Agonia dei classici
di Federico Condello
I corsi di laurea in lettere classiche sono tra le vittime principali del decreto emanato il 22 settembre. A venire minacciati sono dunque i pilastri della formazione umanistica. Dibattere il problema come fosse di destra o di sinistra è sintomo di perversione ideologica. Marx non si è forse formato sui materialisti antichi? Nelson Rockefeller non faceva l'apologia dei latini? Non sono neolatini i primi versi di Rimbaud, o Sebastiane, il primo lungometraggio di Jarman?
Marx e Rockefeller, Luigi XVI e Robespierre, Gramsci e Giovanni Gentile, Shakespeare e Derek Jarman o Leopardi e Rimbaud, sono stati tutti allievi dello stesso genere di scuola? Ed è magari la stessa scuola già frequentata da Virgilio e da Agostino? Ben strana foto di classe. Ma con qualche gusto del paradosso, e con una punta di conservatorismo à la Curtius, si potrebbe facilmente sostenerlo, in nome di una tradizione educativa secolare fondata sugli studia humanitatis: Marx non si è forse formato sui materialisti antichi? Nelson Rockefeller non invitava alle letture latine in originale? Luigi XVI non elogiò lo studiosissimo Robespierre, alunno del Collegio Louis-Le Grand? Non sono neolatini i primi versi di Rimbaud, com'è neolatino Sebastiane, il primo lungometraggio di Jarman? E via citando, in un accumulo di exempla volti a dimostrare l'eterna esemplarità del modello educativo «classico». Niente è noioso, purtroppo, come il ricorrente dibattito sui danni e l'utilità di questo modello: forse nemmeno le terze declinazioni del greco e del latino. Ma il dibattito sarà inevitabile, perché è ancora tempo di riforme, per il sistema universitario nazionale: riforme che questa volta si annunciano radicali; e a repentaglio sono alcuni pilastri della formazione sin qui praticata, dei cui usi o esiti si può discutere, ma che certo non si può serenamente liquidare.
Dementi schieramenti
Scriveva anni fa Ivano Dionigi, oggi Rettore dell'Università di Bologna: «una perversione ideologica ben nota ha identificato i difensori dei classici nei conservatori e i detrattori negli innovatori: come se il latino e il greco fossero di destra, e il computer e l'inglese di sinistra». Alternative appunto risibili, poiché tutto dimostra quanto siano variabili gli effetti dello stesso paradigma pedagogico. Si pensi - diciamo per amor di patria - al nostro Risorgimento: lo studio dell'antico - annota Massimo D'Azeglio - «era ed è uno de' pochi studi possibili sotto il governo de' preti. Ci vorrebbe un bel talento a scoprirvi tendenze sovversive». Ma al giudizio replicavano implicitamente tanti rivoluzionari della sua e della passata generazione: Girolamo Bocalosi, autore del libello Dell'educazione democratica da darsi al popolo italiano nel 1797 si augurava che sulle vie delle città italiane si ponesse «una testa di Bruto nel muro in vece di una Madonna dipinta»; De Sanctis giudicava gli eroi della rivoluzione «figli degli eroi di Plutarco»; Giuseppe Cesare Abba ricordava i «Mille» come «giovani» nutriti di «letteratura classica»; e Giovanni Ruffini, nel 1853, così riassumeva il paradosso: «Cosa strana ma vera! La pubblica educazione in Piemonte era affatto repubblicana! La storia di Grecia e di Roma, l'unica cosa che ci fosse insegnata con molta cura nel collegio, era un vero panegirico del reggimento democratico». Sembra di sentire il Marcuse pre-sessantottino dell'Uomo a una dimensione: «i privilegi culturali esprimevano l'ingiustizia nella sfera della libertà ... ma fornivano pure un regno ben protetto in cui le verità proibite potevano sopravvivere, ben al riparo dalla società che le sopprimeva».
