È vero, l’egemonia culturale gramsci-azionista ha avuto i suoi effetti deleteri. Ma alla fine, tra le persone intellettualmente oneste, prevalgono le lezioni di Renzo De Felice, Rosario Romeo e François Furet
di Francesco Perfetti
Questa storia della esecrazione della destra e della cultura che fa riferimento alla destra o, più in generale, al centrodestra è ricorrente. E, confessiamolo, un po’ noiosa. Non è che non sia vera. Anzi, e soprattutto in Italia, nell’Italia del secondo dopoguerra. Ma ciò non toglie che si tratti di un tema che sarebbe bene guardare con sufficienza, non curandosene troppo. Anzi, ridendoci e scherzandoci. Perché, dopo tutto, il mondo dei moderati - cioè quell’insieme di liberali e conservatori che si ritrovano nel centro-destra - esiste e si fa sentire, con il voto, a prescindere dagli anatemi che gli vengono lanciati dalla sinistra. E con le manifestazioni di pensiero - in una parola con la cultura - che quel mondo riesce a esprimere e, anche, a far veicolare. Se è vero, a esempio, che il vasto mare dell’editoria è pattugliato dalle pesanti corazzate varate nei cantieri del progressismo - da Feltrinelli a Einaudi, da Laterza a Il Mulino - è anche vero che esso è pure solcato da agili flottiglie di ardimentosi pionieri che non amano sottostare a imposizioni. E che si sanno far valere. Per tutti, cito un piccolo e anticonformista editore di provincia, liberilibri, che è stato (ed è tuttora) capace di mettere insieme, con pazienza e coraggio, un catalogo che è un micidiale armamentario della cultura autenticamente liberale e liberista, ma anche conservatrice.
Certo - si potrebbe osservare - si tratta di una situazione elitaria perché in effetti, a livello più ampio, taluni temi e taluni autori in qualche modo riferibili all’universo della destra (intesa nell’accezione più ampia) culturale e politica vengono considerati tabù. L’egemonia culturale della sinistra nel secondo dopoguerra - un dato di fatto, per quanto riguarda l’Italia, difficilmente smentibile - implica questa sorta di conformismo liquidatorio, che trova modo di esprimersi nei «salotti letterari» radical chic tenuti in vita, animati e frequentati dai cosiddetti «intellettuali di sinistra». Chi siano questi ultimi è facile dire. Un liberale inossidabile come Sergio Ricossa ne tracciò, nel delizioso saggio Straborghese, un ritratto a tutto tondo, che metteva subito il lettore nelle condizioni per riconoscerli a prima vista. E, magari, per evitarli. Egli fece notare che gli «intellettuali di sinistra» si proclamano tali ai quattro venti, considerano ogni altro intellettuale un essere inferiore e gli negano addirittura la qualifica di intellettuale. Inoltre sono abituati a premiarsi a vicenda, ad autoincensarsi, persino a scontrarsi in qualche falso duello culturale purché questo serva al loro narcisismo. E, dulcis in fundo, esprimono il loro progressismo in un proclamato amore nei confronti del popolo, di un popolo inteso, però, come astrazione, da tutelare, irreggimentare, educare perché possa profondersi, poi, in elogi e manifestazioni di obbedienza nei loro confronti.
Questa «mala genia» dell’intellettualità di sinistra ha dominato la cultura italiana del secondo dopoguerra. E ancora si fa sentire. I motivi sono storici. Agli albori dell’Italia repubblicana - dopo il crollo del fascismo, dopo la sanguinosa guerra civile, dopo il lacerante referendum istituzionale - la classe politica e la cosiddetta «alta cultura» si trovarono davanti a un compito immane: ricostruire il tessuto morale e civile di un Paese sbandato e rimasto senza identità. La cultura liberale italiana del dopoguerra, espressa soprattutto da Croce, non ebbe quella fortuna diffusa che pure, per tensione morale e rigore speculativo, avrebbe meritato. Anzi, fece registrare un rapido deperimento quanto a capacità di incidenza sulle vicende nazionali. Questa crisi della cultura politica liberale fu denunciata da due grandi storici liberali: Rosario Romeo, che ne sottolineò il carattere di «crisi di scoraggiamento» e Nicola Matteucci, che osservò come il liberalismo, in Italia e in Europa, avesse perso fiducia in se stesso e, di fronte a un marxismo imbaldanzito dal mito dell’Unione Sovietica vittoriosa, si fosse messo alla ricerca di un suo possibile «inveramento» nel socialismo.
