Dopo anni di polemiche, l’Accademia di Svezia sceglie un narratore eccezionale che ha denunciato il disagio morale della modernità. Grandiosi affreschi storici ma anche temi eretico-sentimentali
di Gabriele Morelli
La notizia del premio Nobel a Mario Vargas Llosa dà lustro a tutta la letteratura ispanoamericana e premia un protagonista del boom editoriale degli anni Sessanta. Fautore del rinnovamento del romanzo moderno, lo scrittore peruviano, nato a Arequipa nel 1936, è assai noto sulla scena letteraria internazionale e ha anche preso parte alla vicenda politica del suo Paese, presentandosi come candidato alla presidenza della Repubblica; inoltre, in questi ultimi decenni, ha partecipato con coraggio - cioè da una posizione scomoda, «reazionaria» - al dibattito intorno alla realtà sociale del Nuovo Mondo.
L’universo narrativo di Vargas Llosa, impostosi con il racconto La città e i cani (1962) - un microcosmo adolescenziale abitato da un dispotismo rozzo e violento - è andato via via precisandosi in un atto d’accusa che, nell’invenzione di un adeguato registro linguistico, sperimenta moduli nuovi di espressione, crea continue sovrapposizioni di piani temporali e spaziali, nel fluire incessante di voci monologanti, al fine di restituire il senso di una concitazione quale documento di una situazione collettiva di disagio morale che l’autore denuncia con forza.
Così accade nel grandioso affresco disegnato da La casa verde (1966), il postribolo legato alla storia della città di Piura, e nel grande romanzo Conversazione nella Cattedrale (1969), dove la vicenda dell’editorialista Santiago Zavala s’incrocia con quella del negro Ambrosio, ex autista della famiglia, innescando una lunga conversazione a due voci, in cui i monologhi del passato si confondono con i dialoghi del presente, mentre scorrono i momenti salienti della vita reale insieme ai personaggi che alimentano il sottobosco della società dominata dalla dittatura militare.
Lucido sperimentatore di uno strumento linguistico che domina con grande perizia, Vargas Llosa propone storie di denuncia, ricorrendo a tecniche moderne costruite con sagacia tra il gioco e l’ironia, come documenta quel piccolo capolavoro di divertimento e gustoso umorismo che è il libro Pantaleón e le visitatrici (1973), che introduce materiali vivi, diretti: lettere commerciali, dispacci, relazioni burocratiche stilate dallo zelante capitano Pantaleón, incaricato di provvedere al servizio di allegre prostitute necessarie a «sfamare» la guarnigione militare di stanza nella regione amazzonica. Satira amena ma anche metafora amara che induce alla riflessione.
Con La zia Julia e lo scribacchino (1977), che ricalca il modello flaubertiano dell’«educazione sentimentale», continua la vena umoristica modellata sulla vicenda del giovane aspirante giornalista Varguitas - il diminutivo corrobora l’intento riduttivo -, innamorato perdutamente della zia Julia con la quale finirà per convolare a nozze, dopo un rocambolesco intreccio di incontri amorosi in armonia con il fitto intersecarsi del dialogo. Lo scrittore ci regala successivamente un’opera importante come La guerra della fine del mondo (1981), basata sul racconto di un’insurrezione religiosa, paradossalmente rivoluzionaria e al contempo reazionaria, avvenuta a fine ’800 nel Nordest del Brasile. Grande affresco realista, dove convivono personaggi mitici, come l’eremita populista il Consigliere, e folle anonime e tumultuanti di poveri diseredati. Il libro, che disegna uno straordinario quadro di avventure umane, raccontate in uno stile nitido ed elegante, dotato di grande forza verbale, conferma Vargas Llosa narratore d’eccezione, capace di utilizzare vari registri stilistici, senza mai abbandonare la tensione morale che anima la sua ricerca.
Dopo l’esperienza del romanzo poliziesco Chi uccise Palomino Molero (1986), nasce il libro Il caporale Lituma sulle Ande (1993), diretto a sondare il terreno della recente storia peruviana, in questo caso la guerriglia scatenata da Sendero Luminoso. La linea dell’esaltazione erotico-sentimentale, inaugurata con successo da Elogio della matrigna, ritorna nuovamente ne I quaderni di don Rigoberto (1997), in cui una storia triangolare si complica nella celebrazione del piacere e dell’istinto, sfidando la regola borghese nemica di ogni libertà.
