“The social network” non è un film sul giocattolo di Zuckerberg, ma sul peccato originale
di Mattia Ferraresi
"The Social Network" non è un film su Facebook ma sul peccato originale. C’è l’albero della conoscenza dei fatti altrui, la donna tentatrice, l’uomo impaurito che si fida e mangia, il serpente che s’insinua fra i rami con il faccione improbabile di Justin Timberlake; naturalmente c’è la mela. Di Facebook non c’è traccia. Ovvio: tutto ruota attorno al social network inventato (o forse soltanto precipitato, messo in pratica, portato a livello del business globale) da quel nerd di Mark Zuckerberg in un dormitorio di Harvard proprio mentre qualche piano più in basso il club dei pettinati celebrava la sua superiorità sui mediocri con un pulmann di ragazze disinibite, alcol e tutto il resto. Ma il socialnetworkismo è la fanfara dietro cui si nasconde la storia immutabile delle vicende umane, con le sue brutture, i fallimenti, i risentimenti, le amicizie tradite, i legni storti impossibili da raddrizzare, le invidie, i versamenti di bile, la dissipazione, l’ira e l’opportunismo del compromesso. Chi si aspettava un film su Facebook lascia la sala con la strana sensazione di aver visto un film a proposito di Facebook. Quasi come se la “f” bianca in campo blu – quel particolare punto di blu che sarà codificato come il “blu facebook” accanto al blu di Prussia e quello di Voronez, residui dell’epoca ancestrale dei pastelli – fosse soltanto un pretesto. Non c’è il viaggio nella coscienza del nerd, tantomeno un tentativo di interpretazione sociologica del fenomeno: i piani vita reale–vita su facebook non si incontrano mai e così facendo il regista, David Fincher, evita il peggiore dei rischi, cioè raccontare una storia contemporanea attraverso categorie che erano già vecchie alla fine degli anni Novanta. Roba da chat e nickname, insomma.
L’embrione di Facebook si chiama Facemash, ed è una lista delle foto delle ragazze di Harvard inviata a tutti gli studenti. Compare sullo schermo una coppia di foto per volta e gli utenti devono votare chi sia la più carina fra le due; le studentesse vanno su tutte le furie, ma continuano a cliccare sul giocattolo di Zuckerberg; gli studenti continuano a cliccare e basta, finché i sofisticati server di Harvard collassano per i 22 mila contatti fatti alle quattro di una notte qualsiasi dell’autunno 2003. Mark ha creato il suo piccolo Frankenstein digitale mentre vomitava risentimento sul suo blog a proposito di una ragazza con la quale poco prima sosteneva la surreale conversazione con cui si apre il film. Lei inevitabilmente inizia a pensare quello che tutte le ragazze pensano di quello sfigato in ciabatte che fa la classifica delle ragazze dell’università, trasposizione wireless della gita delle medie. Durante una lezione, Zuckerberg riceve un messaggio scritto su un foglietto che dalle prime file dell’aula arriva fino a lui. Il contenuto sintetizza l’opinione che il mondo ha di lui: “U dick”.
La trovata un po’ rozza di Facemash arriva sugli schermi dei gemelli Winklevoss, caricature dei canottieri di Harvard figli di avvocati, impegnati nell’organizzare la vita del Porcellian e degli altri club esclusivi dell’università. “Esclusivo” è la parola che usano con Mark per convincerlo a sviluppare la Harvard Connection, un sito in cui tutti gli studenti dell’università possano entrare in contatto fra loro, mettendo online foto, profilo, interessi, informazioni personali di vario genere.
L’esclusività è il tratto che distingue Harvard Connection dalla cloaca indistinta di MySpace e Friendster, e intuendo la scintilla geniale dei biondi palestrati Mark si mette a testa bassa sul progetto, già sapendo che il suo lavoro non avrebbe certamente servito gli scopi dei bulletti altolocati. Qui inizia Facebook, anzi, per il momento The Facebook e finisce – nella trama del film di Fincher – lo spazio effettivamente dedicato alla riflessione sul prodotto di Zuckerberg. Seguono entusiasmanti carrellate su pannelli in cui il giovane smanettone fa precipitare i suoi brainstorming solitari, che mano a mano diventano l’ossatura del social network. Fuori la vita va avanti: i club esclusivi continuano a emarginarlo, la ragazza che l’ha scaricato continua a odiarlo, il migliore amico continua ad aiutarlo ma senza disdegnare i ritrovi paramassonici dei Phoenix in cui lui – nerd sì, ma con giudizio – viene invitato, generando l’ovvia carica di invidia.
