di Enzo Bettiza
Letteratura e politica insieme, oppure letteratura come preludio alla politica, oppure ancora letteratura come correttivo, come antidoto o addirittura fuga dalla politica aspra e approdo all’utopia liberale? Tutte domande sottili, in parte contrastanti, che si addicono quasi simultaneamente alla complessa e nomade personalità intellettuale di Mario Vargas Llosa.
Romanziere prolifico, drammaturgo visionario, saggista provocatorio, giornalista asciutto, al tempo stesso sfortunato e battagliero candidato nel 1990 alla presidenza del nativo Perù, l’infaticabile Llosa ha aggiunto sovente al grimaldello dello scrittore che sviscera la politica la grinta del militante che fa politica. Gli accademici del Nobel, premiandolo dopo la tedesca Herta Müller, vittima solitaria dell’Est comunista, hanno messo per la seconda volta il dito su uno dei tasti più delicati, in perenne attesa di chiarezza, del mondo contemporaneo: il rapporto irrisolto tra «nobiltà dello spirito», come Thomas Mann chiamava la cultura, e trivialità drammatica nelle svolte rivoluzionarie o empirica e più statica in circostanze democratiche. Insomma il legame mutevole e spesso strinato del poeta, del filosofo, dell’intellò novecentesco di stampo europeo, in senso lato occidentale, col ruvido pragmatismo dell’azione politica.
I valori aggiunti all’originaria americanità latina di Llosa sono europei: cittadinanza spagnola, formazione parigina, residenza londinese. Ma non tutta l’intelligencija occidentale riconosce in lui uno scrittore e soprattutto un analista impegnato civilmente e socialmente. L’Italia, dove gran parte della sua opera romanzesca è pubblicata da Einaudi e da Rizzoli, lo riconosce e lo celebra principalmente (parole sue) «come uno schiavo volontario e felice della letteratura». Tanto schiavo da esserne alla fin fine stufo e quasi infelice. Rileggo una ricca intervista, concessa al Corriere della Sera nel 2008, in cui il Llosa «politico» confidava a Dario Fertilio il suo disappunto di venire considerato dagli italiani soltanto come un «romanziere». Diceva alquanto deluso: «Nessuno si prende la briga di pubblicare i miei saggi sulla situazione sudamericana. Ancora oggi un certo conformismo di sinistra passa sotto silenzio il saggista liberale, dando spazio al solo narratore. Invece che vedermi dipinto come un uccello esotico, preferirei mi si considerasse un uomo del nostro tempo che pensa e guarda, senza paraocchi, la realtà che lo circonda».
L’esatta collocazione ideologica dell’odierno Nobel continua a essere ignorata o, peggio, equivocata per calcolo o disinteressata corrività. Diversi, dimenticando il suo distacco critico dall’«illusione italiana», cioè dal populismo berlusconiano, tendono a percepire in Llosa un liberalconservatore, un cantore di centrodestra, mentre secondo me egli inclina a un certo radicalismo e purismo liberale. Non a caso un suo capolavoro intriso di sdegno politico, «La fiesta del chivo» ovvero «festa del caprone», pubblicato nel 2000, è una sublime requisitoria a mezza via tra realtà e surrealtà contro le tirannidi caraibiche. Vi si narra la storia non remota di San Domingo, quella più sudicia, dominata dal generalissimo Rafael Leónidas Trujillo, il despota caprigno al quale i notabili della spaventata repubblica delle banane portavano in dono figlie e fidanzate per il consumo dello jus primae noctis. Lo spietato ritratto al fosforo del priapesco caudillo, che risente il contagio dei demoniaci personaggi di Borges e di García Márquez, è uno dei mostri più impressionanti che ci siano arrivati dalle nebbie insondabili dell’universo letterario sudamericano. Il crudo pamphlet qui si congiunge alla maestà di una fiaba nera e atemporale. La nemesi giungerà dopo un implacabile trentennio criminale (1930-1961), quando Trujillo, padrone della vita e della morte di un popolo perduto, verrà trucidato in un attentato ordito dai suoi collaboratori e da agenti occulti della Cia.
Llosa conosceva bene, e di persona, anche i feroci caudilli di sinistra con la coorte di menestrelli da Márquez a Sartre. In gioventù il bellissimo scrittore, dai tratti aristocratici, aveva esaltato Cuba, stimato Castro, amato Guevara, frequentato bettole e bordelli con Márquez. Ma l’infatuazione finì con la comunistizzazione dell’Avana e l’arrivo dei missili sovietici a Cuba. L’insofferenza politica riprese il sopravvento. Il suo castrismo si stroncò, pressoché fisiologicamente, in una epica rissa a pugni con l’amico Márquez. Dopodiché, nel suo immaginario ideologico la Parigi di Aron sostituì la Rive Gauche di Sartre e il liberalismo puro, più intransigente che dubitativo, conquistò definitivamente l’animo europeizzato del futuro Nobel.
La grande svolta non impedì tuttavia, anzi, favorì la riconciliazione con il geniale compagno colombiano Márquez al quale, in omaggio armistiziale, il peruviano neoliberale volle dedicare nel 1971 l’effervescente «Historia de un deicidio». Effervescente certo. Ma forse non priva di squarci d’ambiguità, quanto meno di bivalenza, giacché i due famosi amici-nemici hanno rappresentato e indicano pur sempre due diverse vie d’uscita storica al travagliato subcontinente dell’America Latina. Oggi per Márquez è Chávez il successore legittimo di Castro; per Llosa, forse, è Llosa stesso.
