Sul finire del Cinquecento l’ultimo grande poeta che tenta la lirica d’amore sul modello petrarchesco, fondendolo a una ripresa classicista della lirica greca e dell’elegia latina, è Torquato Tasso. Come si ricava dalla riflessione teorica dell’autore, il punto di partenza del Tasso lirico è quello di un petrarchismo eterodosso, che si riconosce, fuori dalla cornice codificata del Bembo, nella figura inquieta di Giovanni Della Casa. A un ideale della composta chiarezza melodica subentra un ‘eleganza difficile, a volte persino "aspra" nella sua ricerca di una musicalità irregolare, più consona ad esprimere il pathos dell’emozione, senza tuttavia dimenticare che il genere lirico non può prescindere dall’«amenità», con «un non so che di ridente, di fiorito e di lascivo» (sono parole del poeta stesso).
Poesia e musica
Le rime tassiane, ritenute innovative sotto ogni aspetto, ricevettero il plauso dei contemporanei. In esse, ed è questa una delle novità, manca un centro, un’esperienza esemplare, e molteplici sono le direzioni verso cui si muove l’ispirazione. Altro elemento di novità, fertile di sviluppi futuri, è il recupero del rapporto della poesia con la musica. Legato alla vita di corte e al suo sistema complesso di riti, dalla festa all’occasione galante ed encomiastica, il genere lirico consente al Tasso di esprimere una sensibilità musicale raffinata, educata a contatto con la musica più viva del suo tempo. La corte di Ferrara, dove il poeta visse nel suo periodo più felice, era uno dei centri di irradiazione della polifonia madrigalistica, il genere musicale che conosceva proprio allora la sua epoca d’oro.
Negli anni Ottanta-Novanta del Cinquecento la poesia del Tasso gode presso i musicisti di una straordinaria fortuna: soprattutto i suoi madrigali ricevono ripetutamente veste musicale, e tra compositori che traggono ispirazione dalla sua parola poetica vi è anche il giovane protagonista della moderna musica per la scena, Claudio Monteverdi.
Una lirica manieristica
Sul finire del secolo, nel crepuscolo del Rinascimento, la trasformazione del gusto, con la ricerca dell’anomalo, del problematico, del disarmonico, investe anche il codice lirico. Proprio le Rime del Tasso attestano sul piano più alto la svolta verso una raffinatezza che nasconde una crisi, in un ripensamento delle forme della tradizione in cui è possibile ravvisare i caratteri del cosiddetto Manierismo. Il preziosismo sensuale, la tensione metafisica, la fantasia visionaria che caratterizzano il peculiare petrarchismo del Tasso si collocano già alle soglie del concettismo proprio dell’età barocca.
Torquato Tasso, Su l’ampia fronte il crespo oro lucente
Composto tra il 1561 e il 1562 per la quindicenne Lucrezia Bendidio, la damigella estense di cui Tasso si era innamorato, il sonetto fu stampato per la prima volta nel 1565 in una Raccolta antologica di poeti contemporanei approntata da un letterato amico, Dionigi Atanagi. Nel 1567 il testo riappare tra le quarantadue poesie, sorta di canzoniere amoroso, che Torquato destina alle Rime degli Accademici Eterei. Si tratta di una prova giovanile, ma a questo sonetto il poeta resterà poi sempre singolarmente legato: ancora nel 1592, nel dialogo Il Minturno overo de la bellezza, uno degli interlocutori ne rievoca e ne discute le due terzine, quasi a far riaffiorare un ‘immagine remota di giovinezza.
Su l’ampia fronte il crespo oro lucente
sparso ondeggiava, e de’ begli occhi il raggio
al terreno adducea fiorito maggio
e luglio a i cori oltre misura ardente:
nel bianco seno Amor vezzosamente
scherzava, e non osò di fargli oltraggio,
e l’aura del parlar cortese e saggio
fra le rose spirar s’udia sovente.
Io, che forma celeste in terra scòrsi,
rinchiusi i lumi e dissi: Ahi, come è stolto
sguardo che ‘n lei sia d’affissarsi ardito!