Da quel momento Facebook esce di scena e la serendipità della scoperta di Zuckerberg potrebbe essere assimilata alla scoperta della penicillina o dei canguri: il contenuto sfuma e a tenere banco è soltanto la catena delle conseguenze contingenti. Le denuncie per il furto dell’idea, l’amico tradito, il paese dei balocchi, il gatto e la volpe.
Fincher ha fatto un film su Mark Zuckerberg e, benché la sequenza rispecchi fin nei dettagli la sequenza storica degli avvenimenti, l’iperrealismo non è la cifra della narrazione. Quasi tutti i personaggi sono eccessivi, a volte addirittura caricaturali: i gemelli Winklevoss, con le loro ossessioni da gentiluomini di Harvard, le loro giacche inamidate (quando il presidente di Harvard, che poi è Larry Summers, li vede entrare nel suo studio dice al suo interlocutore al telefono che “non so chi siano, ma dall’aspetto penso vogliano vendermi coppie identiche di giacche di Brooks Brothers”), le loro connessioni paranobiliari, le loro dosi di bella vita esibite senza ritegno, sono l’immagine grottesca del mondo che vince e riesce in tutto, nell’immancabile contrasto con il sotterraneo mondo geek che non si limita a perdere ma fa in modo che i vincitori vincano ancora di più e i perdenti sprofondino nella dimenticanza assoluta. Lo Zuckerberg del film è un principe del disagio sociale e della saccenza. Regge brillantemente due cause da milioni di dollari che metterebbero pressione al lobbista più smagato, è un freddo calcolatore con lingua tagliente e ambizioni sociali senza limiti. All’inizio The Facebook è esclusivamente lo strumento del riscatto dalla condizione di minorità nell’universo harvardiano (“dovreste essermi grato”, dice alla commissione dell’università che lo punisce per aver impallato il sistema), non ci sono soldi di mezzo, soltanto la foga dell’idea geniale. Il computer è il suo deserto, The Facebook i suoi Tartari. La monetizzazione arriverà più tardi, quando Zuckerberg è quasi (ma non completamente) affrancato dai tratti del nerd autistico che gira per il campus innevato con braghe corte, ciabatte che erano fuori moda anche nel 2003 e calzini di spugna scacciafemmine. La scena in cui lancia goffamente bottiglie di birra che si schiantano sul muro è il suo personale salto dello squalo.
La vittoria più intima dello Zuckerberg personaggio non è inventare qualcosa di utile (Facebook è il regno del superfluo), né permettere al mondo di accedere liberamente a informazioni tradizionalmente riservate alle élite, così come propugnato dai pionieri dell’ideologia open source. La vittoria di Zuckerberg non è nella creazione di qualcosa, ma nella creazione di qualcosa di “cool”. La sua creatura è la cosa più pop che il mondo abbia concepito e l’esclusività da cui tutto aveva preso inizio lascia il posto al dominio della massa.
