Un pezzo di classe dirigente usciva allo scoperto e diceva: il paese è pronto alla svolta. Per la prima volta si diffuse la speranza che si stesse aprendo una breccia ai vertici
di Federico Rampini
Era il 10 dicembre 2008, lo choc della novità a Pechino fece sperare che poteva aprirsi un'altra Tienanmen: stavolta una transizione pacifica, in una Cina più ricca, più moderna, matura per la democrazia. Era il giorno del sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite. Ricordo l'effetto-bomba che ebbe l'apparizione in simultanea su diversi siti Internet cinesi dell'appello di Carta 08, rimasto visibile per diversi giorni prima che intervenisse la censura.
E' quell'appello che in seguito Liu Xiaobo pagò con la condanna a undici anni di carcere di massimo isolamento, deportato a 500 chilometri da casa sua. Sotto la sigla "Difensori cinesi dei diritti umani" quel 10 dicembre di due anni fa c'era una lunga lista: più di 300 intellettuali. Non i "soliti noti", non solo cioè i dissidenti isolati e sorvegliati a vista, agli arresti domiciliari o costantemente pedinati dalla polizia. Quella volta tra i primi firmatari vidi apparire tanti "insider" del regime: professionisti stimati, avvocati di grido, scrittori e artisti non in odore di eresìa. Oltre a Liu c'era il noto giurista Mo Shaoping che disse: "Tutto quello che chiediamo, sta già scritto nella Costituzione della Repubblica Popolare". C'erano il professor Xu Youyu, docente all'Accademia delle Scienze sociali di Pechino; un celebre avvocato di Shanghai, Zheng Enchong; il giornalista Li Datong. E soprattutto c'era un ex dirigente della gioventù comunista: Zhang Zuhua, che vent'anni prima era stato coinvolto nella primavera democratica di Tienanmen, ma poi si era rifatto una "verginità" politica, era stato riabilitato, aveva legami forti con il partito. Perciò il dicembre 2008 sembrò aprire una fase nuova.
Non più un dissenso "di testimonianza", eroico e consapevole del proprio isolamento, votato alla sconfitta. Un pezzo di classe dirigente usciva allo scoperto e diceva: questo paese è pronto per il cambiamento. L'agenda del movimento si voleva riformista, usava il linguaggio dell'evoluzione graduale, non destabilizzante. "I valori di Carta 08 - aggiunse il giurista Mo - sono la libertà di stampa e di associazione, una giustizia indipendente, la libertà religiosa, la protezione dell'ambiente". Un ventaglio ampio di obiettivi, per tentare di unificare le variegate anime del dissenso cinese che in passato non erano mai riuscite a marciare unite: le minoranze etniche e religiose come i tibetani del Dalai Lama, gli uiguri guidati da Rebiya Kadeer, i cattolici della chiesa clandestina dai tanti vescovi e sacerdoti detenuti; gli intellettuali in esilio come gli scrittori Gao Xingjian e Ma Jian o gli ex di Tienanmen come Xiao Qiang; gli ambientalisti come la giornalista Dai Qing, i reporter impegnati nel giornalismo d'inchiesta. Liu Xiaobo sembrava in grado di ricomporre questo mosaico. Una sfida che per vent'anni tutti avevano fallito.
L'appello del 10 dicembre elencava 19 proposte dettagliate: per la separazione autentica dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario; per superare il monopolio di potere del partito unico. Sempre echeggiando letteralmente il dettato costituzionale. Per questo si diffuse la speranza, per la prima volta dopo vent'anni, che si stesse aprendo una breccia ai vertici della nomenklatura comunista. La data era cruciale. Era la vigilia del "Natale della recessione". L'America e l'Europa erano sprofondate nella grande crisi, le esportazioni cinesi stavano crollando. Dai tempi di Deng Xiaoping e delle sue riforme di mercato, mai la Cina era stata così vulnerabile: ormai completamente integrata nell'economia globale, ne scopriva l'altra faccia, con la violenza di una tempesta finanziaria che rischiava di travolgerla. Gli ordinativi della vigilia di Natale si assottigliavano, decine di fabbriche da Shanghai a Canton chiudevano i battenti e licenziavano gli operai, iniziava un contro-esodo dalle città verso le campagne. Fu un momento di grande fragilità, poteva spezzarsi di colpo il grande patto sociale su cui si regge il paternalismo autoritario del regime: la rinuncia alle libertà politiche e di espressione in cambio di un costante arricchimento materiale diffuso a vasti strati della popolazione. Liu e gli altri promotori di Carta 08 avevano scelto quella crisi per uscire allo scoperto.