Ma de l’altro periglio non m’accòrsi:
ché mi fu per le orecchie il cor ferito
e i detti andaro ove non giunse il volto.
Metro: sonetto con schema ABBA ABBA CDE CED.
1. il crespo oro lucente: i capelli biondi e ricciuti.
3-4. al... ardente: recava al suolo la dolce aura primaverile (maggio), fecondatrice dei fiori («fiorito»), e ai cuori l’intenso ardore dell’estate («luglio»).
8. rose: le rosee labbra.
10. lumi: occhi.
14. ove: cioè nel cuore.
Torquato Tasso, Riede la stagion lieta, e ‘n varie forme
Questo sonetto risale agli anni della prigionia. In una lettera da Sant Anna, Tasso fa pervenire al duca Alfonso il testo manoscritto del componimento accompagnandolo con una dichiarazione fervida di rinnovata vitalità: «oggi, dopo molti giorni che per infermità ho taciuto, ho fatto un sonetto quasi amoroso». Ma, sappiamo, si tratta di uno squarcio di luce effimera, proprio come il ritorno del Carnevale da cui il testo prende le mosse.
Riede la stagion lieta, e ‘n varie forme
sotto non veri aspetti i veri amanti
celan se stessi e sotto il riso i pianti,
seguendo di chi fugge i passi l’orme.
Io, come vuole Amor che mi trasforme,
mi vesto ad or ad or novi sembianti,
e mille larve a me d’intorno erranti
veggio con dubbio cor che mai non dorme.
Con queste avvien ch’io pianga e canti e scriva,
or di speranza pieno ed or d’orrore,
ed or prenda la spada or la faretra.
Ma tu dentro e di fuor, presente e viva
mi sei crudel: ma pur ti placa, Amore,
che forse grazia de’ miei falli impetra.
Metro: sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE.
1. Riede... lieta: ritorna il carnevale.
2-3. sotto... pianti: gli amanti si travestono, indossano le maschere e celano dietro al riso il pianto.
4. passi: oggetto di «seguendo».
7. larve: ombre, visioni; ma il termine designa anche le «maschere».
11. ed or.. faretra: ora «avvien» che io prenda la maschera dell’eroe (simboleggiata dalla «spada») ora quella dell’innamorato (la «faretra» di Amore).
14. impetra: supplica, implora.
Analisi
Oltre la tradizione petrarchesca
Il sonetto Su l’ampia fronte il crespo oro lucente appare subito come una variazione sul tema stilnovistico e petrarchesco dell’innamoramento. Esso infatti si rivela debitore della tradizione sia per quanto concerne temi e situazioni (i capelli biondi che ondeggiano al vento, gli occhi lucenti veicolo delle fiamme d’amore, la donna come presenza celeste, il timore - già cavalcantiano - della potenza della passione, il pericolo costituito dalla bellezza della donna contro cui è vano ogni schermo o riparo) sia per più puntuali echi lessicali: il primo verso richiama il memorabile «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi»; e ancora: «oltra misura ardente» è citazione quasi letterale di «oltra misura ardea», mentre l’espressione «forma celeste» (v. 9) appare una sorta di sintesi tra i petrarcheschi «angelica forma» e «spirto celeste», sempre del sonetto XC del Canzoniere.
Ma pur riaffermando il proprio legame con la tradizione, il giovane Tasso sembra irresistibilmente attratto a violarne o ad approfondirne i termini.
La rettifica più evidente si incontra nelle due terzine, che presentano in uno schema metrico dalla simmetria trasgredita (CDE CED). Era pensiero di Tasso teorico che la forma del sonetto dovesse addensare la punta semantica della composizione nel finale, già sulla via secentesca dell’epigramma. Ora nel nostro testo proprio «l’aura del parlar», la dolcezza ambigua della voce della donna si rivela a sorpresa il più efficace strumento di seduzione.