Secondo lo schema ovvio delle cose il nerd incompreso è simpatico e la sua rivincita ristabilisce una giustizia sociale che fa alzare il pubblico dalle poltroncine molto più sollevato di quando era entrato. Invece niente. Si finisce per odiare quel saccente disadattato che non si cura di mandare al macero il migliore amico, fregandolo nel modo più subdolo per poi farsi scudo con i consigli di Sean Parker, il fondatore di Napster, che con il suo fascino diabolicamente manageriale circuisce Zuckerberg, che mano a mano che il film va avanti passa da vittima del mondo a suo possibile salvatore, infine a carnefice. Non c’è nessuna simpatia per Zuckerberg, nessuna salvezza possibile per i peccati che commette. Jeffe Dervis, l’autore del libro “What would Google do” ha le sue buone ragioni per dire che il film è antisociale: “Guarda di cattivo occhio il fenomeno e non fa nulla per cercare di capirlo”. Quello che rimane è lo sbranamento hobbesiano per l’affermazione del potere sull’altro. Ancora meglio se su 500 milioni di altri. La leva della dannazione di Zuckerberg è il suo collega, il pioniere di Napster, interpretato da un Justin Timberlake a tratti nel ruolo di se stesso. Sean Parker viene introdotto sulla scena nel letto di una studentessa con le mutande rosse targate Stanford, la mattina dopo una festa e tutto ciò che ne deriva. Lei chiede che mestiere faccia lui e Justin risponde semplicemente “l’imprenditore”. Alla richiesta di specifiche , dice che ha fondato Napster e ovviamente la ragazza non è disinformata al punto da credergli: “Sean Parker ha fondato Napster”. E lui, con l’espressione tipica del Timberlake di inizio carriera: “Nice to meet you”.
L’ex leader degli ’Nsync riesce a meraviglia nel ruolo del leader autoconvinto, di quelli che tengono banco a tutte le ore, che ostentano la vita che non sono riusciti fino in fondo a possedere perché, in fondo, il loro tentativo è fallito. Diventa presto il sussurratore di Zuckerberg, quello che lo convince a togliere l’articolo “the” dal nome del sito, a tradire l’amico, a lasciare Boston per la California (“the place we ought to be”), a mollare le fantasie per entrare nel business che conta. Per quanto Justin Timberlake sul grande schermo sia costretto a rimanere Justin Timberlake, il ruolo è cucito apposta per lui. In conformità agli eventi realmente accaduti, anche la storia fra i due finirà male, e ancora una volta sono le irrefrenabili passioni umane a rompere il sodalizio. Il film su Facebook, oltre Facebook, dunque, con una sceneggiatura da applausi a scena aperta per l’autore Aaron Sorkin, che in certi momenti replica le altezze di Codice d’Onore: “Faccio colazione a trecento metri di distanza da quattromila cubani addestrati per uccidermi, quindi non pensare nemmeno per un secondo che il tuo distintivo mi renda nervoso”. Le parole che fa dire a Larry Summers rendono in modo impeccabile la durezza densa di ironia dell’ex presidente di Harvard. Discutendo sui potenziali entroiti di Facebook, uno dei fratelli Winklevoss obietta: “Con tutto il rispetto credo che lei non sia nella posizione per giudicare”. “Sono stato segretario del Tesoro, e sono in qualche posizione per giudicare”. Al ritmo serratissimo dei dialoghi fanno da contraltare le nenie psichedeliche scritte da Trent Reznor, mitico leader dei Nine Inch Nails, perfette per rendere l’atmosfera truce e amareggiata di The Social Network, spettacolare ritratto della condizione umana che rimarrà intatto anche quando i ventenni del futuro anteriore si chiederanno cosa diavolo fosse, questo Facebook.
L’embrione di Facebook si chiama Facemash, ed è una lista delle foto delle ragazze di Harvard inviata a tutti gli studenti. Compare sullo schermo una coppia di foto per volta e gli utenti devono votare chi sia la più carina fra le due; le studentesse vanno su tutte le furie, ma continuano a cliccare sul giocattolo di Zuckerberg; gli studenti continuano a cliccare e basta, finché i sofisticati server di Harvard collassano per i 22 mila contatti fatti alle quattro di una notte qualsiasi dell’autunno 2003. Mark ha creato il suo piccolo Frankenstein digitale mentre vomitava risentimento sul suo blog a proposito di una ragazza con la quale poco prima sosteneva la surreale conversazione con cui si apre il film. Lei inevitabilmente inizia a pensare quello che tutte le ragazze pensano di quello sfigato in ciabatte che fa la classifica delle ragazze dell’università, trasposizione wireless della gita delle medie. Durante una lezione, Zuckerberg riceve un messaggio scritto su un foglietto che dalle prime file dell’aula arriva fino a lui. Il contenuto sintetizza l’opinione che il mondo ha di lui: “U dick”.
