di Paolo Sensini
«Dell’uomo si può fare quel che si vuole! Io voglio che nel pensare e nel reagire le masse russe seguano uno schema comunista!». Con queste parole, pronunciate poco dopo il colpo di mano del 25 ottobre 1917, Vladimir Il’ic Ul’janov – in arte Lenin – si rivolgeva al fisiologo russo Ivan Pavlov per chiedergli se il suo lavoro di scienziato sui riflessi condizionati del cervello potesse aiutare il Partito a «controllare il comportamento umano». Ed è esattamente questa, al di là delle contingenze e dei diversivi tattici del momento, la posta in gioco che la hýbris leninista bramava fin dall’inizio: «raddrizzare il legno storto dell’umanità». Raddrizzarlo nel senso voluto da Lenin (ossia: «Costringeremo il genere umano a essere felice, costi quel che costi!»). Da questo punto di vista l’opera di Sergej Mel’gunov che viene presentata al pubblico italiano dopo quasi novant’anni dalla sua apparizione in lingua russa a Berlino – opera che va letta al tempo stesso come rigetto morale e messa in guardia intellettuale di un socialista deciso a far conoscere per la prima volta al mondo l’«abisso» in cui era sprofondata la Russia dopo la presa del potere dei bolscevichi – rappresenta un’occasione straordinaria per osservare in presa diretta, senza veli e senza distorsioni gli eventi per come si sono svolti, i primi decisivi atti di quell’immane tragedia che ha condizionato la storia europea e mondiale del XX secolo. In Italia questo libro, che è stato il primo a denunciare pubblicamente nel dicembre 1923 la realtà storica in cui si è affermato il potere bolscevico in Russia, non ha mai trovato nessun editore disposto a farne conoscere gli sconvolgenti contenuti. L’opera di Mel’gunov risulta un contributo imprescindibile per chiunque voglia capire a fondo la situazione che si è determinata in Russia negli anni successivi ai «dieci giorni che sconvolsero il mondo». Una delle cose più ardue da far rivivere oggi, di quella convulsa sequenza, risiede per esempio nella «furia rivoluzionaria» che i bolscevichi misero in campo per cancellare fin da subito qualsiasi traccia della cultura preesistente, fosse essa iconografica, ideografica o semplicemente letteraria, quasi a voler marcare col fuoco un «prima» e un «dopo» il loro avvento messianico nella stanza dei bottoni. Bisognava insomma «sparare sugli orologi del tempo alienato» per costituire il «nuovo calendario» della civiltà futura, cosa che appunto proponeva uno dei massimi esponenti del movimento Proletkul’t (acronimo di 'Cultura proletaria') per lumeggiare quale sarebbe stato l’apporto paracletico dei rivoluzionari finalmente giunti al potere: «In nome del nostro domani – si leggeva su un documento ufficiale del gruppo –, metteremo al rogo Raffaello, distruggeremo i musei, schiacceremo i fiori dell’Arte». Ovvio che, con una simile «rivoluzione totale» da portare a compimento, il Partito comunista e i suoi «ingegneri delle anime umane» ('inzenery celoveceskich duš') non si sarebbero più fermati fino a quando gli individui sottoposti al suo imperio non si fossero finalmente trasformati in «rotelle» ('vintiki') impersonali e sostituibili di un «ingranaggio tecnico».
Oppure in una sorta di «robot umani» incapaci di pensiero individuale e perfettamente obbedienti a quel «demone della distruzione e demiurgo della creazione» che fu Lenin. Ma come riuscire ad imporre a un sesto del mondo un simile programma in così breve tempo?
Semplice, con il «Terrore rosso di massa». Un Terrore programmato, brutale e inesorabile che era stato architettato da Lenin molto prima della «rivoluzione», il quale si estese fin da subito all’insieme della popolazione e all’esercito. Il sistema era poi ulteriormente «integrato», come mezzo per indurre chiunque a sottomettersi alla «dittatura del proletario», dalla più completa licenza di saccheggio, rappresaglia e sterminio dei «nemici di classe». Fu dunque sotto il regime di Lenin, e non sotto quello di Stalin, che la Ceka creò un autentico Stato di polizia, e fu sempre Lenin a compiere la mostruosità giuridica di fondere in una sola struttura gli organi che conducevano l’istruttoria, quelli che emettevano i verdetti, spesso alla pena di morte, e infine quelli che eseguivano le condanne. Essa era stata organizzata in modo tale da poter disporre di proprie infrastrutture leviataniche, dai comitati di controllo insediati in ogni fabbrica fino ai «campi di rieducazione mediante il lavoro», nel cui ambito operavano oltre duecentocinquantamila addetti, la cui ferocia e arbitrio senza limiti potevano evocare, mutatis mutandis, gli omologhi opricniki, i detestati scherani di Ivan il Terribile. Durante la guerra civile erano costoro a garantire la sopravvivenza del regime sul cosiddetto «fronte interno», quando ormai il Terrore era la conditio sine qua non del sistema. Un’attività, quella delle «Commissioni istruttorie straordinarie, che costituisce un esempio forse unico nella storia dei popoli civili».