Questa sottolineatura della dimensione uditiva nella fenomenologia delle cause d’amore costituisce nella tradizione petrarchesca un fatto nuovo. E non si tratta semplicemente di un atto di omaggio alla voce stupenda della Bendidio, apprezzata cantante alla corte estense. II sonetto è testimonianza precoce dell’attrazione di Tasso per la magia della parola musicale in cui riconosce una manifestazione del «non so che», della sfumatura o dell’ambivalenza per sempre sfuggente alla presa del concetto.
Il Carnevale e le sue maschere come metafora dell’esistenza
Con il sonetto Riede la stagion lieta, e ‘n varie forme ci inoltriamo in una regione più fonda ed enigmatica, pur attraverso l’evocazione frizzante di un Carnevale ferrarese, nel tempo degli «spettacoli» e dei «giochi». «La vita è un gioco», osserva invero la controfigura di Tasso in uno dei Dialoghi. E nell’ottica di questa immagine dell’esistenza, il poeta del nostro sonetto sa leggere «sotto non veri aspetti i veri amanti», e «sotto il riso il pianto», quasi che proprio col Carnevale e il suo tripudio di maschere giungessero a rivelazione piena la fugacità e I’inafferabilità di tutte le figure del desiderio. Ma le maschere si convertono nelle «mille larve a me d’intorno erranti» nella solitudine squallida di Sant’Anna. E ora il poeta, si trasmuta interiormente in queste forme, che non sono poi se non il frutto del vaneggiamento provocato da Amore.
Scatta così il colloquio con le ombre, tra «speranza» e «orrore», ora vestito della «spada» eroica ora della «faretra», simbolo di Cupido, in un seguito di «novi sembianti» creati a forza di immaginazione e di desiderio. Tra le apparizioni si staglia alla fine (vv.12-14) la figura «presente e viva» della donna desiderata, che è insieme «crudele» e immagine di «grazia», sullo sfondo retrospettivo della coscienza solitaria che implora e si accusa («miei falli»).
Torquato Tasso, Ecco mormorar l’onde
Al madrigale, forma del genere lirico tradizionalmente considerata minore, Tasso dedica un’attenzione che non conosce flessioni nell’arco intero della sua carriera di scrittore, esplorandone con convinzione dimensioni e potenzialità. Di questa produzione assai fitta, in molti casi legata anche all’occasione cortigiana del parlare arguto e del biglietto galante, sono esempi significativi i brani seguenti.
Ecco mormorar l’onde
e tremolar le fronde
a l’aura mattutina e gli arboscelli,
e sovra i verdi rami i vaghi augelli
cantar soavemente
e rider l’oriente:
ecco già l’alba appare
e si specchia nel mare,
e rasserena il cielo
e le campagne imperla il dolce gelo,
e gli alti monti indora.
O bella e vaga Aurora,
l’aura è tua messaggera, e tu de l’aura
ch’ogni arso cor ristaura.
Metro: madrigale composto di 14 versi tra settenari ed endecasillabi che rimano secondo lo schema aaBBccddeEffGg.
3. a l’aura: parola petrarchesca, usata anche qui in modo allusivo: a Laura (Peperara).
10. dolce gelo: la rugiada.
12-14. O bella... ristaura: l’Aurora, annunciata dal l’aura del mattino, annuncia pure l’arrivo di Laura che ristora il cuore innamorato del poeta.
Torquato Tasso, Qual rugiada o qual pianto
Qual rugiada o qual pianto
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l’erba fresca in grembo?
Perché ne l’aria bruna
s’udìan, quasi dolendo, intorno intorno
gir l’aure insino al giorno?
Fûr segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
Metro: madrigale di 12 versi, endecasillabi e settenari, che rimano secondo lo schema abABCDdcEeFf.
3. notturno manto: il cielo.
6-7. di cristalline... grembo: un puro nembo di rugiada, dalle gocce simili a stelle di cristallo, in grembo all’erba fresca.
10. gir: andare.
