Il terreno primario comune di ogni nazione del mondo è la lingua. Fu il poeta a ridare centralità a Roma in chiave cattolica ma non clericale e a creare un mito di fondazione condiviso
di Marcello Veneziani
Risorgimentali e antirisorgimentali, mettetevi l’anima in pace. L’Italia non l’ha fatta Garibaldi, e nemmeno Cavour o Vittorio Emanuele. L’ha fatta la geografia, l’ha fatta la storia, l’ha fatta la letteratura. Ma se cercate il fondatore, se avete bisogno di un padre, un Enea per l’Italia, allora quel Fondatore non fu un condottiero, ma un poeta. L’Italia fu fatta da Dante Alighieri. Fu lui a dare dignità al terreno primario e comune di una nazione, la lingua. Fu lui a riannodare l’Impero e il Papato, cioè la civiltà cristiana e la civiltà romana, riconoscendoli come i genitori dell’Italia. Ebbero altri figli, certamente, ma la figlia che ereditò la casa paterna e materna fu l’Italia.
Certo, Dante vaticinava una monarchia universale, ma fu il primo a considerare il fulcro di una rinascenza in Roma, nell’Italia cattolica ma non clericale, dove l’Impero ha dignità pari a quella del Papato. E fu ancora Dante a creare un mito di fondazione e una narrazione su cui costruire l’Italia, e a cercare un Veltro che la unisse da «feltro a feltro», come egli scrisse, «di quell’umile Italia fia salute»; alimentando così un’aspettativa che altri letterati - da Petrarca a Machiavelli, da Alfieri a Foscolo e Leopardi - poi coltivarono. La nostra è una nazione culturale, nata non con la forza delle armi, ma con la forza della poesia; per questo l’Italia è uno Stato fragile, ma un’identità forte. Tuttora, al di là di tutto, la dignità universale dell’Italia non è di natura commerciale o industriale, militare o tecnologica, ma culturale: si studia l’Italiano per ragioni culturali, si viene in Italia per ragioni culturali, si considera l’Italia per ragioni culturali.
L’espressione stessa usata per indicare il processo unitario del nostro Paese, Risorgimento, non ha una genesi politica o militare, ma religiosa e letteraria, allude alla Resurrezione e insieme ad una letteratura, dal gesuita Saverio Bettarelli che la usò per primo a Gioberti, da Alfieri a Leopardi con la poesia Il risorgimento, in cui l’espressione ha un significato esistenziale e religioso. Solo dopo arriverà il Risorgimento politico di Balbo e Cavour. Da dove viene fuori quest’apologia di Dante come profeta dell’Italia? Sì, da un intreccio di ricorrenze e polemiche, tra i 150 anni dell’unità d’Italia e i sette secoli del De Monarchia di Dante, di cui peraltro è indefinita l’effettiva data.
Ma viene fuori anche dall’ultimo filosofo italiano che pensò l’Italia dentro la sua tradizione civile e religiosa, e la pensò a partire da Dante. Parlo di Augusto del Noce, di cui mi sono più volte occupato, anche sul Giornale. L’altro giorno si è svolto a Pistoia, sua città nativa, un convegno a lui dedicato in occasione del centenario della nascita, ed io ho parlato di lui come del filosofo del Risorgimento, ma di un Risorgimento dantesco, oltre che giobertiano. Per fondare la sua idea dantesca d’Italia, Del Noce si rifece a due autori: Giacomo Noventa e Giovanni Gentile. Il primo si oppose alla linea idealistica-hegeliana di Spaventa, De Sanctis e Croce che leggeva l’unità d’Italia attraverso la nascita dello Stato unitario. Una lettura strettamente politica del Risorgimento, che rinveniva al più in Machiavelli il suo predecessore, ma in quanto pensatore e segretario di Stato. Secondo Noventa, invece, fu Dante a fondare l’idea dell’Italia sulla tradizione romana e cattolica, mediterranea e poetica. Ma fu soprattutto Gentile, in uno scritto del 1918, a vedere in Dante il profeta dell’Italia risorgimentale e moderna. Egli riconobbe in Dante non solo il sommo poeta, ma anche il filosofo. La sua divergenza da Croce fu netta. Di solito la si riconduce sul piano storico al dissidio tra fascismo e antifascismo e sul piano filosofico al divario tra il razionalismo liberale di Croce e l’irrazionalismo «mistico» di Gentile.
Ma sfugge una differenza essenziale: Croce, che pure non era accademico, tenne fuori dalla filosofia Marx da un verso e Dante e Leopardi dall’altro; ritenendo il primo uno scrittore politico ed un critico dell’economia e i secondi due eminenti poeti, ma trascurabili pensatori. Gentile che pure era accademico, al contrario riconobbe a Marx da un verso, ma anche a Dante e Leopardi, dignità e potenza di filosofi e di profeti. A Croce sfuggiva da un verso la ragione profonda dell’internazionalismo marxista e del materialismo storico e dialettico. E dall’altro la matrice poetica del pensiero italiano che passa attraverso grandi poeti-filosofi (anche Petrarca, per altri versi) e grandi pensatori che riconobbero dignità al pensiero poetante, come Vico. Il Vico di Croce è tutto nella storia ed è gravido dell’Ottocento (lui lo definì infatti secolo XIX in germe); il Vico di Gentile è tutto nel pensiero ed è gravido dell’Italia nuova.