Il romanzo La festa del Caprone segna invece il ritorno ai temi dell’impegno sociale e ci riporta nella cupa atmosfera della città di Santo Domingo, dominata dalla dittatura di Trujillo. Al contrario Il paradiso è altrove, del 2003, presenta due avventure che s’intrecciano, senza che l’una finisca per prevaricare o sovrapporsi all’altra: la prima è la storia appassionata di Flora Tristán, giovane donna che affronta terribili sofferenze in difesa dei principi femminili e dei diritti calpestati dei salariati; segue quindi l’esaltante avventura del pittore Paul Gauguin, che abbandona l’Europa per rifugiarsi in Polinesia. Due esperienze di vita che non coincidono nel tempo e nello spazio: Flora muore quarantunenne a Bordeaux nel 1844, Gauguin a Hiva Hoa nelle Isole Marchesi, a 55 anni, nel 1903. Entrambe le storie condividono la grande utopia di inseguire un mondo migliore, paradisiaco, che per la giovane Flores consiste in una società giusta; per Gauguin invece la visione liberatoria va cercata in un eden puro e incontaminato, lontano dalle convenzioni della società borghese. Le due avventure traducono insomma sollecitazioni diverse, nate da una medesima avversione alle regole imposte da una società ingiusta e violenta nella sensibilità della giovane donna, e in cui Paul vi coglie il pericolo di una minaccia latente contro la sua libertà creativa.
Anche il romanzo Avventure della ragazza cattiva (2006) propone due linee antinomiche rappresentate dalla vasta geografia planetaria (Santiago del Cile, Londra, Tokio, Madrid e Parigi, come centro di confluenza dove si colloca l’azione) e dall’unicità del sentimento d’amore (moderno, erotico, voyeuristico): al diffuso cosmopolitismo segnato dai grandi spazi si contrappone una centralità che riconduce all’io narrante, pago del suo grigio tenore di vita. Si tratta di un libro in cui si versa a grandi dosi la biografia dell’autore, con abbondanti intrusioni che forniscono puntigliosi riferimenti sul contesto sociologico e culturale dell’epoca. Ancora una volta s’impone la forza di una scrittura in cui l’autore presenta un racconto poco credibile nello sviluppo della trama esterna, ma profondamente vero nella realtà immaginativa ricreata dall’arte.
Grande inventore di storie, ma anche autore teatrale e straordinario critico e saggista (ricordiamo il recente Tra Sartre e Camus, edito da Scheiwiller), sempre presente con i suoi interventi sulla stampa mondiale, Vargas Llosa continua a essere uno scrittore attento, capace di continue sortite dallo spazio della sua terra natale per esplorare con determinazione la problematica esistenziale dell’uomo moderno, liberandolo da ogni forma di condizionamento ideologico e tabù morale.
L’universo narrativo di Vargas Llosa, impostosi con il racconto La città e i cani (1962) - un microcosmo adolescenziale abitato da un dispotismo rozzo e violento - è andato via via precisandosi in un atto d’accusa che, nell’invenzione di un adeguato registro linguistico, sperimenta moduli nuovi di espressione, crea continue sovrapposizioni di piani temporali e spaziali, nel fluire incessante di voci monologanti, al fine di restituire il senso di una concitazione quale documento di una situazione collettiva di disagio morale che l’autore denuncia con forza.
Così accade nel grandioso affresco disegnato da La casa verde (1966), il postribolo legato alla storia della città di Piura, e nel grande romanzo Conversazione nella Cattedrale (1969), dove la vicenda dell’editorialista Santiago Zavala s’incrocia con quella del negro Ambrosio, ex autista della famiglia, innescando una lunga conversazione a due voci, in cui i monologhi del passato si confondono con i dialoghi del presente, mentre scorrono i momenti salienti della vita reale insieme ai personaggi che alimentano il sottobosco della società dominata dalla dittatura militare.
Lucido sperimentatore di uno strumento linguistico che domina con grande perizia, Vargas Llosa propone storie di denuncia, ricorrendo a tecniche moderne costruite con sagacia tra il gioco e l’ironia, come documenta quel piccolo capolavoro di divertimento e gustoso umorismo che è il libro Pantaleón e le visitatrici (1973), che introduce materiali vivi, diretti: lettere commerciali, dispacci, relazioni burocratiche stilate dallo zelante capitano Pantaleón, incaricato di provvedere al servizio di allegre prostitute necessarie a «sfamare» la guarnigione militare di stanza nella regione amazzonica. Satira amena ma anche metafora amara che induce alla riflessione.