11. Fûr segni ... partita: furono forse segnali della tua partenza.
Analisi
Un gioco virtuoso di iterazioni toniche
Il madrigale Ecco mormorar l’onde appartiene alla serie di rime composte per Laura Peperara. E in realtà l’apparizione congiunta dell’aurora e della donna amata si risolve in un esercizio virtuoso di sensibilità musicale, dominato dalla disseminazione anagrammatica del senhal Laura: da «aura» ad «aurora» e a «restaura», dal «tremolar» delle «fronde» o degli «arboscelli» alla luce dorata dell’«oriente».
A questo petrarchismo musicalizzato è altresì essenziale lo smaterializzarsi delle sensazioni in un seguito volubile di apparizioni in fuga: nella struttura paratattica attivata dal duplice «ecco» nessuna figura ha il tempo di prendere consistenza, in una sorta di camera dell’eco ove le rime interne («mormorar», «tremolar», «cantar») si incrociano alla cadenza attentamente variata delle rime baciate, la prima e l’ultima delle quali sono per di più inclusive («onde», «fronde», «aura», «ristaura»).
La separazione dalla donna amata
Quello della separazione dolorosa dalla donna amata, della sua partenza («partita») per un altrove imprecisato, è un topos della poesia madrigalistica rinascimentale. Ciò che è peculiare del madrigale Qual rugiada o qual pianto è che la notizia della separazione sia differita al distico finale, dopo che i suoi «segni» si sono diffusi in un notturno sospeso alla struggente tenerezza di una melodia verbale ripetutamente interrogativa. Ne nasce una partitura complessa tra leggiadria, intenerimento patetico e acutezza concettosa, che trova il suo tratto distintivo nella connotazione antropomorfica, dalle lacrime della luna e delle stelle, che presuppongono un «volto», alla sensazione acustica delle «aure» spiranti «quasi dolendo».
Più ancora che di paesaggio-stato d’animo converrà parlare di reversibilità speculare tra terra e cielo, che s’avvera nel modo più intenso nella metafora, arditissima, delle perle di rugiada come «cristalline stelle» cosparse «in grembo» all’érba, sempre di nuovo con una connotazione di femminilità. Ma ancora una volta, il suggerimento di un’analogia profonda tra il sentire umano e le figure del creato, qui nel segno patetico della nostalgia, dipende dall’incanto della musica verbale, dal suo fitto intreccio di corrispondenze, di allitterazioni, di echi.
Poesia e musica
Le rime tassiane, ritenute innovative sotto ogni aspetto, ricevettero il plauso dei contemporanei. In esse, ed è questa una delle novità, manca un centro, un’esperienza esemplare, e molteplici sono le direzioni verso cui si muove l’ispirazione. Altro elemento di novità, fertile di sviluppi futuri, è il recupero del rapporto della poesia con la musica. Legato alla vita di corte e al suo sistema complesso di riti, dalla festa all’occasione galante ed encomiastica, il genere lirico consente al Tasso di esprimere una sensibilità musicale raffinata, educata a contatto con la musica più viva del suo tempo. La corte di Ferrara, dove il poeta visse nel suo periodo più felice, era uno dei centri di irradiazione della polifonia madrigalistica, il genere musicale che conosceva proprio allora la sua epoca d’oro.
Negli anni Ottanta-Novanta del Cinquecento la poesia del Tasso gode presso i musicisti di una straordinaria fortuna: soprattutto i suoi madrigali ricevono ripetutamente veste musicale, e tra compositori che traggono ispirazione dalla sua parola poetica vi è anche il giovane protagonista della moderna musica per la scena, Claudio Monteverdi.
Una lirica manieristica
Sul finire del secolo, nel crepuscolo del Rinascimento, la trasformazione del gusto, con la ricerca dell’anomalo, del problematico, del disarmonico, investe anche il codice lirico. Proprio le Rime del Tasso attestano sul piano più alto la svolta verso una raffinatezza che nasconde una crisi, in un ripensamento delle forme della tradizione in cui è possibile ravvisare i caratteri del cosiddetto Manierismo. Il preziosismo sensuale, la tensione metafisica, la fantasia visionaria che caratterizzano il peculiare petrarchismo del Tasso si collocano già alle soglie del concettismo proprio dell’età barocca.
