di Giuseppe Conte
Questa volta nessuno dirà che l’Accademia di Svezia ha incoronato uno sconosciuto. Da qualche anno ritorna questo giudizio, che in Italia è stato incredibilmente ripetuto anche a proposito di Le Clézio, un autore popolarissimo al di là della frontiera. E nessuno dirà che l’Accademia di Svezia premia invariabilmente un impegno politico orientato a sinistra. Mario Vargas Llosa, il Nobel di quest’anno, è un grande scrittore conosciuto, apprezzato, premiato, tradotto anche da noi. E Vargas Llosa è certo un autore che ha fatto dell’impegno politico la sua bandiera, tanto da presentarsi come difensore dei valori democratici alle elezioni presidenziali in Perù, ma non è oggi una delle voci con cui parla la sinistra intellettuale internazionale. Il suo percorso porta da Sartre a Camus. Dopo una giovinezza sartriana a Parigi, si è sempre più spostato verso una posizione anticonformistica tesa a mettere in luce il valore della resistenza individuale alla barbarie e l’importanza risolutiva dei diritti umani, ancora calpestati in tanti paesi. Si diceva che dopo tanti anni di prosa, questo sarebbe stato l’anno della poesia. Giravano nomi di candidati eccellenti. Ma evidentemente i giurati del Nobel non stanno a distinguere tra generi letterari. Noi italiani ne abbiamo avuto la prova, quando il premio toccò a Dario Fo, né poeta né romanziere, ma teatrante di successo planetario. Quanto alla geopolitica, l’America latina non ha avuto tanti Nobel, a dispetto della ricchezza della sua letteratura. Prima di Vargas Llosa, il premio toccò a Garcia Marquez. Jorge Luis Borges non lo ricevette, neppure quando molti (io tra questi) lo reputavano il massimo scrittore vivente al mondo. Su di lui valsero generiche interdizioni politiche, come precedentemente su Ungaretti. Il premiato di quest’anno è un peruviano che si è formato in Europa e che vive da molto in Europa. Il suo lavoro letterario, dagli esordi di «La città e i cani» sino agli ultimi grandi romanzi, risente della energia immaginativa, fantastica, stilistica del suo continente. E insieme, rigorosamente, risente delle migliori espressioni della cultura europea. Ho letto tra i suoi ultimi libri «La festa del Caprone» e «Il paradiso è altrove». E sono rimasto colpito da come una rara robustezza narrativa e profonde riflessioni sul senso del potere, della libertà, dell’utopia, del sogno, della disillusione convivano nelle pagine di questi romanzi. Il Nobel va a un autore completo. Un autore che si rivolge alle nostre fantasie ma anche al nostro intelletto. Al nostro gusto estetico e alla nostra sensibilità etica. Che mostra come il romanzo non sia un genere di pura evasione, come troppi tendono a credere. Il Nobel poteva sicuramente andare al siriano Adonis, al coreano Ko Un, poeti di cui ho spesso ammirato, incontrandoli e leggendoli, l’energia spirituale. È andato a un occidentale. Ma a uno di quelli che non odiano l’Occidente, spesso inspiegabilmente preda di un odio per se stesso, come notava in un passaggio di cruciale rilievo Benedetto XVI. È andato a un autore che critica l’Occidente, perché sa che la critica è la sua forza, ma che non rinuncia mai a pensarlo come il baluardo più forte per difendere i valori supremi e inalienabili dei diritti umani per tutti e del primato della persona.
«Avvenire» dell'8 ottobre 2010
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