La reazione del governo fu durissima: decine di poliziotti in casa sua, la linea del telefono tagliata, i suoi computer sequestrati, l'arresto immediato con l'accusa di sovversione dello Stato. Tutto questo mentre il portavoce degli Esteri, interrogato da noi corrispondenti, fingeva di ignorare l'operazione di polizia: "Sono scettico, la libertà di espressione è garantita e nessun cinese verrebbe punito per l'esercizio di un diritto". Eppure, un mese dopo che su Liu si era accanita la repressione, nel gennaio 2009 i firmatari di Carta 08 si erano moltiplicati per venti: 7.000 in tutto, tra cui non pochi funzionari di governo. L'appello era apparso, sia pure furtivamente e per periodi brevi, su 300.000 blog. Ma l'apparato della censura continuava il suo lavoro. A gennaio il Dipartimento centrale di propaganda diramava a tutti i mezzi d'informazione l'ordine tassativo di ignorare quel manifesto, più il divieto di ospitare articoli da parte di chiunque lo avesse sottoscritto. Il blog Bullog veniva silenziato, due blogger popolari, Ran Yunfei e Bao Zuitun, venivano sanzionati.
Il seguito è stato amaro per i promotori di Carta 08. La macchina del capitalismo di Stato ha retto la prova della crisi occidentale, la Cina ha schivato la recessione, 500 miliardi di euro di nuovi investimenti hanno rilanciato la crescita. E nel mondo dei dissidenti sono riaffiorate per inerzia le antiche divisioni. A poche ore dalla decisione di Oslo, quando ormai filtravano le prime indiscrezioni, alcuni dissidenti cinesi all'estero tra cui Lu Decheng (noto per avere scagliato uova sul ritratto di Mao a piazza Tienanmen) hanno firmato un appello contro la premiazione di Liu Xiaobo. Lo accusano di non avere difeso i diritti di Falun Gong, la setta religiosa perseguitata dal regime. La guerra intestina è ricominciata, i regolamenti di conti tradiscono la debolezza del dissenso. Il clamore internazionale del Nobel non basta finché l'opposizione interna non ha una cabina di regìa. Quello doveva essere il ruolo di Carta 08, pareva a portata di mano appena due anni fa, ora sembra passata un'eternità.
E' quell'appello che in seguito Liu Xiaobo pagò con la condanna a undici anni di carcere di massimo isolamento, deportato a 500 chilometri da casa sua. Sotto la sigla "Difensori cinesi dei diritti umani" quel 10 dicembre di due anni fa c'era una lunga lista: più di 300 intellettuali. Non i "soliti noti", non solo cioè i dissidenti isolati e sorvegliati a vista, agli arresti domiciliari o costantemente pedinati dalla polizia. Quella volta tra i primi firmatari vidi apparire tanti "insider" del regime: professionisti stimati, avvocati di grido, scrittori e artisti non in odore di eresìa. Oltre a Liu c'era il noto giurista Mo Shaoping che disse: "Tutto quello che chiediamo, sta già scritto nella Costituzione della Repubblica Popolare". C'erano il professor Xu Youyu, docente all'Accademia delle Scienze sociali di Pechino; un celebre avvocato di Shanghai, Zheng Enchong; il giornalista Li Datong. E soprattutto c'era un ex dirigente della gioventù comunista: Zhang Zuhua, che vent'anni prima era stato coinvolto nella primavera democratica di Tienanmen, ma poi si era rifatto una "verginità" politica, era stato riabilitato, aveva legami forti con il partito. Perciò il dicembre 2008 sembrò aprire una fase nuova.
