di Anna Foa
La recente polemica aperta da Lucetta Scaraffia su «Il Sole» nei confronti del Dizionario del sapere storicoreligioso del Novecento (Il Mulino) curato da Alberto Melloni ha riportato a galla la questione del rapporto tra ostilità antiebraica e antisemitismo. Una questione che aveva dato esito a dispute storiografiche assai aspre nel passato ma che recentemente sembrava essersi composta in una visione che fa spazio alle differenze tra l’antigiudaismo cattolico e l’antisemitismo di matrice razzista e nazista, pur sottolineando sia il ruolo del secolare insegnamento cattolico del disprezzo, per usare la calzante espressione di Jules Isaac, sia i momenti in cui l’antigiudaismo tradizionale ha lasciato spazio ad una visione immutabile della natura degli ebrei. La voce «Shoah» redatta in quest’opera del teologo americano Donald J. Dietrich ci propone però un’immagine radicalmente diversa,«che non credo rifletta il panorama degli studi, nonostante si tratti di una voce di dizionario, volta quindi per sua natura a dar conto delle opinioni prevalenti. L’autore sceglie infatti preliminarmente di usare il termine antisemitismo a proposito di tutta l’ostilità antiebraica nei secoli. Ma davvero non c’è differenza tra gli articoli pubblicati alla fine dell’Ottocento dalla «Civiltà Cattolica »sulle accuse di omicidio rituale e le bolle con cui i papi del XIII secolo le consideravano falsità? O fra l’istituzione del ghetto, per quanto deprecabile essa sia stata, e la Shoah? E davvero la Chiesa si è 'fermata' molto prima della distruzione finale, il che sembra suggerire una distinzione solo di gradi fra Paolo IV e Hitler, o l’intento della Chiesa e quello dei nazisti erano qualitativamente diversi? Davvero la cultura della razza, che Dietrich non nomina quasi, non ha mutato che marginalmente l’antisemitismo del primo Novecento? Credo che nessuno storico degno di questo nome potrebbe sostenere tesi simili. Senza contare che in quest’ottica si trascura di valutare quello che la storiografia chiama effettivamente 'antisemitismo cattolico', cioè l’antisemitismo venato di polemica antiemancipazionista e aperto a suggestioni razziste, espresso dalla Chiesa solo dopo gli anni Settanta dell’Ottocento. Ma, siccome la maggior parte della voce di Dietrich non tratta poi della Shoah, ma dell’effetto della Shoah sulla Chiesa cattolica, esco dalla sua lettura con la sensazione paradossale che la Shoah sia stata in realtà un fenomeno 'positivo', perché ha avuto l’effetto di trasformare radicalmente e positivamente la teologia e la morale cristiana. E, secondo l’autore, anche quella ebraica, tema che credo susciterebbe molte discussioni fra i rabbini. Perdonate la mia ottica limitata da ebrea, per di più laica, ma non riesco a vedere nella Shoah nessuna mano di Dio o nessuna eterogenesi dei fini. Ma forse è proprio l’ottica completamente interna al cattolicesimo in cui Dietrich riassorbe lo sterminio di sei milioni di ebrei a determinare la sua tendenza a fare di tutt’erba un fascio, e a definire 'antisemitismo' ogni forma di ostilità antiebraica. E’ naturale che ciascuno collochi l’accento sulla propria storia e ne sottolinei con più forza le pecche. Ma non si accorge che in questo modo, sia pur con un segno diverso, l’ebreo resta quello che era, cioè un mero simbolo nell’economia cristiana della salvezza, uno specchio in cui riflettere l’identità del cristiano e della Chiesa?
«Avvenire» del 2 ottobre 2010
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