Fuori d'Italia, è quasi superfluo ricordare il classicismo comune a giacobini e anti-giacobini. In tempi più vicini a noi - ancora in Francia, ma in pieno '68 - non si può dimenticare l'operato politico di Edgar Faure, nemico del latino a scuola in quanto «freno alla democratizzazione»; gli replicarono, da destra e da sinistra, apologeti concordi nel fine ma non negli argomenti: gli studi classici andavano difesi e diffusi, sì, ma perché? Perché sono un baluardo contro la propaganda comunista; oppure un antidoto all'«americanizzazione» della cultura; oppure un rimedio preventivo alla creazione di scuole tecniche per proletari e scuole classiche per élites borghesi. Del resto, la riforma Gentile, cui dobbiamo l'indiscusso primato del liceo, e tra i licei del classico, era indirizzata - parole del riformatore - contro «la folla che guasta la scuola classica» e pretende di «dare la scalata alle università»; e il pedagogo fascista Nazzareno Padellaro poteva scrivere che «il latino è antimarxista. È difficile che un uomo vaccinato da un'ode di Orazio possa essere vittima di un'epidemia marxista». Sia pure: ma passati Ventennio e guerra, dalle file del Pci poterono levarsi voci pro e contro gli studi classici, da una parte giudicati patrimonio esclusivo della propaganda fascista, dall'altra difesi quale garanzia contro la forzata riduzione degli studenti proletari a manzoniani «vili meccanici». E se già Gramsci aveva elogiato lo studio del latino e del greco proprio in quanto «lingue morte», se il comunista Paolo Bufalini, il «cardinale rosso», poteva tradurre Orazio senza timore di «vaccini» anti-marxisti, e se il comunista-latinista Concetto Marchesi poteva scrivere che «la cultura umanistica giova a tutti», un liberalsocialista come Guido Calogero si scagliava, tra anni '50 e '60, contro gli «schiavi della Facoltà di Lettere e Filosofia» e contro il «panlatinismo» della scuola media: «In Inghilterra tutti i ragazzi delle scuole bevono ogni mattina, a spese dello Stato, mezzo litro di latte. In Italia, bevono latino».
Eppure la scuola media unica del '62 è figlia dell'articolo 34 della Costituzione, e perciò è gratuita e obbligatoria; ma è nata stracolma di latino e di umanesimo, come la scuola elitaria del Fascismo. Se per secoli gli studi classici si sono difesi in nome delle «origini» e delle «radici» - memorabile il giudizio del Ministro Moratti, anno 2001: il liceo classico è fondamentale perché «è importante la memoria del nostro passato e delle nostre tradizioni» - non è meno vero che dei classici si può elogiare la funzione culturalmente «antagonistica», come sosterrebbero, tra gli altri, Cacciari o Fumaroli; o vi si può vedere come fa Settis in Futuro del classico (Einaudi, 2004), un'«efficace chiave d'accesso alla molteplicità delle culture del mondo contemporaneo»: tesi che ribalta ogni cliché conservatore, perpetuando però i privilegi dell'educazione più tradizionale: in un panorama di culture mobili e meticce, il classico può davvero vantarsi - per parafrasare Orwell - «più diverso degli altri»?