Non più un dissenso "di testimonianza", eroico e consapevole del proprio isolamento, votato alla sconfitta. Un pezzo di classe dirigente usciva allo scoperto e diceva: questo paese è pronto per il cambiamento. L'agenda del movimento si voleva riformista, usava il linguaggio dell'evoluzione graduale, non destabilizzante. "I valori di Carta 08 - aggiunse il giurista Mo - sono la libertà di stampa e di associazione, una giustizia indipendente, la libertà religiosa, la protezione dell'ambiente". Un ventaglio ampio di obiettivi, per tentare di unificare le variegate anime del dissenso cinese che in passato non erano mai riuscite a marciare unite: le minoranze etniche e religiose come i tibetani del Dalai Lama, gli uiguri guidati da Rebiya Kadeer, i cattolici della chiesa clandestina dai tanti vescovi e sacerdoti detenuti; gli intellettuali in esilio come gli scrittori Gao Xingjian e Ma Jian o gli ex di Tienanmen come Xiao Qiang; gli ambientalisti come la giornalista Dai Qing, i reporter impegnati nel giornalismo d'inchiesta. Liu Xiaobo sembrava in grado di ricomporre questo mosaico. Una sfida che per vent'anni tutti avevano fallito.
L'appello del 10 dicembre elencava 19 proposte dettagliate: per la separazione autentica dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario; per superare il monopolio di potere del partito unico. Sempre echeggiando letteralmente il dettato costituzionale. Per questo si diffuse la speranza, per la prima volta dopo vent'anni, che si stesse aprendo una breccia ai vertici della nomenklatura comunista. La data era cruciale. Era la vigilia del "Natale della recessione". L'America e l'Europa erano sprofondate nella grande crisi, le esportazioni cinesi stavano crollando. Dai tempi di Deng Xiaoping e delle sue riforme di mercato, mai la Cina era stata così vulnerabile: ormai completamente integrata nell'economia globale, ne scopriva l'altra faccia, con la violenza di una tempesta finanziaria che rischiava di travolgerla. Gli ordinativi della vigilia di Natale si assottigliavano, decine di fabbriche da Shanghai a Canton chiudevano i battenti e licenziavano gli operai, iniziava un contro-esodo dalle città verso le campagne. Fu un momento di grande fragilità, poteva spezzarsi di colpo il grande patto sociale su cui si regge il paternalismo autoritario del regime: la rinuncia alle libertà politiche e di espressione in cambio di un costante arricchimento materiale diffuso a vasti strati della popolazione. Liu e gli altri promotori di Carta 08 avevano scelto quella crisi per uscire allo scoperto.
La reazione del governo fu durissima: decine di poliziotti in casa sua, la linea del telefono tagliata, i suoi computer sequestrati, l'arresto immediato con l'accusa di sovversione dello Stato. Tutto questo mentre il portavoce degli Esteri, interrogato da noi corrispondenti, fingeva di ignorare l'operazione di polizia: "Sono scettico, la libertà di espressione è garantita e nessun cinese verrebbe punito per l'esercizio di un diritto". Eppure, un mese dopo che su Liu si era accanita la repressione, nel gennaio 2009 i firmatari di Carta 08 si erano moltiplicati per venti: 7.000 in tutto, tra cui non pochi funzionari di governo. L'appello era apparso, sia pure furtivamente e per periodi brevi, su 300.000 blog. Ma l'apparato della censura continuava il suo lavoro. A gennaio il Dipartimento centrale di propaganda diramava a tutti i mezzi d'informazione l'ordine tassativo di ignorare quel manifesto, più il divieto di ospitare articoli da parte di chiunque lo avesse sottoscritto. Il blog Bullog veniva silenziato, due blogger popolari, Ran Yunfei e Bao Zuitun, venivano sanzionati.
Il seguito è stato amaro per i promotori di Carta 08. La macchina del capitalismo di Stato ha retto la prova della crisi occidentale, la Cina ha schivato la recessione, 500 miliardi di euro di nuovi investimenti hanno rilanciato la crescita. E nel mondo dei dissidenti sono riaffiorate per inerzia le antiche divisioni. A poche ore dalla decisione di Oslo, quando ormai filtravano le prime indiscrezioni, alcuni dissidenti cinesi all'estero tra cui Lu Decheng (noto per avere scagliato uova sul ritratto di Mao a piazza Tienanmen) hanno firmato un appello contro la premiazione di Liu Xiaobo. Lo accusano di non avere difeso i diritti di Falun Gong, la setta religiosa perseguitata dal regime. La guerra intestina è ricominciata, i regolamenti di conti tradiscono la debolezza del dissenso. Il clamore internazionale del Nobel non basta finché l'opposizione interna non ha una cabina di regìa. Quello doveva essere il ruolo di Carta 08, pareva a portata di mano appena due anni fa, ora sembra passata un'eternità.
«La Repubblica» del 9 ottobre 2010
Nessun commento:
Posta un commento