di Giampaolo Pansa
A partire dai primi mesi del 1944, soprattutto nell’Italia del Nord il Pci comincia a costituire bande partigiane in montagna o in territori di collina lontani dalle città. È una scelta quasi obbligata, imposta senza volerlo proprio dall’avversario. Le ripetute chiamate alle armi decise dalla Rsi causano un fenomeno sconosciuto nella storia d’Italia. È la renitenza massiccia delle reclute, il rifiuto di migliaia di giovani a vestire la divisa dell’esercito fascista. Dirà Parri: Mussolini ci ha regalato tanti bravi partigiani. In quel momento la politica militare del Pci si sdoppia. Restano attivi i Gap, che proseguono con accanimento nella strategia del terrorismo urbano. Ma accanto a loro comincia a emergere la rete delle brigate comuniste o a guida comunista, le Garibaldi. Sarà una costruzione lenta e non priva di errori.
Lo rivela il disastro terribile della Benedicta che, nell’aprile 1944, segna la fine della 3ª Brigata Garibaldi Liguria. Il lettore lo vedrà rievocato in questo libro da una testimonianza eccezionale. È il racconto di una spia fascista inviata tra i partigiani di quel reparto, con lo scopo di raccogliere informazioni in vista di un grande rastrellamento, concluso con 147 fucilazioni. Ma anche sul terreno delle bande, la supremazia del Pci nei confronti degli altri partiti del Cln rimane intatta. Certo, esistono pure le formazioni di Giustizia e libertà, il braccio partigiano del Partito d’Azione. Nascono reparti militari autonomi, come quelli di Mauri nelle Langhe. Non mancano formazioni cattoliche e socialiste. Però la loro consistenza non è paragonabile, neppure alla lontana, a quella delle Garibaldi. Tanto che non è azzardato affermare che almeno il 70 per cento del movimento partigiano italiano risulterà comunista o guidato da comunisti.
Chi non concorda con questa tesi, sostiene che anche nelle Garibaldi i partigiani comunisti erano una minoranza. Per un certo aspetto, all’inizio questo è vero. Del resto, i giovani che per i motivi più diversi decidono di “andare in banda” sono cresciuti nel regime fascista. E non sanno nulla della politica e dei partiti antifascisti. Molti di loro, tuttavia, nel corso della guerra partigiana diventeranno militanti del Pci. [...]
Che cosa vogliono fare i comunisti una volta liberata l’Italia dai tedeschi e dai fascisti? La risposta è talmente ovvia da sembrare banale: vogliono conquistare il potere con le armi e fare del nostro paese uno Stato satellite dell’Unione sovietica. Non occorre essere docenti di Storia contemporanea per sapere che questa è la verità. Eppure le tante sinistre italiane, tutte figlie o nipoti del vecchio Pci, ancora nel 2010 continuano a negare l’evidenza. [...]
Il primo degli storici revisionisti, il grande Renzo De Felice, ci ha spiegato gli obiettivi del Pci in alcune pagine del suo Mussolini l’alleato, l’ultimo volume della monumentale biografia del leader fascista, pubblicato da Einaudi nel 1997. I comunisti non volevano una democrazia parlamentare con più partiti, destinata a dopoguerra. Il loro traguardo era una democrazia popolare o progressiva, considerata come una fase transitoria per arrivare alla dittatura del proletariato, un mito irrinunciabile. È una strategia identica a quella di tutti gli altri partiti comunisti europei, a cominciare dal Pcf, il partito francese. L’aveva decisa Mosca e diventa la motivazione vera dell’impegno dei comunisti nelle guerre di liberazione dal fascismo e dal nazismo. Anche il Pci di Togliatti, ritornato dall’Urss alla fine del marzo 1944, guarda lontano, verso il passo successivo all’indomani della Liberazione. Secondo De Felice, questo fa del Pci un partito per niente riformista, ma neppure rivoluzionario in senso classico, bensì semplicemente staliniano.
Questo connotato spiega molti aspetti della nostra guerra di liberazione che, di solito, vengono ignorati dagli storici di sinistra. Ne elenco alcuni. Prima di tutto, le divisioni all’interno dello schieramento antifascista. I partiti moderati, a cominciare dalla Dc e dai liberali, conoscono bene le reali intenzioni dei comunisti. E constatano con apprensione la voglia di egemonia del Pci. È un disegno mai dichiarato, ma perseguito con tenacia. Traspare dal lavoro svolto fuori dai Cln e impenetrabile a ogni controllo. Molte delle crepe profonde nel Cln centrale, quello dell’alta Italia, vengono da questa radicale diversità di orizzonti.
Anche l’asprezza, e spesso la ferocia, dimostrata nella guerriglia da molte formazioni garibaldine ha origine nella natura staliniana del partito che le aveva costituite e fatte crescere. Chi ha per traguardo una dittatura rossa non va tanto per il sottile. Sopprimere i fascisti non significa solo togliere di mezzo un avversario nella guerriglia, ma prepara anche il terreno allo scontro futuro. Quello che inizierà dopo la fine del conflitto mondiale e la sconfitta del nazifascismo. Pure le numerose uccisioni di partigiani non comunisti, e comunque il tentativo di indebolirne la forza e il prestigio quando si tratta di comandanti, non sono mai incidenti di percorso nel clima concitato e instabile di una guerra interna. Questi delitti, e anche le tante morti misteriose, si spiegano con il proposito di mettere fuori gioco i possibili avversari della fase successiva alla lotta di liberazione, quella dove il Pci avrebbe tentato di conquistare il potere. [...] Se è stata evitata una liquidazione di massa, molto più pesante dei 20 mila uccisi dopo il 25 aprile 1945, lo dobbiamo soltanto alla presenza in Italia delle truppe americane e inglesi. Nel caso che al loro posto ci fossero stati i reparti sovietici o di Tito, come è avvenuto in altre aree dell’Europa, anche il nostro paese non avrebbe evitato un colossale bagno di sangue. E subito dopo ci sarebbe stato l’inizio di un regime autoritario comunista.