Romanziere prolifico, drammaturgo visionario, saggista provocatorio, giornalista asciutto, al tempo stesso sfortunato e battagliero candidato nel 1990 alla presidenza del nativo Perù, l’infaticabile Llosa ha aggiunto sovente al grimaldello dello scrittore che sviscera la politica la grinta del militante che fa politica. Gli accademici del Nobel, premiandolo dopo la tedesca Herta Müller, vittima solitaria dell’Est comunista, hanno messo per la seconda volta il dito su uno dei tasti più delicati, in perenne attesa di chiarezza, del mondo contemporaneo: il rapporto irrisolto tra «nobiltà dello spirito», come Thomas Mann chiamava la cultura, e trivialità drammatica nelle svolte rivoluzionarie o empirica e più statica in circostanze democratiche. Insomma il legame mutevole e spesso strinato del poeta, del filosofo, dell’intellò novecentesco di stampo europeo, in senso lato occidentale, col ruvido pragmatismo dell’azione politica.
I valori aggiunti all’originaria americanità latina di Llosa sono europei: cittadinanza spagnola, formazione parigina, residenza londinese. Ma non tutta l’intelligencija occidentale riconosce in lui uno scrittore e soprattutto un analista impegnato civilmente e socialmente. L’Italia, dove gran parte della sua opera romanzesca è pubblicata da Einaudi e da Rizzoli, lo riconosce e lo celebra principalmente (parole sue) «come uno schiavo volontario e felice della letteratura». Tanto schiavo da esserne alla fin fine stufo e quasi infelice. Rileggo una ricca intervista, concessa al Corriere della Sera nel 2008, in cui il Llosa «politico» confidava a Dario Fertilio il suo disappunto di venire considerato dagli italiani soltanto come un «romanziere». Diceva alquanto deluso: «Nessuno si prende la briga di pubblicare i miei saggi sulla situazione sudamericana. Ancora oggi un certo conformismo di sinistra passa sotto silenzio il saggista liberale, dando spazio al solo narratore. Invece che vedermi dipinto come un uccello esotico, preferirei mi si considerasse un uomo del nostro tempo che pensa e guarda, senza paraocchi, la realtà che lo circonda».
L’esatta collocazione ideologica dell’odierno Nobel continua a essere ignorata o, peggio, equivocata per calcolo o disinteressata corrività. Diversi, dimenticando il suo distacco critico dall’«illusione italiana», cioè dal populismo berlusconiano, tendono a percepire in Llosa un liberalconservatore, un cantore di centrodestra, mentre secondo me egli inclina a un certo radicalismo e purismo liberale. Non a caso un suo capolavoro intriso di sdegno politico, «La fiesta del chivo» ovvero «festa del caprone», pubblicato nel 2000, è una sublime requisitoria a mezza via tra realtà e surrealtà contro le tirannidi caraibiche. Vi si narra la storia non remota di San Domingo, quella più sudicia, dominata dal generalissimo Rafael Leónidas Trujillo, il despota caprigno al quale i notabili della spaventata repubblica delle banane portavano in dono figlie e fidanzate per il consumo dello jus primae noctis. Lo spietato ritratto al fosforo del priapesco caudillo, che risente il contagio dei demoniaci personaggi di Borges e di García Márquez, è uno dei mostri più impressionanti che ci siano arrivati dalle nebbie insondabili dell’universo letterario sudamericano. Il crudo pamphlet qui si congiunge alla maestà di una fiaba nera e atemporale. La nemesi giungerà dopo un implacabile trentennio criminale (1930-1961), quando Trujillo, padrone della vita e della morte di un popolo perduto, verrà trucidato in un attentato ordito dai suoi collaboratori e da agenti occulti della Cia.
Llosa conosceva bene, e di persona, anche i feroci caudilli di sinistra con la coorte di menestrelli da Márquez a Sartre. In gioventù il bellissimo scrittore, dai tratti aristocratici, aveva esaltato Cuba, stimato Castro, amato Guevara, frequentato bettole e bordelli con Márquez. Ma l’infatuazione finì con la comunistizzazione dell’Avana e l’arrivo dei missili sovietici a Cuba. L’insofferenza politica riprese il sopravvento. Il suo castrismo si stroncò, pressoché fisiologicamente, in una epica rissa a pugni con l’amico Márquez. Dopodiché, nel suo immaginario ideologico la Parigi di Aron sostituì la Rive Gauche di Sartre e il liberalismo puro, più intransigente che dubitativo, conquistò definitivamente l’animo europeizzato del futuro Nobel.
La grande svolta non impedì tuttavia, anzi, favorì la riconciliazione con il geniale compagno colombiano Márquez al quale, in omaggio armistiziale, il peruviano neoliberale volle dedicare nel 1971 l’effervescente «Historia de un deicidio». Effervescente certo. Ma forse non priva di squarci d’ambiguità, quanto meno di bivalenza, giacché i due famosi amici-nemici hanno rappresentato e indicano pur sempre due diverse vie d’uscita storica al travagliato subcontinente dell’America Latina. Oggi per Márquez è Chávez il successore legittimo di Castro; per Llosa, forse, è Llosa stesso.
«La Stampa» dell'8 ottobre 2010
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