In questa situazione maturò l’incontro fra la cultura azionista, quella della linea che va da Piero Gobetti a Norberto Bobbio, e la cultura marxista nella versione di Antonio Gramsci tesa alla conquista della società civile prima della società politica. Nacque così il gramsci-azionista presto assurto a «pensiero unico» dell’universo culturale italiano. Un pensiero, nella sostanza e al di là delle apparenze, sottilmente «totalitario» perché fondato sulla categoria del «moralismo politico» (il bene da una parte e il male dall’altra) e intriso di pulsioni giacobine. Un pensiero, a dir poco, illiberale. E che è all’origine della demonizzazione della destra e del centro-destra, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista culturale. Per gli «intellettuali di sinistra» e i salottieri à la page prigionieri di questa visione ideologica, non si potevano nemmeno sfiorare certi argomenti. Se qualcuno, a esempio, si azzardava a toccare il tema del fascismo al di fuori dei canoni della vulgata storiografica veniva non solo condannato moralmente, ma anche idealmente espulso dalla comunità degli studiosi «seri». È quanto accadde, per esempio, a Renzo De Felice quando si accinse a scrivere la sua biografia di Mussolini e ad analizzare il fenomeno del consenso.
La pruderie e l’arroganza di questo gramsci-azionismo, divenuto sotto diverse declinazioni il sale e il pepe dell’egemonia culturale di sinistra, hanno ostacolato, e cercano ancora di ostacolare, le manifestazioni libere di pensiero. Ma - riconosciamolo - molte cose sono cambiate. Oggi, per esempio, dopo gli studi di Rosario Romeo, chi può dare più credito all’interpretazione gramsciana del Risorgimento? Chi, dopo gli studi di François Furet sulla rivoluzione francese e sull’illusione del comunismo, può più credere al valore palingenetico della rivoluzione? Chi, dopo gli studi di Renzo De Felice, può ancora sostenere l’immagine del fascismo come sola violenza e anticultura? E, ancora, chi, dopo la lezione metodologica di Karl Popper, può ancora onestamente credere a leggi di tipo deterministico? Coloro che ancora ci credono sono, ormai, relitti del passato, che tendono ad autoconsolarsi lanciando anatemi contro la destra e il centro-destra politici e culturali. E che, soprattutto, temono per le loro rendite di posizione. Ma non è il caso di dedicar loro troppa attenzione. La cultura, quella vera, non è certo di sinistra. Ed è questo il motivo per cui anche i discorsi e le lamentazioni sulla esecrazione della destra stanno venendo a noia.
Certo - si potrebbe osservare - si tratta di una situazione elitaria perché in effetti, a livello più ampio, taluni temi e taluni autori in qualche modo riferibili all’universo della destra (intesa nell’accezione più ampia) culturale e politica vengono considerati tabù. L’egemonia culturale della sinistra nel secondo dopoguerra - un dato di fatto, per quanto riguarda l’Italia, difficilmente smentibile - implica questa sorta di conformismo liquidatorio, che trova modo di esprimersi nei «salotti letterari» radical chic tenuti in vita, animati e frequentati dai cosiddetti «intellettuali di sinistra». Chi siano questi ultimi è facile dire. Un liberale inossidabile come Sergio Ricossa ne tracciò, nel delizioso saggio Straborghese, un ritratto a tutto tondo, che metteva subito il lettore nelle condizioni per riconoscerli a prima vista. E, magari, per evitarli. Egli fece notare che gli «intellettuali di sinistra» si proclamano tali ai quattro venti, considerano ogni altro intellettuale un essere inferiore e gli negano addirittura la qualifica di intellettuale. Inoltre sono abituati a premiarsi a vicenda, ad autoincensarsi, persino a scontrarsi in qualche falso duello culturale purché questo serva al loro narcisismo. E, dulcis in fundo, esprimono il loro progressismo in un proclamato amore nei confronti del popolo, di un popolo inteso, però, come astrazione, da tutelare, irreggimentare, educare perché possa profondersi, poi, in elogi e manifestazioni di obbedienza nei loro confronti.
