Nel '76 un servizio fotografico sulle uccisioni in Cambogia mi costò il posto di direttore di "Epoca". Per il Pci le testimonianze delle atrocità erano falsi creati dagli imperialisti Usa
di Livio Caputo
Cinque anni dopo la loro istituzione e diciotto mesi dopo l’avvio del processo, le «Camere straordinarie dei tribunali cambogiani» hanno finalmente condannato il primo esponente dei Khmer rossi per i crimini contro l’umanità commessi nel periodo 1975-79. Si tratta di Kaing Guek Eav, detto il compagno Duch, direttore del famigerato carcere Tuol Sleng S-21, in cui furono torturati e uccisi 14mila cambogiani (compresi molte donne e bambini) colpevoli soltanto di sapere leggere e scrivere e quindi di essere stati «contaminati» dalla civiltà capitalista. Nonostante l’immensità dei suoi delitti, si tratta di un pesce relativamente piccolo rispetto non solo a Pol Pot, il capo del movimento morto nel 1998. Duch, che alla caduta del regime si era eclissato ed era stato scovato in un remoto villaggio dell’interno dal giornalista irlandese Nic Dunlop solo nel 1994, ha confessato le sue colpe e chiesto perdono alle sue vittime, ma ha sostenuto di essere stato solo una rotella di un ingranaggio infernale più forte di lui.
Il processo, in realtà, non ha aggiunto molto a quanto già sapevamo dei delitti commessi dai Khmer rossi quando, dopo il ritiro degli americani nella primavera del ’75, assunsero il controllo della Cambogia. Il loro leader Pol Pot, formatosi negli ambienti «gauchiste» di Parigi e seguace di un comunismo alla cinese, sosteneva che la civiltà capitalista aveva corrotto l’umanità e che, per purgarla da questo morbo, bisognava sopprimere tutti gli individui «contaminati». Per questo il suo movimento, composto da giovani analfabeti reclutati nelle campagne cui era stato instillato l’odio per «l’uomo urbano», procedette al metodico sterminio di circa due milioni di persone (un terzo della popolazione), spesso accusati solo di portare gli occhiali: dopo essere stati rinchiusi in campi di concentramento come Tuol Seng, venivano torturati e poi inviati a morire nelle paludi dell’interno, come documentato dal famoso film «Urla dal silenzio».
In realtà, più della scontata condanna di Kaing, interessa constatare quanto il giudizio sui Khmer rossi sia mutato rispetto al periodo in cui egli commetteva i suoi misfatti. A metà degli anni Settanta, infatti, Pol Pot era portato in palma di mano da gran parte della sinistra europea. L’11 aprile del 1975, cioè prima dell’apertura di Tuol Seng, ma quando già si conoscevano le sue idee, il Comitato centrale del Pci (comprendente tra gli altri D’Alema, Napolitano e Bassolino) votò una risoluzione per esaltare «l’eroica resistenza dei popoli cambogiano e vietnamita» e invitare tutti i comunisti a «sviluppare un grande movimento di solidarietà e di appoggio ai combattenti». Molti intellettuali, compresi scrittori illustri come Tiziano Terzani, consideravano Pol Pot e i suoi Khmer rossi avanguardie della rivoluzione ed eroi della guerra contro gli «imperialisti americani» delle popolazioni indocinesi. Pensarla diversamente, anche quando il genocidio era già iniziato da tempo, era considerato un atteggiamento fascista. Quando il sottoscritto, allora direttore di Epoca, pubblicò nella primavera del 1976 con il titolo «Un massacro per la rivoluzione» il primo servizio fotografico che documentava i crimini del regime cambogiano, fu duramente contestato dal comitato di redazione e alla fine ci rimise addirittura il posto. Per quella sacrosanta rivoluzione - era la tesi dei compagni - non si potevano commettere massacri, al massimo si eliminava qualche traditore, e le immagini che dimostravano il contrario non potevano essere che falsi fabbricati dalla Cia. Ci vollero diversi anni, e innumerevoli quanto inconfutabili testimonianze, prima che anche i comunisti occidentali si decidessero ad ammettere che Pol Pot era solo un grande criminale. Più che a fare giustizia, la condanna del compagno Duch può essere utile per ricordare ai giovani che ancora sventolano bandiere rosse con falce e martello quanti crimini furono commessi in nome del comunismo, non solo nella versione europea, ma anche in quella asiatica, e come possa essere pericoloso seguire acriticamente le sirene della cosiddetta intelligentia di sinistra.
Il processo, in realtà, non ha aggiunto molto a quanto già sapevamo dei delitti commessi dai Khmer rossi quando, dopo il ritiro degli americani nella primavera del ’75, assunsero il controllo della Cambogia. Il loro leader Pol Pot, formatosi negli ambienti «gauchiste» di Parigi e seguace di un comunismo alla cinese, sosteneva che la civiltà capitalista aveva corrotto l’umanità e che, per purgarla da questo morbo, bisognava sopprimere tutti gli individui «contaminati». Per questo il suo movimento, composto da giovani analfabeti reclutati nelle campagne cui era stato instillato l’odio per «l’uomo urbano», procedette al metodico sterminio di circa due milioni di persone (un terzo della popolazione), spesso accusati solo di portare gli occhiali: dopo essere stati rinchiusi in campi di concentramento come Tuol Seng, venivano torturati e poi inviati a morire nelle paludi dell’interno, come documentato dal famoso film «Urla dal silenzio».
In realtà, più della scontata condanna di Kaing, interessa constatare quanto il giudizio sui Khmer rossi sia mutato rispetto al periodo in cui egli commetteva i suoi misfatti. A metà degli anni Settanta, infatti, Pol Pot era portato in palma di mano da gran parte della sinistra europea. L’11 aprile del 1975, cioè prima dell’apertura di Tuol Seng, ma quando già si conoscevano le sue idee, il Comitato centrale del Pci (comprendente tra gli altri D’Alema, Napolitano e Bassolino) votò una risoluzione per esaltare «l’eroica resistenza dei popoli cambogiano e vietnamita» e invitare tutti i comunisti a «sviluppare un grande movimento di solidarietà e di appoggio ai combattenti». Molti intellettuali, compresi scrittori illustri come Tiziano Terzani, consideravano Pol Pot e i suoi Khmer rossi avanguardie della rivoluzione ed eroi della guerra contro gli «imperialisti americani» delle popolazioni indocinesi. Pensarla diversamente, anche quando il genocidio era già iniziato da tempo, era considerato un atteggiamento fascista. Quando il sottoscritto, allora direttore di Epoca, pubblicò nella primavera del 1976 con il titolo «Un massacro per la rivoluzione» il primo servizio fotografico che documentava i crimini del regime cambogiano, fu duramente contestato dal comitato di redazione e alla fine ci rimise addirittura il posto. Per quella sacrosanta rivoluzione - era la tesi dei compagni - non si potevano commettere massacri, al massimo si eliminava qualche traditore, e le immagini che dimostravano il contrario non potevano essere che falsi fabbricati dalla Cia. Ci vollero diversi anni, e innumerevoli quanto inconfutabili testimonianze, prima che anche i comunisti occidentali si decidessero ad ammettere che Pol Pot era solo un grande criminale. Più che a fare giustizia, la condanna del compagno Duch può essere utile per ricordare ai giovani che ancora sventolano bandiere rosse con falce e martello quanti crimini furono commessi in nome del comunismo, non solo nella versione europea, ma anche in quella asiatica, e come possa essere pericoloso seguire acriticamente le sirene della cosiddetta intelligentia di sinistra.
«Il Giornale» del 27 luglio 2010
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