In aggiunta agli illimitati poteri di cui godeva, la Ceka, «il cui lavoro si svolge in condizioni particolarmente difficili», venne dichiarata «infallibile» e fu proibita ogni critica nei suoi riguardi. Nei primi mesi successivi all’Ottobre, attuando le idee di Lenin e sotto la sua personale direzione, si delineò quindi compiutamente uno Stato di tipo nuovo, uno Stato totalitario caratterizzato non dal rigore della legge, ma essenzialmente dall’arbitrio più totale. A tale riguardo un alto funzionario della Ceka, Iosif Unšlicht, nelle sue affettuose memorie su Lenin scritte nel 1934, osservava con malcelato orgoglio: «[Lenin] trattava con implacabile brutalità i gretti membri del partito che deprecavano la spietatezza della Ceka; egli derideva e sbeffeggiava l’“umanità” del mondo capitalista». Se il partito era l’ossatura dell’apparato statale, la Commissione straordinaria ne era la muscolatura. Il partito forniva l’Idea: «tutto è lecito, lavoriamo per la Storia». La Ceka invece, «questa meravigliosa macchina per distruggere l’essere umano», forniva il braccio che attuava l’arbitrio assoluto. È stato assai difficile raffigurarsi quanto avvenuto di fronte a una vulgata storiografica compiacente, fraudolenta, omertosa e quasi sempre mistificante, che aveva come sua precipua missione d’impedire la conoscenza di quel gigantesco esperimento d’ingegneria sociale per ciò che veramente ha rappresentato. Forse, a oggi, il più terrificante e grandioso dell’intera storia dell’umanità.
Oppure in una sorta di «robot umani» incapaci di pensiero individuale e perfettamente obbedienti a quel «demone della distruzione e demiurgo della creazione» che fu Lenin. Ma come riuscire ad imporre a un sesto del mondo un simile programma in così breve tempo?
Semplice, con il «Terrore rosso di massa». Un Terrore programmato, brutale e inesorabile che era stato architettato da Lenin molto prima della «rivoluzione», il quale si estese fin da subito all’insieme della popolazione e all’esercito. Il sistema era poi ulteriormente «integrato», come mezzo per indurre chiunque a sottomettersi alla «dittatura del proletario», dalla più completa licenza di saccheggio, rappresaglia e sterminio dei «nemici di classe». Fu dunque sotto il regime di Lenin, e non sotto quello di Stalin, che la Ceka creò un autentico Stato di polizia, e fu sempre Lenin a compiere la mostruosità giuridica di fondere in una sola struttura gli organi che conducevano l’istruttoria, quelli che emettevano i verdetti, spesso alla pena di morte, e infine quelli che eseguivano le condanne. Essa era stata organizzata in modo tale da poter disporre di proprie infrastrutture leviataniche, dai comitati di controllo insediati in ogni fabbrica fino ai «campi di rieducazione mediante il lavoro», nel cui ambito operavano oltre duecentocinquantamila addetti, la cui ferocia e arbitrio senza limiti potevano evocare, mutatis mutandis, gli omologhi opricniki, i detestati scherani di Ivan il Terribile. Durante la guerra civile erano costoro a garantire la sopravvivenza del regime sul cosiddetto «fronte interno», quando ormai il Terrore era la conditio sine qua non del sistema. Un’attività, quella delle «Commissioni istruttorie straordinarie, che costituisce un esempio forse unico nella storia dei popoli civili».
In aggiunta agli illimitati poteri di cui godeva, la Ceka, «il cui lavoro si svolge in condizioni particolarmente difficili», venne dichiarata «infallibile» e fu proibita ogni critica nei suoi riguardi. Nei primi mesi successivi all’Ottobre, attuando le idee di Lenin e sotto la sua personale direzione, si delineò quindi compiutamente uno Stato di tipo nuovo, uno Stato totalitario caratterizzato non dal rigore della legge, ma essenzialmente dall’arbitrio più totale. A tale riguardo un alto funzionario della Ceka, Iosif Unšlicht, nelle sue affettuose memorie su Lenin scritte nel 1934, osservava con malcelato orgoglio: «[Lenin] trattava con implacabile brutalità i gretti membri del partito che deprecavano la spietatezza della Ceka; egli derideva e sbeffeggiava l’“umanità” del mondo capitalista». Se il partito era l’ossatura dell’apparato statale, la Commissione straordinaria ne era la muscolatura. Il partito forniva l’Idea: «tutto è lecito, lavoriamo per la Storia». La Ceka invece, «questa meravigliosa macchina per distruggere l’essere umano», forniva il braccio che attuava l’arbitrio assoluto. È stato assai difficile raffigurarsi quanto avvenuto di fronte a una vulgata storiografica compiacente, fraudolenta, omertosa e quasi sempre mistificante, che aveva come sua precipua missione d’impedire la conoscenza di quel gigantesco esperimento d’ingegneria sociale per ciò che veramente ha rappresentato. Forse, a oggi, il più terrificante e grandioso dell’intera storia dell’umanità.
