Il premio al padre di una tecnica inventata per gli animali
di Carlo Bellieni
L’inventore della fecondazione umana in vitro, l’inglese Robert Edwards, riceverà dunque il premio Nobel 2010 per la medicina. Certamente premiare un àmbito di ricerca che suscita cospicui e fondati turbamenti etici significa una netta scelta di campo. E i turbamenti nascono dal fatto che la fecondazione in vitro è fortemente criticata per l’irrefrenabile voglia che genera di mettere le mani in quello che il compianto Enzo Tiezzi – uno dei padri dell’ecologismo in Italia – chiamava blue print, il cuore pulsante della vita. E dato che la procreazione in provetta genera inquietudine tra chi si rende conto che la vita di un embrione d’uomo è una vita pienamente umana – quanti embrioni finiscono distrutti o congelati in seguito alle tecniche fecondative? –, sinceramente ci sarebbe piaciuto che il Nobel fosse andato a chi segue ricerche di minor impatto mediatico, spesso emarginate e senza fondi, quali quelle sulle malattie rare, o sulla terapia per la sindrome di Down, che rara non sarebbe se non fosse che invece di cercare di curarla la società occidentale ha risolto culturalmente il problema cessando di scandalizzarsi per l’aborto selettivo dei bimbi segnati dalla trisomia.
Non ci sembra infatti che all’industria della provetta scarseggino i fondi, mentre scarseggiano terribilmente quelli per la cura delle malattie 'orfane'.
Che occasione sprecata: non si poteva finalmente dare un Nobel a chi si impegna eroicamente in un campo che non assicura un ritorno economico come quello garantito dalla procreazione artificiale?
Assegnazioni di premi come questa sono scelte che fanno riflettere, proprio per lo scarso valore che riconoscono a un tipo di ricerca non da prima pagina e per l’alto valore che invece affermano nella ricerca di tecniche che implicano la morte di embrioni umani. Attenzione tuttavia agli equivoci: non è in questione il progresso scientifico, che va disciplinato ma non certo scoraggiato. Qui si vuole dir chiaro che la fecondazione in vitro era stata inventata ben prima di Edwards, ma questo nessuno ha interesse a raccontarlo nell’ansia di lodare il 'coraggio' dell’Accademia di Stoccolma.
Anche perché bisognerebbe ricordare come, in barba alla vulgata che vuole la Chiesa 'nemica' della scienza, era stato un prete, l’abate Lazzaro Spallanzani, a scoprire e sperimentare gli accoppiamenti artificiali prima tra rane, poi tra mammiferi. Solo che Spallanzani governava, manipolava e muoveva nella sua ricerca i gameti di cani e rane, e non interferiva con la vita umana; e se si perdeva un embrione non era poi così grave, almeno non come la perdita di un essere umano. Ecco la differenza, che pare essersi perduta nella percezione della nostra cultura impregnata di tecnoscientismo.
Chi si scandalizza allora se chiediamo un po’ di prudenza sulla strada della provetta applicata all’uomo? In quest’àmbito abbiamo visto di tutto: impianti multipli fino a otto embrioni, magari poi seguiti da aborti selettivi; inseminazione con seme di persone defunte senza un loro esplicito consenso da vivi; figli con una madre biologica e una 'portatrice' che poteva essere la zia, o la nonna; embrioni congelati per poi chiamare i genitori a firmare per autorizzarne la morte; compravendita di ovociti; e ancora, le conseguenze delle pesanti stimolazioni ormonali sulle donne, fino ai rischi per i bambini. Può bastare?
Non va demonizzato nessuno, ma ci si permetta almeno di chiedere un po’ di sobrietà, realismo e completezza informativa evitando esaltazioni del tutto fuori luogo per un Nobel quantomeno discutibile.
Non ci sembra infatti che all’industria della provetta scarseggino i fondi, mentre scarseggiano terribilmente quelli per la cura delle malattie 'orfane'.
Che occasione sprecata: non si poteva finalmente dare un Nobel a chi si impegna eroicamente in un campo che non assicura un ritorno economico come quello garantito dalla procreazione artificiale?
Assegnazioni di premi come questa sono scelte che fanno riflettere, proprio per lo scarso valore che riconoscono a un tipo di ricerca non da prima pagina e per l’alto valore che invece affermano nella ricerca di tecniche che implicano la morte di embrioni umani. Attenzione tuttavia agli equivoci: non è in questione il progresso scientifico, che va disciplinato ma non certo scoraggiato. Qui si vuole dir chiaro che la fecondazione in vitro era stata inventata ben prima di Edwards, ma questo nessuno ha interesse a raccontarlo nell’ansia di lodare il 'coraggio' dell’Accademia di Stoccolma.
Anche perché bisognerebbe ricordare come, in barba alla vulgata che vuole la Chiesa 'nemica' della scienza, era stato un prete, l’abate Lazzaro Spallanzani, a scoprire e sperimentare gli accoppiamenti artificiali prima tra rane, poi tra mammiferi. Solo che Spallanzani governava, manipolava e muoveva nella sua ricerca i gameti di cani e rane, e non interferiva con la vita umana; e se si perdeva un embrione non era poi così grave, almeno non come la perdita di un essere umano. Ecco la differenza, che pare essersi perduta nella percezione della nostra cultura impregnata di tecnoscientismo.
Chi si scandalizza allora se chiediamo un po’ di prudenza sulla strada della provetta applicata all’uomo? In quest’àmbito abbiamo visto di tutto: impianti multipli fino a otto embrioni, magari poi seguiti da aborti selettivi; inseminazione con seme di persone defunte senza un loro esplicito consenso da vivi; figli con una madre biologica e una 'portatrice' che poteva essere la zia, o la nonna; embrioni congelati per poi chiamare i genitori a firmare per autorizzarne la morte; compravendita di ovociti; e ancora, le conseguenze delle pesanti stimolazioni ormonali sulle donne, fino ai rischi per i bambini. Può bastare?
Non va demonizzato nessuno, ma ci si permetta almeno di chiedere un po’ di sobrietà, realismo e completezza informativa evitando esaltazioni del tutto fuori luogo per un Nobel quantomeno discutibile.
«Avvenire» del 5 ottobre 2010
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