La trovata un po’ rozza di Facemash arriva sugli schermi dei gemelli Winklevoss, caricature dei canottieri di Harvard figli di avvocati, impegnati nell’organizzare la vita del Porcellian e degli altri club esclusivi dell’università. “Esclusivo” è la parola che usano con Mark per convincerlo a sviluppare la Harvard Connection, un sito in cui tutti gli studenti dell’università possano entrare in contatto fra loro, mettendo online foto, profilo, interessi, informazioni personali di vario genere.
L’esclusività è il tratto che distingue Harvard Connection dalla cloaca indistinta di MySpace e Friendster, e intuendo la scintilla geniale dei biondi palestrati Mark si mette a testa bassa sul progetto, già sapendo che il suo lavoro non avrebbe certamente servito gli scopi dei bulletti altolocati. Qui inizia Facebook, anzi, per il momento The Facebook e finisce – nella trama del film di Fincher – lo spazio effettivamente dedicato alla riflessione sul prodotto di Zuckerberg. Seguono entusiasmanti carrellate su pannelli in cui il giovane smanettone fa precipitare i suoi brainstorming solitari, che mano a mano diventano l’ossatura del social network. Fuori la vita va avanti: i club esclusivi continuano a emarginarlo, la ragazza che l’ha scaricato continua a odiarlo, il migliore amico continua ad aiutarlo ma senza disdegnare i ritrovi paramassonici dei Phoenix in cui lui – nerd sì, ma con giudizio – viene invitato, generando l’ovvia carica di invidia.
Da quel momento Facebook esce di scena e la serendipità della scoperta di Zuckerberg potrebbe essere assimilata alla scoperta della penicillina o dei canguri: il contenuto sfuma e a tenere banco è soltanto la catena delle conseguenze contingenti. Le denuncie per il furto dell’idea, l’amico tradito, il paese dei balocchi, il gatto e la volpe.
Fincher ha fatto un film su Mark Zuckerberg e, benché la sequenza rispecchi fin nei dettagli la sequenza storica degli avvenimenti, l’iperrealismo non è la cifra della narrazione. Quasi tutti i personaggi sono eccessivi, a volte addirittura caricaturali: i gemelli Winklevoss, con le loro ossessioni da gentiluomini di Harvard, le loro giacche inamidate (quando il presidente di Harvard, che poi è Larry Summers, li vede entrare nel suo studio dice al suo interlocutore al telefono che “non so chi siano, ma dall’aspetto penso vogliano vendermi coppie identiche di giacche di Brooks Brothers”), le loro connessioni paranobiliari, le loro dosi di bella vita esibite senza ritegno, sono l’immagine grottesca del mondo che vince e riesce in tutto, nell’immancabile contrasto con il sotterraneo mondo geek che non si limita a perdere ma fa in modo che i vincitori vincano ancora di più e i perdenti sprofondino nella dimenticanza assoluta. Lo Zuckerberg del film è un principe del disagio sociale e della saccenza. Regge brillantemente due cause da milioni di dollari che metterebbero pressione al lobbista più smagato, è un freddo calcolatore con lingua tagliente e ambizioni sociali senza limiti. All’inizio The Facebook è esclusivamente lo strumento del riscatto dalla condizione di minorità nell’universo harvardiano (“dovreste essermi grato”, dice alla commissione dell’università che lo punisce per aver impallato il sistema), non ci sono soldi di mezzo, soltanto la foga dell’idea geniale. Il computer è il suo deserto, The Facebook i suoi Tartari. La monetizzazione arriverà più tardi, quando Zuckerberg è quasi (ma non completamente) affrancato dai tratti del nerd autistico che gira per il campus innevato con braghe corte, ciabatte che erano fuori moda anche nel 2003 e calzini di spugna scacciafemmine. La scena in cui lancia goffamente bottiglie di birra che si schiantano sul muro è il suo personale salto dello squalo.
