaggio sono ben diversi da quelli dello scrittore borghese (diverso è il caso del Gesualdo).
La scomparsa del narratore “onnisciente”
Nelle sue opere effettivamente l’autore si «eclissa», si cala «nella pelle» dei personaggi, vede le cose «coi loro occhi» e le esprime «colle loro parole». A raccontare infatti non è il narratore "onnisciente" tradizionale, che, come nei romanzi di Manzoni, Balzac o Scott, riproduce il livello culturale, i valori, i princìpi morali, il linguaggio dello scrittore stesso, ed interviene continuamente nel racconto ad illustrare gli antefatti o le circostanze dell’azione, a tracciare il ritratto dei personaggi, a spiegare i loro stati d’animo e le motivazioni psicologiche dei loro gesti, a commentare e giudicare i loro comportamenti, a dialogare col lettore.
La "regressione" nell’ambiente rappresentato
Il punto di vista dello scrittore non si avverte mai, nelle opere di Verga: la "voce" che racconta si colloca tutta all’interno del mondo rappresentato, è allo stesso livello dei personaggi. Non è propriamente qualche specifico personaggio a raccontare, ma il narratore si mimetizza nei personaggi stessi, adotta il loro modo di pensare e di sentire, si riferisce agli stessi criteri interpretativi, agli stessi princìpi morali, usa il loro stesso modo di esprimersi. È come se a raccontare fosse uno di loro, che però non compare direttamente nella vicenda, e resta anonimo. Quindi i fatti non passano attraverso la «lente» dello scrittore: siccome chi narra è interno al piano della rappresentazione, il lettore ha l’impressione di trovarsi «faccia a faccia col fatto nudo e schietto». Tutto ciò si impone con grande evidenza agli occhi del lettore perché Verga, nei Malavoglia e nelle novelle, rappresenta ambienti popolari e rurali e mette in scena personaggi incolti e primitivi, contadini, pescatori, minatori, la cui visione e il cui linguaggio sono ben diversi da quelli dello scrittore borghese (diverso è il caso del Gesualdo).
Un esempio chiarissimo è fornito dall’inizio di Rosso Malpelo, che è la prima novella verista pubblicata da Verga (1878) e che inaugura la nuova maniera di narrare: «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo». La logica che sta dietro questa affermazione non è certo quella di un intellettuale borghese quale era Verga: fa infatti dipendere da una qualità essenzialmente morale («malizioso e cattivo») un dato fisico, naturale, i capelli rossi; rivela cioè una visione primitiva e superstiziosa della realtà, estranea alle categorie razionali di causa ed effetto, che vede nell’individuo "diverso" un essere segnato come da un’oscura maledizione, che occorre temere e da cui è necessario difendersi. E tutta la vicenda è narrata da questo punto di vista: è come se a raccontare non fosse lo scrittore colto, ma uno qualunque dei vari minatori della cava in cui lavora Malpelo.
Non solo, ma questo anonimo narratore, tipico delle opere verghiane che trattano di ambienti popolari, non informa esaurientemente sul carattere e sulla storia dei personaggi (come fa ad esempio Manzoni: si pensi ai capitoli interi dedicati a fra Cristoforo, alla monaca di Monza, all’innominato), né offre dettagliate descrizioni dei luoghi dove si svolge l’azione (si pensi ancora alla descrizione del lago di Como che apre I promessi sposi): ne parla come se si rivolgesse a un pubblico appartenente a quello stesso ambiente, che avesse sempre conosciuto quelle persone e quei luoghi. Perciò il lettore all’inizio dei Malavoglia e dei vari racconti si trova di fronte a personaggi di cui possiede solo notizie parziali o non essenziali, e solo a poco a poco arriva a conoscerli, attraverso ciò che essi stessi fanno o dicono, o attraverso ciò che altri personaggi dicono di loro. E se la voce narrante commenta e giudica i fatti, non lo fa certo secondo la visione colta dell’autore, ma in base alla visione elementare e rozza della collettività popolare, che non riesce a cogliere le motivazioni psicologiche autentiche delle azioni e deforma ogni fatto in base ai suoi princìpi interpretativi, fondati sulla legge dell’utile e dell’interesse egoistico. Di conseguenza anche il linguaggio non è quello che potrebbe essere dello scrittore, ma un linguaggio spoglio e povero, punteggiato di modi di dire, paragoni, proverbi, imprecazioni popolari, dalla sintassi elementare e talora scorretta, in cui traspare chiaramente la struttura dialettale (anche se Verga non usa mai direttamente il dialetto, ma sempre solo un lessico italiano; tanto che se deve citare un termine dialettale lo isola mediante il corsivo).
Tratto da Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, edizione modulare 3/1 (“Carducci e Verga”), pp. 53-54.
Tratto da Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, edizione modulare 3/1 (“Carducci e Verga”), pp. 53-54.
Postato il 5 gennaio 2011
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