Qual è la posta in gioco
Insomma, è bene ammettere che non si potrà mai decidere, una volta per tutte, se gli studi classici siano di destra o di sinistra. Oggi però, al di là di parti e partiti, un drastico mutamento del paradigma educativo pare imminente: ed è difficile non vedervi annunciata una cultura più fragile e sradicata, perché meno connessa a discipline che secoli di pratica non rendono vecchie, bensì sempre aggiornate e sempre vigili. Negli anni '20, Mussolini definiva il progetto Gentile «la più fascista delle riforme»: per dirla con Calogero, «un dittatore altruista, non sapendo il latino, pretendeva che tutti gli altri lo imparassero». Oggi il Presidente del Consiglio difende, con analogo entusiasmo, la riforma Gelmini, le cui sorti appaiono più che mai legate alle sorti del Governo e della Legislatura. Intanto i ricercatori e i docenti tutti si mobilitano, per sollecitare una presa di posizione unanime contro le politiche legislative e finanziarie di un Governo che riforma «a costo zero» e taglia ciecamente il Fondo di Finanziamento Ordinario degli Atenei, in un paese che già si segnala, tra gli stati dell'Ocse, per la scarsa percentuale del Pil investita in ricerca e in istruzione. È la cronaca di questi giorni, ed è nota a tutti. Può essere significativo, in questo quadro, un richiamo alle sorti degli studi umanistici, con tutte le ambiguità politiche che il tema - come si è visto - reca con sé? Lo è senz'altro quale test di una tendenza più generale, che prevede come fine ultimo - plateale e indiscutibile - l'estinzione del sistema universitario vigente: che è sistema pubblico e democratico, in precario equilibrio fra ideali «di massa» e ideali «d'eccellenza», fra laboratorio di ricerca e teaching university; un sistema senz'altro colmo di pecche e bisognoso di riforme, ma non barattabile, in nessun caso, con l'assenza di un'alternativa ugualmente pubblica e democratica. Qui è il punto, e qui è la posta in gioco.
Già negli scorsi mesi, un commentatore autorevole come Asor Rosa ha segnalato, dalle colonne della Repubblica e del manifesto, il rischio di una progressiva scomparsa dell'italianistica, a fronte di una riforma che impone fusioni di Dipartimenti e riordino o rifondazione delle Facoltà. Allarmismo forse eccessivo, perché la razionalizzazione delle strutture esistenti non implica di per sé l'abolizione di singole discipline o insegnamenti. Certo è che nel generale dibattito sul Ddl 1905 e sui tagli di Tremonti rischia di sfuggire una novità rivoluzionaria, che già impegna gli Uffici Didattici di tutta l'Università italiana: l'emanazione del Decreto 17/2010, che il ministro Gelmini ha annunciato, come en passant, nella stessa conferenza stampa del 30 settembre in cui - affiancata dal ministro Tremonti - ha promesso denaro alle Università e concorsi straordinari ai ricercatori. Nelle parole della Gelmini, «il piano di programmazione triennale 2010-2012 prevede la fine dei corsi di laurea inutili». E per convincere l'opinione pubblica che i «corsi di laurea inutili» non mancano, usa citare - sono esempi ormai proverbiali - i corsi in «Benessere del cane e del gatto» o in «Scienze del fiore e del verde». Giova dunque ricordare che tra i caduti - nella misura di un probabile 20%: ma è stima al ribasso - non mancheranno, tra gatti e fiori, curricula canonici come le «Lettere classiche», per tacere di altri indirizzi ritenuti «di nicchia», e cioè rilevanti per identità culturale più che per popolosità numerica, sia in ambito umanistico che in ambito scientifico: corsi di destra o di sinistra? Tagli di destra o di sinistra?
La conoscenza del conosciuto
La questione, come si è visto, è storicamente irresolubile: restano però i tagli, concreti e imminenti. Osservava nel 2002 Giuseppe Pontiggia che «i classici ora sono minacciati da un nemico che non li affronta. Li ignora», e che il rischio non è più «il capovolgimento della gerarchia, ma il suo annullamento a opera dell'omologazione del mercato». Difficile dissentire, perché i tagli in atto rischiano di compromettere, insieme ai privilegi di un'educazione per pochi, l'ideale arduo di una cultura diffusa ma fondata proprio su quei «classici» che furono a lungo «di classe» (secondo l'etimologia chiarita da Aulo Gellio: scriptor classicus, ovvero di 'prima classe', contrapposto a proletarius); rischiano di compromettere, insieme alla più pigra e destrorsa difesa della tradizione, ogni premessa utile alla critica della tradizione. Ricordiamo la definizione di «filologia» fornita da Boeck, grande antichista e sicuro conservatore: «conoscenza del conosciuto». «Conoscere il conosciuto» - al di là di ogni giudizio sul suo uso o abuso - dovrebbe essere competenza preliminare e condivisa: sia che ciò implichi accettarne i dogmi, sia che ciò implichi criticarne, ma a ragion veduta, presupposti e conseguenze. In caso contrario sarà difficile che l'educazione umanistica tradizionale - come auspicava Sanguineti, che conservatore precisamente non era - possa ancora agire «non come testimone del dominio ma come stimolo alla rivolta».