Torquato Tasso, Su l’ampia fronte il crespo oro lucente
Composto tra il 1561 e il 1562 per la quindicenne Lucrezia Bendidio, la damigella estense di cui Tasso si era innamorato, il sonetto fu stampato per la prima volta nel 1565 in una Raccolta antologica di poeti contemporanei approntata da un letterato amico, Dionigi Atanagi. Nel 1567 il testo riappare tra le quarantadue poesie, sorta di canzoniere amoroso, che Torquato destina alle Rime degli Accademici Eterei. Si tratta di una prova giovanile, ma a questo sonetto il poeta resterà poi sempre singolarmente legato: ancora nel 1592, nel dialogo Il Minturno overo de la bellezza, uno degli interlocutori ne rievoca e ne discute le due terzine, quasi a far riaffiorare un ‘immagine remota di giovinezza.
Su l’ampia fronte il crespo oro lucente
sparso ondeggiava, e de’ begli occhi il raggio
al terreno adducea fiorito maggio
e luglio a i cori oltre misura ardente:
nel bianco seno Amor vezzosamente
scherzava, e non osò di fargli oltraggio,
e l’aura del parlar cortese e saggio
fra le rose spirar s’udia sovente.
Io, che forma celeste in terra scòrsi,
rinchiusi i lumi e dissi: Ahi, come è stolto
sguardo che ‘n lei sia d’affissarsi ardito!
Ma de l’altro periglio non m’accòrsi:
ché mi fu per le orecchie il cor ferito
e i detti andaro ove non giunse il volto.
Metro: sonetto con schema ABBA ABBA CDE CED.
1. il crespo oro lucente: i capelli biondi e ricciuti.
3-4. al... ardente: recava al suolo la dolce aura primaverile (maggio), fecondatrice dei fiori («fiorito»), e ai cuori l’intenso ardore dell’estate («luglio»).
8. rose: le rosee labbra.
10. lumi: occhi.
14. ove: cioè nel cuore.
Torquato Tasso, Riede la stagion lieta, e ‘n varie forme
Questo sonetto risale agli anni della prigionia. In una lettera da Sant Anna, Tasso fa pervenire al duca Alfonso il testo manoscritto del componimento accompagnandolo con una dichiarazione fervida di rinnovata vitalità: «oggi, dopo molti giorni che per infermità ho taciuto, ho fatto un sonetto quasi amoroso». Ma, sappiamo, si tratta di uno squarcio di luce effimera, proprio come il ritorno del Carnevale da cui il testo prende le mosse.
Riede la stagion lieta, e ‘n varie forme
sotto non veri aspetti i veri amanti
celan se stessi e sotto il riso i pianti,
seguendo di chi fugge i passi l’orme.
Io, come vuole Amor che mi trasforme,
mi vesto ad or ad or novi sembianti,
e mille larve a me d’intorno erranti
veggio con dubbio cor che mai non dorme.
Con queste avvien ch’io pianga e canti e scriva,
or di speranza pieno ed or d’orrore,
ed or prenda la spada or la faretra.
Ma tu dentro e di fuor, presente e viva
mi sei crudel: ma pur ti placa, Amore,
che forse grazia de’ miei falli impetra.
Metro: sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE.
1. Riede... lieta: ritorna il carnevale.
2-3. sotto... pianti: gli amanti si travestono, indossano le maschere e celano dietro al riso il pianto.
4. passi: oggetto di «seguendo».
7. larve: ombre, visioni; ma il termine designa anche le «maschere».
11. ed or.. faretra: ora «avvien» che io prenda la maschera dell’eroe (simboleggiata dalla «spada») ora quella dell’innamorato (la «faretra» di Amore).
14. impetra: supplica, implora.