La vittoria più intima dello Zuckerberg personaggio non è inventare qualcosa di utile (Facebook è il regno del superfluo), né permettere al mondo di accedere liberamente a informazioni tradizionalmente riservate alle élite, così come propugnato dai pionieri dell’ideologia open source. La vittoria di Zuckerberg non è nella creazione di qualcosa, ma nella creazione di qualcosa di “cool”. La sua creatura è la cosa più pop che il mondo abbia concepito e l’esclusività da cui tutto aveva preso inizio lascia il posto al dominio della massa.
Secondo lo schema ovvio delle cose il nerd incompreso è simpatico e la sua rivincita ristabilisce una giustizia sociale che fa alzare il pubblico dalle poltroncine molto più sollevato di quando era entrato. Invece niente. Si finisce per odiare quel saccente disadattato che non si cura di mandare al macero il migliore amico, fregandolo nel modo più subdolo per poi farsi scudo con i consigli di Sean Parker, il fondatore di Napster, che con il suo fascino diabolicamente manageriale circuisce Zuckerberg, che mano a mano che il film va avanti passa da vittima del mondo a suo possibile salvatore, infine a carnefice. Non c’è nessuna simpatia per Zuckerberg, nessuna salvezza possibile per i peccati che commette. Jeffe Dervis, l’autore del libro “What would Google do” ha le sue buone ragioni per dire che il film è antisociale: “Guarda di cattivo occhio il fenomeno e non fa nulla per cercare di capirlo”. Quello che rimane è lo sbranamento hobbesiano per l’affermazione del potere sull’altro. Ancora meglio se su 500 milioni di altri. La leva della dannazione di Zuckerberg è il suo collega, il pioniere di Napster, interpretato da un Justin Timberlake a tratti nel ruolo di se stesso. Sean Parker viene introdotto sulla scena nel letto di una studentessa con le mutande rosse targate Stanford, la mattina dopo una festa e tutto ciò che ne deriva. Lei chiede che mestiere faccia lui e Justin risponde semplicemente “l’imprenditore”. Alla richiesta di specifiche , dice che ha fondato Napster e ovviamente la ragazza non è disinformata al punto da credergli: “Sean Parker ha fondato Napster”. E lui, con l’espressione tipica del Timberlake di inizio carriera: “Nice to meet you”.
L’ex leader degli ’Nsync riesce a meraviglia nel ruolo del leader autoconvinto, di quelli che tengono banco a tutte le ore, che ostentano la vita che non sono riusciti fino in fondo a possedere perché, in fondo, il loro tentativo è fallito. Diventa presto il sussurratore di Zuckerberg, quello che lo convince a togliere l’articolo “the” dal nome del sito, a tradire l’amico, a lasciare Boston per la California (“the place we ought to be”), a mollare le fantasie per entrare nel business che conta. Per quanto Justin Timberlake sul grande schermo sia costretto a rimanere Justin Timberlake, il ruolo è cucito apposta per lui. In conformità agli eventi realmente accaduti, anche la storia fra i due finirà male, e ancora una volta sono le irrefrenabili passioni umane a rompere il sodalizio. Il film su Facebook, oltre Facebook, dunque, con una sceneggiatura da applausi a scena aperta per l’autore Aaron Sorkin, che in certi momenti replica le altezze di Codice d’Onore: “Faccio colazione a trecento metri di distanza da quattromila cubani addestrati per uccidermi, quindi non pensare nemmeno per un secondo che il tuo distintivo mi renda nervoso”. Le parole che fa dire a Larry Summers rendono in modo impeccabile la durezza densa di ironia dell’ex presidente di Harvard. Discutendo sui potenziali entroiti di Facebook, uno dei fratelli Winklevoss obietta: “Con tutto il rispetto credo che lei non sia nella posizione per giudicare”. “Sono stato segretario del Tesoro, e sono in qualche posizione per giudicare”. Al ritmo serratissimo dei dialoghi fanno da contraltare le nenie psichedeliche scritte da Trent Reznor, mitico leader dei Nine Inch Nails, perfette per rendere l’atmosfera truce e amareggiata di The Social Network, spettacolare ritratto della condizione umana che rimarrà intatto anche quando i ventenni del futuro anteriore si chiederanno cosa diavolo fosse, questo Facebook.
«Il Foglio» del 7 ottobre 2010
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