Marx e Rockefeller, Luigi XVI e Robespierre, Gramsci e Giovanni Gentile, Shakespeare e Derek Jarman o Leopardi e Rimbaud, sono stati tutti allievi dello stesso genere di scuola? Ed è magari la stessa scuola già frequentata da Virgilio e da Agostino? Ben strana foto di classe. Ma con qualche gusto del paradosso, e con una punta di conservatorismo à la Curtius, si potrebbe facilmente sostenerlo, in nome di una tradizione educativa secolare fondata sugli studia humanitatis: Marx non si è forse formato sui materialisti antichi? Nelson Rockefeller non invitava alle letture latine in originale? Luigi XVI non elogiò lo studiosissimo Robespierre, alunno del Collegio Louis-Le Grand? Non sono neolatini i primi versi di Rimbaud, com'è neolatino Sebastiane, il primo lungometraggio di Jarman? E via citando, in un accumulo di exempla volti a dimostrare l'eterna esemplarità del modello educativo «classico». Niente è noioso, purtroppo, come il ricorrente dibattito sui danni e l'utilità di questo modello: forse nemmeno le terze declinazioni del greco e del latino. Ma il dibattito sarà inevitabile, perché è ancora tempo di riforme, per il sistema universitario nazionale: riforme che questa volta si annunciano radicali; e a repentaglio sono alcuni pilastri della formazione sin qui praticata, dei cui usi o esiti si può discutere, ma che certo non si può serenamente liquidare.
Dementi schieramenti
Scriveva anni fa Ivano Dionigi, oggi Rettore dell'Università di Bologna: «una perversione ideologica ben nota ha identificato i difensori dei classici nei conservatori e i detrattori negli innovatori: come se il latino e il greco fossero di destra, e il computer e l'inglese di sinistra». Alternative appunto risibili, poiché tutto dimostra quanto siano variabili gli effetti dello stesso paradigma pedagogico. Si pensi - diciamo per amor di patria - al nostro Risorgimento: lo studio dell'antico - annota Massimo D'Azeglio - «era ed è uno de' pochi studi possibili sotto il governo de' preti. Ci vorrebbe un bel talento a scoprirvi tendenze sovversive». Ma al giudizio replicavano implicitamente tanti rivoluzionari della sua e della passata generazione: Girolamo Bocalosi, autore del libello Dell'educazione democratica da darsi al popolo italiano nel 1797 si augurava che sulle vie delle città italiane si ponesse «una testa di Bruto nel muro in vece di una Madonna dipinta»; De Sanctis giudicava gli eroi della rivoluzione «figli degli eroi di Plutarco»; Giuseppe Cesare Abba ricordava i «Mille» come «giovani» nutriti di «letteratura classica»; e Giovanni Ruffini, nel 1853, così riassumeva il paradosso: «Cosa strana ma vera! La pubblica educazione in Piemonte era affatto repubblicana! La storia di Grecia e di Roma, l'unica cosa che ci fosse insegnata con molta cura nel collegio, era un vero panegirico del reggimento democratico». Sembra di sentire il Marcuse pre-sessantottino dell'Uomo a una dimensione: «i privilegi culturali esprimevano l'ingiustizia nella sfera della libertà ... ma fornivano pure un regno ben protetto in cui le verità proibite potevano sopravvivere, ben al riparo dalla società che le sopprimeva».