Analisi
Oltre la tradizione petrarchesca
Il sonetto Su l’ampia fronte il crespo oro lucente appare subito come una variazione sul tema stilnovistico e petrarchesco dell’innamoramento. Esso infatti si rivela debitore della tradizione sia per quanto concerne temi e situazioni (i capelli biondi che ondeggiano al vento, gli occhi lucenti veicolo delle fiamme d’amore, la donna come presenza celeste, il timore - già cavalcantiano - della potenza della passione, il pericolo costituito dalla bellezza della donna contro cui è vano ogni schermo o riparo) sia per più puntuali echi lessicali: il primo verso richiama il memorabile «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi»; e ancora: «oltra misura ardente» è citazione quasi letterale di «oltra misura ardea», mentre l’espressione «forma celeste» (v. 9) appare una sorta di sintesi tra i petrarcheschi «angelica forma» e «spirto celeste», sempre del sonetto XC del Canzoniere.
Ma pur riaffermando il proprio legame con la tradizione, il giovane Tasso sembra irresistibilmente attratto a violarne o ad approfondirne i termini.
La rettifica più evidente si incontra nelle due terzine, che presentano in uno schema metrico dalla simmetria trasgredita (CDE CED). Era pensiero di Tasso teorico che la forma del sonetto dovesse addensare la punta semantica della composizione nel finale, già sulla via secentesca dell’epigramma. Ora nel nostro testo proprio «l’aura del parlar», la dolcezza ambigua della voce della donna si rivela a sorpresa il più efficace strumento di seduzione.
Questa sottolineatura della dimensione uditiva nella fenomenologia delle cause d’amore costituisce nella tradizione petrarchesca un fatto nuovo. E non si tratta semplicemente di un atto di omaggio alla voce stupenda della Bendidio, apprezzata cantante alla corte estense. II sonetto è testimonianza precoce dell’attrazione di Tasso per la magia della parola musicale in cui riconosce una manifestazione del «non so che», della sfumatura o dell’ambivalenza per sempre sfuggente alla presa del concetto.
Il Carnevale e le sue maschere come metafora dell’esistenza
Con il sonetto Riede la stagion lieta, e ‘n varie forme ci inoltriamo in una regione più fonda ed enigmatica, pur attraverso l’evocazione frizzante di un Carnevale ferrarese, nel tempo degli «spettacoli» e dei «giochi». «La vita è un gioco», osserva invero la controfigura di Tasso in uno dei Dialoghi. E nell’ottica di questa immagine dell’esistenza, il poeta del nostro sonetto sa leggere «sotto non veri aspetti i veri amanti», e «sotto il riso il pianto», quasi che proprio col Carnevale e il suo tripudio di maschere giungessero a rivelazione piena la fugacità e I’inafferabilità di tutte le figure del desiderio. Ma le maschere si convertono nelle «mille larve a me d’intorno erranti» nella solitudine squallida di Sant’Anna. E ora il poeta, si trasmuta interiormente in queste forme, che non sono poi se non il frutto del vaneggiamento provocato da Amore.
Scatta così il colloquio con le ombre, tra «speranza» e «orrore», ora vestito della «spada» eroica ora della «faretra», simbolo di Cupido, in un seguito di «novi sembianti» creati a forza di immaginazione e di desiderio. Tra le apparizioni si staglia alla fine (vv.12-14) la figura «presente e viva» della donna desiderata, che è insieme «crudele» e immagine di «grazia», sullo sfondo retrospettivo della coscienza solitaria che implora e si accusa («miei falli»).
Torquato Tasso, Ecco mormorar l’onde
Al madrigale, forma del genere lirico tradizionalmente considerata minore, Tasso dedica un’attenzione che non conosce flessioni nell’arco intero della sua carriera di scrittore, esplorandone con convinzione dimensioni e potenzialità. Di questa produzione assai fitta, in molti casi legata anche all’occasione cortigiana del parlare arguto e del biglietto galante, sono esempi significativi i brani seguenti.
