Il mare in declino della fecondità occidentale
di Roberto Volpi
Nobel a Robert Edwards per la sua scoperta, or sono quasi tre decenni, della rivoluzionaria tecnica della fecondazione in vitro già adottata dai veterinari. Commenti unanimemente favorevoli. C’è che la medicina è svelta a intestarsi i successi, quanto a non prendersi responsabilità degli insuccessi. Così, per esempio, se l’infertilità cresce (è tutto l’establishment medico-scientifico a dirlo), segnatamente nel mondo occidentale, sarà mica tutta colpa dell’inquinamento o dei ritmi di vita che non sono più quelli di una volta.
Fuor di metafora, la fecondazione in vitro ha permesso quattro milioni di nascite – ci ricordano i giornali – e al tempo stesso ha accompagnato la caduta del tasso di fecondità – ci ricordano le cifre ufficiali delle nascite. L’Unione europea a 27, da sola, ha perso la bellezza di tre milioni di neonati annue, tra la nascita di Louise Brown e oggi. E non si può negare che l’Europa sia, con gli Stati Uniti, l’area del mondo dove la fecondazione in vitro è stata ed è più largamente utilizzata. Dice: ma i milioni di nascite in più a essa dovute restano. Sì, ma guardiamo bene. Relativamente all’Italia, della generazione di donne nate nel 1990, una su quattro (per la precisione il ventiquattro per cento), secondo l’ipotesi più realistica delle previsioni Istat, resterà senza figli. Delle loro madri, nate nel 1960, sono rimaste senza figli in quattordici su cento. Secondo l’ipotesi “alta” le figlie potrebbero rimanere senza figli in proporzione addirittura più che doppia rispetto alle madri. Nel tempo della fecondazione assistita, artificiale, in vitro le donne senza figli tendono a crescere. Allora uno non capisce com’è che più rimedi si pigliano e più i risultati finali contraddicono le premesse. E’ un po’ come la lotta al tumore, miete successi, ma intanto i morti per tumore quando i successi non c’erano, e la prevenzione neppure, erano cinquantamila l’anno in meno rispetto ad oggi (ancora dati Istat, che nessuno cita mai – inutile aggiungere perché).
A proposito di questo problema della sterilità crescente. Ha radici lunghe, complesse, antropologiche, e rischia di venire risucchiato dalla banalità – con tutto il rispetto – della medicina. C’è un venir meno formidabile dell’istinto, una volta naturale, di sopravvivenza della specie, come se l’ampliamento smisurato degli orizzonti dovuto alle nuove possibilità della scienza ci avesse rinchiusi nella prospettiva delle nostre sole vite, così poco interessati a quel che sarà. Un venir meno al quale si collega lo spostamento della fecondità sempre più in là nel tempo, sempre più in là, al punto che la classe d’età delle oltre quarantenni è l’unica oggi in grande spolvero sotto questo aspetto. C’è la crescente “inutilità” materiale del figlio nella funzione di sostegno della vecchiaia dei genitori, con addirittura l’inversione delle parti: i vecchi a sostegno di figli sempre più adulti ma che non vogliono saperne di assumersi le responsabilità dell’età adulta. C’è la scelta razionale, ponderata, della “non maternità” per la realizzazione a tutto tondo di una vita dedicata ad altro, di grande, di meno grande e pure di non grande – del tipo vacanze e notti ai tropici e aperitivi in qualche piazzetta, la cui perdita di esclusività è compensata dalla moltiplicazione delle piazzette.
E c’è pure la fecondazione in vitro. C’è l’“invenzione” del figlio. Perché anche un figlio che si può inventare contribuisce ad abbassare la naturale e fisiologica, ma anche culturale e infine antropologica, “propensione” al figlio. La propensione al figlio è letteralmente sotto assedio, in occidente, tra scienziati e opinion maker che almanaccano (qui, in Italia, in Europa) di superpopolazione e una moltiplicazione di pillole e contropillole del prima, del dopo e del durante da non raccapezzarcisi.
La funzione riproduttiva in quanto tale, quella comunemente legata alle coppie e alla loro vita insieme, è sempre più culturalmente confinata nell’alveo familiare, incapace ormai di rappresentare l’àncora che tutti ci tiene in questi mari. Cosicché quelli che tendono ai figli tendono ai “propri” figli, e i figli in quanto categoria generale e costitutiva vanno sparendo a una velocità ancora maggiore di quella fattuale delle nascite.