Fuori d'Italia, è quasi superfluo ricordare il classicismo comune a giacobini e anti-giacobini. In tempi più vicini a noi - ancora in Francia, ma in pieno '68 - non si può dimenticare l'operato politico di Edgar Faure, nemico del latino a scuola in quanto «freno alla democratizzazione»; gli replicarono, da destra e da sinistra, apologeti concordi nel fine ma non negli argomenti: gli studi classici andavano difesi e diffusi, sì, ma perché? Perché sono un baluardo contro la propaganda comunista; oppure un antidoto all'«americanizzazione» della cultura; oppure un rimedio preventivo alla creazione di scuole tecniche per proletari e scuole classiche per élites borghesi. Del resto, la riforma Gentile, cui dobbiamo l'indiscusso primato del liceo, e tra i licei del classico, era indirizzata - parole del riformatore - contro «la folla che guasta la scuola classica» e pretende di «dare la scalata alle università»; e il pedagogo fascista Nazzareno Padellaro poteva scrivere che «il latino è antimarxista. È difficile che un uomo vaccinato da un'ode di Orazio possa essere vittima di un'epidemia marxista». Sia pure: ma passati Ventennio e guerra, dalle file del Pci poterono levarsi voci pro e contro gli studi classici, da una parte giudicati patrimonio esclusivo della propaganda fascista, dall'altra difesi quale garanzia contro la forzata riduzione degli studenti proletari a manzoniani «vili meccanici». E se già Gramsci aveva elogiato lo studio del latino e del greco proprio in quanto «lingue morte», se il comunista Paolo Bufalini, il «cardinale rosso», poteva tradurre Orazio senza timore di «vaccini» anti-marxisti, e se il comunista-latinista Concetto Marchesi poteva scrivere che «la cultura umanistica giova a tutti», un liberalsocialista come Guido Calogero si scagliava, tra anni '50 e '60, contro gli «schiavi della Facoltà di Lettere e Filosofia» e contro il «panlatinismo» della scuola media: «In Inghilterra tutti i ragazzi delle scuole bevono ogni mattina, a spese dello Stato, mezzo litro di latte. In Italia, bevono latino».
Eppure la scuola media unica del '62 è figlia dell'articolo 34 della Costituzione, e perciò è gratuita e obbligatoria; ma è nata stracolma di latino e di umanesimo, come la scuola elitaria del Fascismo. Se per secoli gli studi classici si sono difesi in nome delle «origini» e delle «radici» - memorabile il giudizio del Ministro Moratti, anno 2001: il liceo classico è fondamentale perché «è importante la memoria del nostro passato e delle nostre tradizioni» - non è meno vero che dei classici si può elogiare la funzione culturalmente «antagonistica», come sosterrebbero, tra gli altri, Cacciari o Fumaroli; o vi si può vedere come fa Settis in Futuro del classico (Einaudi, 2004), un'«efficace chiave d'accesso alla molteplicità delle culture del mondo contemporaneo»: tesi che ribalta ogni cliché conservatore, perpetuando però i privilegi dell'educazione più tradizionale: in un panorama di culture mobili e meticce, il classico può davvero vantarsi - per parafrasare Orwell - «più diverso degli altri»?
Qual è la posta in gioco
Insomma, è bene ammettere che non si potrà mai decidere, una volta per tutte, se gli studi classici siano di destra o di sinistra. Oggi però, al di là di parti e partiti, un drastico mutamento del paradigma educativo pare imminente: ed è difficile non vedervi annunciata una cultura più fragile e sradicata, perché meno connessa a discipline che secoli di pratica non rendono vecchie, bensì sempre aggiornate e sempre vigili. Negli anni '20, Mussolini definiva il progetto Gentile «la più fascista delle riforme»: per dirla con Calogero, «un dittatore altruista, non sapendo il latino, pretendeva che tutti gli altri lo imparassero». Oggi il Presidente del Consiglio difende, con analogo entusiasmo, la riforma Gelmini, le cui sorti appaiono più che mai legate alle sorti del Governo e della Legislatura. Intanto i ricercatori e i docenti tutti si mobilitano, per sollecitare una presa di posizione unanime contro le politiche legislative e finanziarie di un Governo che riforma «a costo zero» e taglia ciecamente il Fondo di Finanziamento Ordinario degli Atenei, in un paese che già si segnala, tra gli stati dell'Ocse, per la scarsa percentuale del Pil investita in ricerca e in istruzione. È la cronaca di questi giorni, ed è nota a tutti. Può essere significativo, in questo quadro, un richiamo alle sorti degli studi umanistici, con tutte le ambiguità politiche che il tema - come si è visto - reca con sé? Lo è senz'altro quale test di una tendenza più generale, che prevede come fine ultimo - plateale e indiscutibile - l'estinzione del sistema universitario vigente: che è sistema pubblico e democratico, in precario equilibrio fra ideali «di massa» e ideali «d'eccellenza», fra laboratorio di ricerca e teaching university; un sistema senz'altro colmo di pecche e bisognoso di riforme, ma non barattabile, in nessun caso, con l'assenza di un'alternativa ugualmente pubblica e democratica. Qui è il punto, e qui è la posta in gioco.
