di Luigi Mascheroni
Pensavamo che il caso di Sara Scazzi avesse esaurito tutta la propria violenza e il proprio orrore.
Pensavamo che dopo la notizia del ritrovamento del cadavere in diretta televisiva, di fronte a una madre che non poteva comprendere la morte della figlia e incapace di intendere e di scegliere se restare o no in quella trasmissione, dopo la scoperta della verità insostenibile di un omicidio consumato in famiglia, dopo la confessione dell’orco, dopo la riesumazione del cadavere martirizzato della ragazza, dopo la rivelazione della violenza post mortem - dopo tutto questo pensavamo che il fondo del pozzo, fisico e metaforico, fosse stato toccato.
Poi abbiamo saputo anche i particolari dell’orrore, abbiamo letto i verbali dell’interrogatorio dell’assassino, il quale ha confessato di essere addirittura tornato sulla «tomba» di Sara per pregare. Abbiamo assistito sgomenti nelle vie di Avetrana alle grida «a morte, a morte» e nelle strade della Rete a gruppi di sostegno all’assassino. Abbiamo vissuto una lunga e insostenibile rielaborazione televisiva del lutto 24 ore su 24, un canale dopo l’altro, una trasmissione dietro l’altra. Abbiamo accettato come sempre accade in questi casi gli insopportabili applausi alla bara e all’innocenza della vittima. Abbiamo persino accettato, in una ancor meno tollerabile «moviola del dolore», di ascoltare le cugine di Sara intervistate, a cadavere caldo, «in esclusiva a Domenica 5» (!), e dire: siamo contrarie alla pena di morte, nostro padre deve pagare giorno per giorno, lentamente, per quello che ha fatto.
Pensavamo di avere sopportato tutto, per pietà. E invece.
E invece il grado cui è capace di piegarsi l’orrore è superiore alla realtà, al reality, alla stessa irrealtà, cioè l’immaginazione.
Ieri si è saputo che un profilo su Facebook, attribuito a «Sarino Scazzi», aveva come foto il cadavere di una ragazzina bionda, steso su un tavolo di ferro: il corpo di Sara Scazzi fotografato nell’obitorio dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto. A segnalare ai carabinieri la macabra fotografia è stato un frequentatore di Facebook: i militari hanno avuto appena il tempo di visionare la foto - ritenuta «plausibilmente vera» - prima che venisse rimossa.
Alla stessa madre di Sara, Concetta Spagnolo, al momento del riconoscimento della figlia all’ospedale, non è stato mostrato il cadavere a causa delle terribili condizioni di conservazione dopo oltre quaranta giorni di permanenza nella cisterna. «È meglio che lei ricordi sua figlia com’era», le è stato pietosamente consigliato.
Chi può avere immesso nella rete un’immagine così ripugnante? E perché?
La notizia genera il «giallo». Il «giallo» accende la polemica. La polemica spegne ogni umanità. E aggiungere altre parole, azzardare un ennesimo commento, tentare una qualsiasi spiegazione diventa banale, retorico. Se fatto su un giornale, addirittura ipocrita, come non può non suonare ipocrita chiedere silenzio alzando il tono dell’indignazione.
Vera o falsa che sia la fotografia. Pazzo o sciacallo che sia l’autore. Ultima frontiera del voyeurismo necrofilo o macabra beffa che sia l’immagine su Internet. Qualsiasi cosa sia ciò cui ci troviamo di fronte, ormai anche l’ultima barriera morale, fisica, sociale, psicologica, si potrebbe dire antropologica, è crollata. Su queste stesse pagine, il giorno della confessione dell’orco, di fronte a quella che credevamo essere l’ultima pagina di questa storia nera, ci si è domandati, ingenuamente: «Che cosa c’è più di questo?», aggiungendo che il caso di Sara Scazzi è ormai il termine di paragone che accompagnerà la cronaca nera del futuro, un precedente perenne, ma irripetibile per dinamica, follia, depravazione. Sbagliavamo.
L’orrore - come insegna la letteratura, la realtà, la televisione e Internet - non conosce limiti. Ed è per questo che dopo la notizia di ieri non abbiamo il coraggio di chiederci se è immaginabile qualcosa di peggiore dell’affissione, sulla bacheca più letta e frequentata del mondo, della foto del cadavere di una ragazzina strangolata e violentata da morta, mentre le sue cugine, che la piazza accusa di complicità con l’assassino, chiedono in diretta televisiva, in un salotto domenicale, la pena eterna del carcere per il proprio padre.
Non ce lo chiediamo, perché oltre non c’è neppure un nuovo orrore. C’è il baratro del nulla. E noi stiamo allegramente passeggiando sull’orlo.