Lo rivela il disastro terribile della Benedicta che, nell’aprile 1944, segna la fine della 3ª Brigata Garibaldi Liguria. Il lettore lo vedrà rievocato in questo libro da una testimonianza eccezionale. È il racconto di una spia fascista inviata tra i partigiani di quel reparto, con lo scopo di raccogliere informazioni in vista di un grande rastrellamento, concluso con 147 fucilazioni. Ma anche sul terreno delle bande, la supremazia del Pci nei confronti degli altri partiti del Cln rimane intatta. Certo, esistono pure le formazioni di Giustizia e libertà, il braccio partigiano del Partito d’Azione. Nascono reparti militari autonomi, come quelli di Mauri nelle Langhe. Non mancano formazioni cattoliche e socialiste. Però la loro consistenza non è paragonabile, neppure alla lontana, a quella delle Garibaldi. Tanto che non è azzardato affermare che almeno il 70 per cento del movimento partigiano italiano risulterà comunista o guidato da comunisti.
Chi non concorda con questa tesi, sostiene che anche nelle Garibaldi i partigiani comunisti erano una minoranza. Per un certo aspetto, all’inizio questo è vero. Del resto, i giovani che per i motivi più diversi decidono di “andare in banda” sono cresciuti nel regime fascista. E non sanno nulla della politica e dei partiti antifascisti. Molti di loro, tuttavia, nel corso della guerra partigiana diventeranno militanti del Pci. [...]
Che cosa vogliono fare i comunisti una volta liberata l’Italia dai tedeschi e dai fascisti? La risposta è talmente ovvia da sembrare banale: vogliono conquistare il potere con le armi e fare del nostro paese uno Stato satellite dell’Unione sovietica. Non occorre essere docenti di Storia contemporanea per sapere che questa è la verità. Eppure le tante sinistre italiane, tutte figlie o nipoti del vecchio Pci, ancora nel 2010 continuano a negare l’evidenza. [...]
Il primo degli storici revisionisti, il grande Renzo De Felice, ci ha spiegato gli obiettivi del Pci in alcune pagine del suo Mussolini l’alleato, l’ultimo volume della monumentale biografia del leader fascista, pubblicato da Einaudi nel 1997. I comunisti non volevano una democrazia parlamentare con più partiti, destinata a dopoguerra. Il loro traguardo era una democrazia popolare o progressiva, considerata come una fase transitoria per arrivare alla dittatura del proletariato, un mito irrinunciabile. È una strategia identica a quella di tutti gli altri partiti comunisti europei, a cominciare dal Pcf, il partito francese. L’aveva decisa Mosca e diventa la motivazione vera dell’impegno dei comunisti nelle guerre di liberazione dal fascismo e dal nazismo. Anche il Pci di Togliatti, ritornato dall’Urss alla fine del marzo 1944, guarda lontano, verso il passo successivo all’indomani della Liberazione. Secondo De Felice, questo fa del Pci un partito per niente riformista, ma neppure rivoluzionario in senso classico, bensì semplicemente staliniano.
Questo connotato spiega molti aspetti della nostra guerra di liberazione che, di solito, vengono ignorati dagli storici di sinistra. Ne elenco alcuni. Prima di tutto, le divisioni all’interno dello schieramento antifascista. I partiti moderati, a cominciare dalla Dc e dai liberali, conoscono bene le reali intenzioni dei comunisti. E constatano con apprensione la voglia di egemonia del Pci. È un disegno mai dichiarato, ma perseguito con tenacia. Traspare dal lavoro svolto fuori dai Cln e impenetrabile a ogni controllo. Molte delle crepe profonde nel Cln centrale, quello dell’alta Italia, vengono da questa radicale diversità di orizzonti.
Anche l’asprezza, e spesso la ferocia, dimostrata nella guerriglia da molte formazioni garibaldine ha origine nella natura staliniana del partito che le aveva costituite e fatte crescere. Chi ha per traguardo una dittatura rossa non va tanto per il sottile. Sopprimere i fascisti non significa solo togliere di mezzo un avversario nella guerriglia, ma prepara anche il terreno allo scontro futuro. Quello che inizierà dopo la fine del conflitto mondiale e la sconfitta del nazifascismo. Pure le numerose uccisioni di partigiani non comunisti, e comunque il tentativo di indebolirne la forza e il prestigio quando si tratta di comandanti, non sono mai incidenti di percorso nel clima concitato e instabile di una guerra interna. Questi delitti, e anche le tante morti misteriose, si spiegano con il proposito di mettere fuori gioco i possibili avversari della fase successiva alla lotta di liberazione, quella dove il Pci avrebbe tentato di conquistare il potere. [...] Se è stata evitata una liquidazione di massa, molto più pesante dei 20 mila uccisi dopo il 25 aprile 1945, lo dobbiamo soltanto alla presenza in Italia delle truppe americane e inglesi. Nel caso che al loro posto ci fossero stati i reparti sovietici o di Tito, come è avvenuto in altre aree dell’Europa, anche il nostro paese non avrebbe evitato un colossale bagno di sangue. E subito dopo ci sarebbe stato l’inizio di un regime autoritario comunista.
«Avvenire» del 1 ottobre 2010
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