Già negli scorsi mesi, un commentatore autorevole come Asor Rosa ha segnalato, dalle colonne della Repubblica e del manifesto, il rischio di una progressiva scomparsa dell'italianistica, a fronte di una riforma che impone fusioni di Dipartimenti e riordino o rifondazione delle Facoltà. Allarmismo forse eccessivo, perché la razionalizzazione delle strutture esistenti non implica di per sé l'abolizione di singole discipline o insegnamenti. Certo è che nel generale dibattito sul Ddl 1905 e sui tagli di Tremonti rischia di sfuggire una novità rivoluzionaria, che già impegna gli Uffici Didattici di tutta l'Università italiana: l'emanazione del Decreto 17/2010, che il ministro Gelmini ha annunciato, come en passant, nella stessa conferenza stampa del 30 settembre in cui - affiancata dal ministro Tremonti - ha promesso denaro alle Università e concorsi straordinari ai ricercatori. Nelle parole della Gelmini, «il piano di programmazione triennale 2010-2012 prevede la fine dei corsi di laurea inutili». E per convincere l'opinione pubblica che i «corsi di laurea inutili» non mancano, usa citare - sono esempi ormai proverbiali - i corsi in «Benessere del cane e del gatto» o in «Scienze del fiore e del verde». Giova dunque ricordare che tra i caduti - nella misura di un probabile 20%: ma è stima al ribasso - non mancheranno, tra gatti e fiori, curricula canonici come le «Lettere classiche», per tacere di altri indirizzi ritenuti «di nicchia», e cioè rilevanti per identità culturale più che per popolosità numerica, sia in ambito umanistico che in ambito scientifico: corsi di destra o di sinistra? Tagli di destra o di sinistra?
La conoscenza del conosciuto
La questione, come si è visto, è storicamente irresolubile: restano però i tagli, concreti e imminenti. Osservava nel 2002 Giuseppe Pontiggia che «i classici ora sono minacciati da un nemico che non li affronta. Li ignora», e che il rischio non è più «il capovolgimento della gerarchia, ma il suo annullamento a opera dell'omologazione del mercato». Difficile dissentire, perché i tagli in atto rischiano di compromettere, insieme ai privilegi di un'educazione per pochi, l'ideale arduo di una cultura diffusa ma fondata proprio su quei «classici» che furono a lungo «di classe» (secondo l'etimologia chiarita da Aulo Gellio: scriptor classicus, ovvero di 'prima classe', contrapposto a proletarius); rischiano di compromettere, insieme alla più pigra e destrorsa difesa della tradizione, ogni premessa utile alla critica della tradizione. Ricordiamo la definizione di «filologia» fornita da Boeck, grande antichista e sicuro conservatore: «conoscenza del conosciuto». «Conoscere il conosciuto» - al di là di ogni giudizio sul suo uso o abuso - dovrebbe essere competenza preliminare e condivisa: sia che ciò implichi accettarne i dogmi, sia che ciò implichi criticarne, ma a ragion veduta, presupposti e conseguenze. In caso contrario sarà difficile che l'educazione umanistica tradizionale - come auspicava Sanguineti, che conservatore precisamente non era - possa ancora agire «non come testimone del dominio ma come stimolo alla rivolta».
«Il manifesto» del 12 ottobre 2010
Nessun commento:
Posta un commento