Ecco mormorar l’onde
e tremolar le fronde
a l’aura mattutina e gli arboscelli,
e sovra i verdi rami i vaghi augelli
cantar soavemente
e rider l’oriente:
ecco già l’alba appare
e si specchia nel mare,
e rasserena il cielo
e le campagne imperla il dolce gelo,
e gli alti monti indora.
O bella e vaga Aurora,
l’aura è tua messaggera, e tu de l’aura
ch’ogni arso cor ristaura.
Metro: madrigale composto di 14 versi tra settenari ed endecasillabi che rimano secondo lo schema aaBBccddeEffGg.
3. a l’aura: parola petrarchesca, usata anche qui in modo allusivo: a Laura (Peperara).
10. dolce gelo: la rugiada.
12-14. O bella... ristaura: l’Aurora, annunciata dal l’aura del mattino, annuncia pure l’arrivo di Laura che ristora il cuore innamorato del poeta.
Torquato Tasso, Qual rugiada o qual pianto
Qual rugiada o qual pianto
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l’erba fresca in grembo?
Perché ne l’aria bruna
s’udìan, quasi dolendo, intorno intorno
gir l’aure insino al giorno?
Fûr segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
Metro: madrigale di 12 versi, endecasillabi e settenari, che rimano secondo lo schema abABCDdcEeFf.
3. notturno manto: il cielo.
6-7. di cristalline... grembo: un puro nembo di rugiada, dalle gocce simili a stelle di cristallo, in grembo all’erba fresca.
10. gir: andare.
11. Fûr segni ... partita: furono forse segnali della tua partenza.
Analisi
Un gioco virtuoso di iterazioni toniche
Il madrigale Ecco mormorar l’onde appartiene alla serie di rime composte per Laura Peperara. E in realtà l’apparizione congiunta dell’aurora e della donna amata si risolve in un esercizio virtuoso di sensibilità musicale, dominato dalla disseminazione anagrammatica del senhal Laura: da «aura» ad «aurora» e a «restaura», dal «tremolar» delle «fronde» o degli «arboscelli» alla luce dorata dell’«oriente».
A questo petrarchismo musicalizzato è altresì essenziale lo smaterializzarsi delle sensazioni in un seguito volubile di apparizioni in fuga: nella struttura paratattica attivata dal duplice «ecco» nessuna figura ha il tempo di prendere consistenza, in una sorta di camera dell’eco ove le rime interne («mormorar», «tremolar», «cantar») si incrociano alla cadenza attentamente variata delle rime baciate, la prima e l’ultima delle quali sono per di più inclusive («onde», «fronde», «aura», «ristaura»).
La separazione dalla donna amata
Quello della separazione dolorosa dalla donna amata, della sua partenza («partita») per un altrove imprecisato, è un topos della poesia madrigalistica rinascimentale. Ciò che è peculiare del madrigale Qual rugiada o qual pianto è che la notizia della separazione sia differita al distico finale, dopo che i suoi «segni» si sono diffusi in un notturno sospeso alla struggente tenerezza di una melodia verbale ripetutamente interrogativa. Ne nasce una partitura complessa tra leggiadria, intenerimento patetico e acutezza concettosa, che trova il suo tratto distintivo nella connotazione antropomorfica, dalle lacrime della luna e delle stelle, che presuppongono un «volto», alla sensazione acustica delle «aure» spiranti «quasi dolendo».
Più ancora che di paesaggio-stato d’animo converrà parlare di reversibilità speculare tra terra e cielo, che s’avvera nel modo più intenso nella metafora, arditissima, delle perle di rugiada come «cristalline stelle» cosparse «in grembo» all’érba, sempre di nuovo con una connotazione di femminilità. Ma ancora una volta, il suggerimento di un’analogia profonda tra il sentire umano e le figure del creato, qui nel segno patetico della nostalgia, dipende dall’incanto della musica verbale, dal suo fitto intreccio di corrispondenze, di allitterazioni, di echi.
Tratto da Guerriero-Palmieri-Lugarini, Prisma, volume 1 (La letteratura dalle origini alla fine del Quattrocento), pp. 399-403
Postato il 4 gennaio 2011
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