Con La zia Julia e lo scribacchino (1977), che ricalca il modello flaubertiano dell’«educazione sentimentale», continua la vena umoristica modellata sulla vicenda del giovane aspirante giornalista Varguitas - il diminutivo corrobora l’intento riduttivo -, innamorato perdutamente della zia Julia con la quale finirà per convolare a nozze, dopo un rocambolesco intreccio di incontri amorosi in armonia con il fitto intersecarsi del dialogo. Lo scrittore ci regala successivamente un’opera importante come La guerra della fine del mondo (1981), basata sul racconto di un’insurrezione religiosa, paradossalmente rivoluzionaria e al contempo reazionaria, avvenuta a fine ’800 nel Nordest del Brasile. Grande affresco realista, dove convivono personaggi mitici, come l’eremita populista il Consigliere, e folle anonime e tumultuanti di poveri diseredati. Il libro, che disegna uno straordinario quadro di avventure umane, raccontate in uno stile nitido ed elegante, dotato di grande forza verbale, conferma Vargas Llosa narratore d’eccezione, capace di utilizzare vari registri stilistici, senza mai abbandonare la tensione morale che anima la sua ricerca.
Dopo l’esperienza del romanzo poliziesco Chi uccise Palomino Molero (1986), nasce il libro Il caporale Lituma sulle Ande (1993), diretto a sondare il terreno della recente storia peruviana, in questo caso la guerriglia scatenata da Sendero Luminoso. La linea dell’esaltazione erotico-sentimentale, inaugurata con successo da Elogio della matrigna, ritorna nuovamente ne I quaderni di don Rigoberto (1997), in cui una storia triangolare si complica nella celebrazione del piacere e dell’istinto, sfidando la regola borghese nemica di ogni libertà.
Il romanzo La festa del Caprone segna invece il ritorno ai temi dell’impegno sociale e ci riporta nella cupa atmosfera della città di Santo Domingo, dominata dalla dittatura di Trujillo. Al contrario Il paradiso è altrove, del 2003, presenta due avventure che s’intrecciano, senza che l’una finisca per prevaricare o sovrapporsi all’altra: la prima è la storia appassionata di Flora Tristán, giovane donna che affronta terribili sofferenze in difesa dei principi femminili e dei diritti calpestati dei salariati; segue quindi l’esaltante avventura del pittore Paul Gauguin, che abbandona l’Europa per rifugiarsi in Polinesia. Due esperienze di vita che non coincidono nel tempo e nello spazio: Flora muore quarantunenne a Bordeaux nel 1844, Gauguin a Hiva Hoa nelle Isole Marchesi, a 55 anni, nel 1903. Entrambe le storie condividono la grande utopia di inseguire un mondo migliore, paradisiaco, che per la giovane Flores consiste in una società giusta; per Gauguin invece la visione liberatoria va cercata in un eden puro e incontaminato, lontano dalle convenzioni della società borghese. Le due avventure traducono insomma sollecitazioni diverse, nate da una medesima avversione alle regole imposte da una società ingiusta e violenta nella sensibilità della giovane donna, e in cui Paul vi coglie il pericolo di una minaccia latente contro la sua libertà creativa.
Anche il romanzo Avventure della ragazza cattiva (2006) propone due linee antinomiche rappresentate dalla vasta geografia planetaria (Santiago del Cile, Londra, Tokio, Madrid e Parigi, come centro di confluenza dove si colloca l’azione) e dall’unicità del sentimento d’amore (moderno, erotico, voyeuristico): al diffuso cosmopolitismo segnato dai grandi spazi si contrappone una centralità che riconduce all’io narrante, pago del suo grigio tenore di vita. Si tratta di un libro in cui si versa a grandi dosi la biografia dell’autore, con abbondanti intrusioni che forniscono puntigliosi riferimenti sul contesto sociologico e culturale dell’epoca. Ancora una volta s’impone la forza di una scrittura in cui l’autore presenta un racconto poco credibile nello sviluppo della trama esterna, ma profondamente vero nella realtà immaginativa ricreata dall’arte.
Grande inventore di storie, ma anche autore teatrale e straordinario critico e saggista (ricordiamo il recente Tra Sartre e Camus, edito da Scheiwiller), sempre presente con i suoi interventi sulla stampa mondiale, Vargas Llosa continua a essere uno scrittore attento, capace di continue sortite dallo spazio della sua terra natale per esplorare con determinazione la problematica esistenziale dell’uomo moderno, liberandolo da ogni forma di condizionamento ideologico e tabù morale.
«Il Giornale» dell'8 ottobre 2010
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