Questa «mala genia» dell’intellettualità di sinistra ha dominato la cultura italiana del secondo dopoguerra. E ancora si fa sentire. I motivi sono storici. Agli albori dell’Italia repubblicana - dopo il crollo del fascismo, dopo la sanguinosa guerra civile, dopo il lacerante referendum istituzionale - la classe politica e la cosiddetta «alta cultura» si trovarono davanti a un compito immane: ricostruire il tessuto morale e civile di un Paese sbandato e rimasto senza identità. La cultura liberale italiana del dopoguerra, espressa soprattutto da Croce, non ebbe quella fortuna diffusa che pure, per tensione morale e rigore speculativo, avrebbe meritato. Anzi, fece registrare un rapido deperimento quanto a capacità di incidenza sulle vicende nazionali. Questa crisi della cultura politica liberale fu denunciata da due grandi storici liberali: Rosario Romeo, che ne sottolineò il carattere di «crisi di scoraggiamento» e Nicola Matteucci, che osservò come il liberalismo, in Italia e in Europa, avesse perso fiducia in se stesso e, di fronte a un marxismo imbaldanzito dal mito dell’Unione Sovietica vittoriosa, si fosse messo alla ricerca di un suo possibile «inveramento» nel socialismo.
In questa situazione maturò l’incontro fra la cultura azionista, quella della linea che va da Piero Gobetti a Norberto Bobbio, e la cultura marxista nella versione di Antonio Gramsci tesa alla conquista della società civile prima della società politica. Nacque così il gramsci-azionista presto assurto a «pensiero unico» dell’universo culturale italiano. Un pensiero, nella sostanza e al di là delle apparenze, sottilmente «totalitario» perché fondato sulla categoria del «moralismo politico» (il bene da una parte e il male dall’altra) e intriso di pulsioni giacobine. Un pensiero, a dir poco, illiberale. E che è all’origine della demonizzazione della destra e del centro-destra, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista culturale. Per gli «intellettuali di sinistra» e i salottieri à la page prigionieri di questa visione ideologica, non si potevano nemmeno sfiorare certi argomenti. Se qualcuno, a esempio, si azzardava a toccare il tema del fascismo al di fuori dei canoni della vulgata storiografica veniva non solo condannato moralmente, ma anche idealmente espulso dalla comunità degli studiosi «seri». È quanto accadde, per esempio, a Renzo De Felice quando si accinse a scrivere la sua biografia di Mussolini e ad analizzare il fenomeno del consenso.
La pruderie e l’arroganza di questo gramsci-azionismo, divenuto sotto diverse declinazioni il sale e il pepe dell’egemonia culturale di sinistra, hanno ostacolato, e cercano ancora di ostacolare, le manifestazioni libere di pensiero. Ma - riconosciamolo - molte cose sono cambiate. Oggi, per esempio, dopo gli studi di Rosario Romeo, chi può dare più credito all’interpretazione gramsciana del Risorgimento? Chi, dopo gli studi di François Furet sulla rivoluzione francese e sull’illusione del comunismo, può più credere al valore palingenetico della rivoluzione? Chi, dopo gli studi di Renzo De Felice, può ancora sostenere l’immagine del fascismo come sola violenza e anticultura? E, ancora, chi, dopo la lezione metodologica di Karl Popper, può ancora onestamente credere a leggi di tipo deterministico? Coloro che ancora ci credono sono, ormai, relitti del passato, che tendono ad autoconsolarsi lanciando anatemi contro la destra e il centro-destra politici e culturali. E che, soprattutto, temono per le loro rendite di posizione. Ma non è il caso di dedicar loro troppa attenzione. La cultura, quella vera, non è certo di sinistra. Ed è questo il motivo per cui anche i discorsi e le lamentazioni sulla esecrazione della destra stanno venendo a noia.
«Il Giornale» del 7 ottobre 2010
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