In tutto questo, il massimo che riusciamo a fare è affidarci alla medicina, alla fecondazione in vitro, all’invenzione dei figli. Senza accorgerci che anche questo è un fiume che attinge dal mare in declino della fecondità dell’occidente. Ci butta anche dell’acqua, in quel mare, è vero, ma nel bilancio finale è più quella che vi attinge.
Fuor di metafora, la fecondazione in vitro ha permesso quattro milioni di nascite – ci ricordano i giornali – e al tempo stesso ha accompagnato la caduta del tasso di fecondità – ci ricordano le cifre ufficiali delle nascite. L’Unione europea a 27, da sola, ha perso la bellezza di tre milioni di neonati annue, tra la nascita di Louise Brown e oggi. E non si può negare che l’Europa sia, con gli Stati Uniti, l’area del mondo dove la fecondazione in vitro è stata ed è più largamente utilizzata. Dice: ma i milioni di nascite in più a essa dovute restano. Sì, ma guardiamo bene. Relativamente all’Italia, della generazione di donne nate nel 1990, una su quattro (per la precisione il ventiquattro per cento), secondo l’ipotesi più realistica delle previsioni Istat, resterà senza figli. Delle loro madri, nate nel 1960, sono rimaste senza figli in quattordici su cento. Secondo l’ipotesi “alta” le figlie potrebbero rimanere senza figli in proporzione addirittura più che doppia rispetto alle madri. Nel tempo della fecondazione assistita, artificiale, in vitro le donne senza figli tendono a crescere. Allora uno non capisce com’è che più rimedi si pigliano e più i risultati finali contraddicono le premesse. E’ un po’ come la lotta al tumore, miete successi, ma intanto i morti per tumore quando i successi non c’erano, e la prevenzione neppure, erano cinquantamila l’anno in meno rispetto ad oggi (ancora dati Istat, che nessuno cita mai – inutile aggiungere perché).
A proposito di questo problema della sterilità crescente. Ha radici lunghe, complesse, antropologiche, e rischia di venire risucchiato dalla banalità – con tutto il rispetto – della medicina. C’è un venir meno formidabile dell’istinto, una volta naturale, di sopravvivenza della specie, come se l’ampliamento smisurato degli orizzonti dovuto alle nuove possibilità della scienza ci avesse rinchiusi nella prospettiva delle nostre sole vite, così poco interessati a quel che sarà. Un venir meno al quale si collega lo spostamento della fecondità sempre più in là nel tempo, sempre più in là, al punto che la classe d’età delle oltre quarantenni è l’unica oggi in grande spolvero sotto questo aspetto. C’è la crescente “inutilità” materiale del figlio nella funzione di sostegno della vecchiaia dei genitori, con addirittura l’inversione delle parti: i vecchi a sostegno di figli sempre più adulti ma che non vogliono saperne di assumersi le responsabilità dell’età adulta. C’è la scelta razionale, ponderata, della “non maternità” per la realizzazione a tutto tondo di una vita dedicata ad altro, di grande, di meno grande e pure di non grande – del tipo vacanze e notti ai tropici e aperitivi in qualche piazzetta, la cui perdita di esclusività è compensata dalla moltiplicazione delle piazzette.
E c’è pure la fecondazione in vitro. C’è l’“invenzione” del figlio. Perché anche un figlio che si può inventare contribuisce ad abbassare la naturale e fisiologica, ma anche culturale e infine antropologica, “propensione” al figlio. La propensione al figlio è letteralmente sotto assedio, in occidente, tra scienziati e opinion maker che almanaccano (qui, in Italia, in Europa) di superpopolazione e una moltiplicazione di pillole e contropillole del prima, del dopo e del durante da non raccapezzarcisi.
La funzione riproduttiva in quanto tale, quella comunemente legata alle coppie e alla loro vita insieme, è sempre più culturalmente confinata nell’alveo familiare, incapace ormai di rappresentare l’àncora che tutti ci tiene in questi mari. Cosicché quelli che tendono ai figli tendono ai “propri” figli, e i figli in quanto categoria generale e costitutiva vanno sparendo a una velocità ancora maggiore di quella fattuale delle nascite.
In tutto questo, il massimo che riusciamo a fare è affidarci alla medicina, alla fecondazione in vitro, all’invenzione dei figli. Senza accorgerci che anche questo è un fiume che attinge dal mare in declino della fecondità dell’occidente. Ci butta anche dell’acqua, in quel mare, è vero, ma nel bilancio finale è più quella che vi attinge.
«Il Foglio» del 6 ottobre 2010
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