Omicidi, torture e clima del sospetto non furono eccessi dovuti alla guerra civile, ma piani preordinati per creare il nuovo «homo sovieticus»
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«Dai bolscevichi l’apoteosi dell’omicidio come strumento di dominio»
di Sergej Mel’gunov
«Dai bolscevichi l’apoteosi dell’omicidio come strumento di dominio»
di Sergej Mel’gunov
Gli storici hanno dato e danno una spiegazione e perfino una giustificazione al Terrore dell’epoca della Rivoluzione francese; i politici trovano una spiegazione anche all’esecrabile realtà contemporanea. Non intendo, in questa sede, spiegare un fenomeno che, prima d’ogni spiegazione, può e deve anzitutto e urgentemente essere stigmatizzato da parte della morale della società, oggi come nel passato, bensì soltanto fornirne una veridica rappresentazione. Lascio ai sociologi e ai moralisti il compito di cercare spiegazioni all’attuale ferocia che dilania il consorzio umano, magari nel retaggio dei tempi andati e nel cruento delirio dell’ultima guerra europea, nella decadenza morale dell’umanità e nello stravolgimento dei fondamenti ideologici e riferimenti ideali della psiche e del pensiero umani. Compete agli psichiatri stabilirne il nesso con le manifestazioni patologiche del secolo; attribuiscano tutto ciò, se credono, all’influsso di una psicosi di massa. Quel che mi preme sopra ogni cosa è ristabilire il quadro reale del passato e del presente tanto travisato sia dal cesello della ricerca storica sia nella valutazione soggettiva, dettata da esigenze pratiche, del politico d’oggi. Non è possibile versare più sangue umano di quanto hanno fatto i bolscevichi; non è possibile immaginare forme più ciniche di quelle in cui s’è concretato il terrore bolscevico. È un sistema che ha trovato i suoi ideologi; è un sistema di metodica attuazione della violenza e dell’arbitrio, è l’apoteosi senza remore dell’omicidio inteso come strumento di dominio alla quale non era mai ancora arrivato nessun potere al mondo. Non si tratta di eccessi, per i quali si può cercare questa o quella spiegazione nella particolare psicosi indotta dalla guerra civile. L’atrocità morale del terrore, la sua azione disgregante sulla psiche umana, consistono più che nei singoli omicidi in sé, o nel loro numero più o meno consistente, proprio nel suo essere elevato a sistema. La debolezza del potere, gli eccessi, perfino la vendetta di classe da un lato e… l’apoteosi del terrore dall’altro sono fenomeni di ordine diverso. Non potremo sentirci a posto con la coscienza fino a quando non sarà eliminato questo cupo e anacronistico Medioevo del XX secolo che abbiamo avuto in sorte di testimoniare. Certamente, sarà la vita stessa a spazzarlo via, ma solo dopo che l’avremo definitivamente superato nelle nostre coscienze, quando la democrazia europea occidentale e in primo luogo i socialisti, accantonati i fantasmi della reazione, si affrancherà veramente dall’incantamento della «testa di Medusa» e le volterà le spalle con orrore; quando i rivoluzionari di ogni tendenza capiranno finalmente che il terrore governativo uccide la rivoluzione e propaga la reazione, che il bolscevismo non è la rivoluzione e che deve cadere con disonore e infamia «tra le maledizioni di tutto il proletariato in lotta per il proprio riscatto». Sono parole del noto capo della socialdemocrazia tedesca Kautsky, uno dei pochi ad aver assunto una posizione così netta e intransigente nei confronti dell’arbitrio e della violenza dei bolscevichi. E bisogna far sì che il mondo capisca e si renda conto dell’orrore di quei mari di sangue che hanno sommerso la coscienza dell’umanità ...
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IL LIBRO
Anticipiamo in queste colonne alcuni stralci dell’introduzione di Paolo Sensini a Il terrore rosso in Russia. 1918-1923 di Sergej Mel’gunov, in uscita per Jaca Book (pagine 336, euro 29,00), e un passo delle riflessioni dello stesso Mel’gunov. Lo storico russo, nato nel 1879, fu attivo in campo politico su posizioni socialiste durante l’ultima fase dell’Impero zarista e i convulsi anni delle rivoluzioni di Marzo e d’Ottobre.
Ripetutamente arrestato dai bolscevichi, condannato a morte ma salvato in extremis dall’intercessione di alcuni influenti amici, fu espulso dall’Urss nel 1922 e riparò a Praga, a Berlino e infine a Parigi. Il terrore rosso in Russia uscì in Germania nel 1923 e fu immediatamente tradotto in tedesco, inglese, francese e spagnolo – non in italiano, almeno fino a oggi. Mel’gunov morì nel 1956.
Nel nostro Paese questo libro, che è stato il primo a denunciare pubblicamente nel dicembre 1923 la realtà storica in cui si è affermato il potere bolscevico in Russia, non ha mai trovato nessun editore disposto a farne conoscere i contenuti
«Avvenire» del 10 ottobre 2010
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