Pensavamo che dopo la notizia del ritrovamento del cadavere in diretta televisiva, di fronte a una madre che non poteva comprendere la morte della figlia e incapace di intendere e di scegliere se restare o no in quella trasmissione, dopo la scoperta della verità insostenibile di un omicidio consumato in famiglia, dopo la confessione dell’orco, dopo la riesumazione del cadavere martirizzato della ragazza, dopo la rivelazione della violenza post mortem - dopo tutto questo pensavamo che il fondo del pozzo, fisico e metaforico, fosse stato toccato.
Poi abbiamo saputo anche i particolari dell’orrore, abbiamo letto i verbali dell’interrogatorio dell’assassino, il quale ha confessato di essere addirittura tornato sulla «tomba» di Sara per pregare. Abbiamo assistito sgomenti nelle vie di Avetrana alle grida «a morte, a morte» e nelle strade della Rete a gruppi di sostegno all’assassino. Abbiamo vissuto una lunga e insostenibile rielaborazione televisiva del lutto 24 ore su 24, un canale dopo l’altro, una trasmissione dietro l’altra. Abbiamo accettato come sempre accade in questi casi gli insopportabili applausi alla bara e all’innocenza della vittima. Abbiamo persino accettato, in una ancor meno tollerabile «moviola del dolore», di ascoltare le cugine di Sara intervistate, a cadavere caldo, «in esclusiva a Domenica 5» (!), e dire: siamo contrarie alla pena di morte, nostro padre deve pagare giorno per giorno, lentamente, per quello che ha fatto.
Pensavamo di avere sopportato tutto, per pietà. E invece.
E invece il grado cui è capace di piegarsi l’orrore è superiore alla realtà, al reality, alla stessa irrealtà, cioè l’immaginazione.
Ieri si è saputo che un profilo su Facebook, attribuito a «Sarino Scazzi», aveva come foto il cadavere di una ragazzina bionda, steso su un tavolo di ferro: il corpo di Sara Scazzi fotografato nell’obitorio dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto. A segnalare ai carabinieri la macabra fotografia è stato un frequentatore di Facebook: i militari hanno avuto appena il tempo di visionare la foto - ritenuta «plausibilmente vera» - prima che venisse rimossa.
Alla stessa madre di Sara, Concetta Spagnolo, al momento del riconoscimento della figlia all’ospedale, non è stato mostrato il cadavere a causa delle terribili condizioni di conservazione dopo oltre quaranta giorni di permanenza nella cisterna. «È meglio che lei ricordi sua figlia com’era», le è stato pietosamente consigliato.
Chi può avere immesso nella rete un’immagine così ripugnante? E perché?
La notizia genera il «giallo». Il «giallo» accende la polemica. La polemica spegne ogni umanità. E aggiungere altre parole, azzardare un ennesimo commento, tentare una qualsiasi spiegazione diventa banale, retorico. Se fatto su un giornale, addirittura ipocrita, come non può non suonare ipocrita chiedere silenzio alzando il tono dell’indignazione.
Vera o falsa che sia la fotografia. Pazzo o sciacallo che sia l’autore. Ultima frontiera del voyeurismo necrofilo o macabra beffa che sia l’immagine su Internet. Qualsiasi cosa sia ciò cui ci troviamo di fronte, ormai anche l’ultima barriera morale, fisica, sociale, psicologica, si potrebbe dire antropologica, è crollata. Su queste stesse pagine, il giorno della confessione dell’orco, di fronte a quella che credevamo essere l’ultima pagina di questa storia nera, ci si è domandati, ingenuamente: «Che cosa c’è più di questo?», aggiungendo che il caso di Sara Scazzi è ormai il termine di paragone che accompagnerà la cronaca nera del futuro, un precedente perenne, ma irripetibile per dinamica, follia, depravazione. Sbagliavamo.
L’orrore - come insegna la letteratura, la realtà, la televisione e Internet - non conosce limiti. Ed è per questo che dopo la notizia di ieri non abbiamo il coraggio di chiederci se è immaginabile qualcosa di peggiore dell’affissione, sulla bacheca più letta e frequentata del mondo, della foto del cadavere di una ragazzina strangolata e violentata da morta, mentre le sue cugine, che la piazza accusa di complicità con l’assassino, chiedono in diretta televisiva, in un salotto domenicale, la pena eterna del carcere per il proprio padre.
Non ce lo chiediamo, perché oltre non c’è neppure un nuovo orrore. C’è il baratro del nulla. E noi stiamo allegramente passeggiando sull’orlo.
«Il Giornale» dell'11 ottobre 2010
Nessun commento:
Posta un commento