A questa tradizione si rifà Augusto del Noce. Lui, cattolico, si riconobbe nella linea di Gentile discesa da Dante. Una linea non laica ma ghibellina (anche se Dante fu guelfo bianco, benché definito da Foscolo «ghibellin fuggiasco»); ed una linea che senza cedere al neopaganesimo e all’idolatria dello Stato (che fu di Gentile fascista), riconosceva una connotazione religiosa al processo unitario. Il Risorgimento è la nostra Riforma morale e civile, diceva Del Noce, richiamando Noventa e Gentile. L’idea di Riforma in Del Noce si trasferisce dal piano religioso-ecclesiale del luteranesimo a quello storico-politico del Risorgimento. Un pensiero originale che riesce a trovare un punto d’intesa fra Tradizione e Risorgimento e che concepisce il Risorgimento come categoria distinta tanto da «rivoluzione» che da «reazione». Del Noce vedeva la ripresa del Risorgimento come compito dei nostri anni e immaginava, quando ancora non si era formata l’Unione Europea, una riscoperta dell’Italia «dopo l’Europa», cioè non regredendo all’epoca delle nazioni e dei nazionalismi, ma procedendo oltre, nell’epoca degli incontri e degli scontri di civiltà. Un pensiero italiano e risorgimentale che ancora non trova destinatari.
Certo, Dante vaticinava una monarchia universale, ma fu il primo a considerare il fulcro di una rinascenza in Roma, nell’Italia cattolica ma non clericale, dove l’Impero ha dignità pari a quella del Papato. E fu ancora Dante a creare un mito di fondazione e una narrazione su cui costruire l’Italia, e a cercare un Veltro che la unisse da «feltro a feltro», come egli scrisse, «di quell’umile Italia fia salute»; alimentando così un’aspettativa che altri letterati - da Petrarca a Machiavelli, da Alfieri a Foscolo e Leopardi - poi coltivarono. La nostra è una nazione culturale, nata non con la forza delle armi, ma con la forza della poesia; per questo l’Italia è uno Stato fragile, ma un’identità forte. Tuttora, al di là di tutto, la dignità universale dell’Italia non è di natura commerciale o industriale, militare o tecnologica, ma culturale: si studia l’Italiano per ragioni culturali, si viene in Italia per ragioni culturali, si considera l’Italia per ragioni culturali.
L’espressione stessa usata per indicare il processo unitario del nostro Paese, Risorgimento, non ha una genesi politica o militare, ma religiosa e letteraria, allude alla Resurrezione e insieme ad una letteratura, dal gesuita Saverio Bettarelli che la usò per primo a Gioberti, da Alfieri a Leopardi con la poesia Il risorgimento, in cui l’espressione ha un significato esistenziale e religioso. Solo dopo arriverà il Risorgimento politico di Balbo e Cavour. Da dove viene fuori quest’apologia di Dante come profeta dell’Italia? Sì, da un intreccio di ricorrenze e polemiche, tra i 150 anni dell’unità d’Italia e i sette secoli del De Monarchia di Dante, di cui peraltro è indefinita l’effettiva data.
Ma viene fuori anche dall’ultimo filosofo italiano che pensò l’Italia dentro la sua tradizione civile e religiosa, e la pensò a partire da Dante. Parlo di Augusto del Noce, di cui mi sono più volte occupato, anche sul Giornale. L’altro giorno si è svolto a Pistoia, sua città nativa, un convegno a lui dedicato in occasione del centenario della nascita, ed io ho parlato di lui come del filosofo del Risorgimento, ma di un Risorgimento dantesco, oltre che giobertiano. Per fondare la sua idea dantesca d’Italia, Del Noce si rifece a due autori: Giacomo Noventa e Giovanni Gentile. Il primo si oppose alla linea idealistica-hegeliana di Spaventa, De Sanctis e Croce che leggeva l’unità d’Italia attraverso la nascita dello Stato unitario. Una lettura strettamente politica del Risorgimento, che rinveniva al più in Machiavelli il suo predecessore, ma in quanto pensatore e segretario di Stato. Secondo Noventa, invece, fu Dante a fondare l’idea dell’Italia sulla tradizione romana e cattolica, mediterranea e poetica. Ma fu soprattutto Gentile, in uno scritto del 1918, a vedere in Dante il profeta dell’Italia risorgimentale e moderna. Egli riconobbe in Dante non solo il sommo poeta, ma anche il filosofo. La sua divergenza da Croce fu netta. Di solito la si riconduce sul piano storico al dissidio tra fascismo e antifascismo e sul piano filosofico al divario tra il razionalismo liberale di Croce e l’irrazionalismo «mistico» di Gentile.
Ma sfugge una differenza essenziale: Croce, che pure non era accademico, tenne fuori dalla filosofia Marx da un verso e Dante e Leopardi dall’altro; ritenendo il primo uno scrittore politico ed un critico dell’economia e i secondi due eminenti poeti, ma trascurabili pensatori. Gentile che pure era accademico, al contrario riconobbe a Marx da un verso, ma anche a Dante e Leopardi, dignità e potenza di filosofi e di profeti. A Croce sfuggiva da un verso la ragione profonda dell’internazionalismo marxista e del materialismo storico e dialettico. E dall’altro la matrice poetica del pensiero italiano che passa attraverso grandi poeti-filosofi (anche Petrarca, per altri versi) e grandi pensatori che riconobbero dignità al pensiero poetante, come Vico. Il Vico di Croce è tutto nella storia ed è gravido dell’Ottocento (lui lo definì infatti secolo XIX in germe); il Vico di Gentile è tutto nel pensiero ed è gravido dell’Italia nuova.
A questa tradizione si rifà Augusto del Noce. Lui, cattolico, si riconobbe nella linea di Gentile discesa da Dante. Una linea non laica ma ghibellina (anche se Dante fu guelfo bianco, benché definito da Foscolo «ghibellin fuggiasco»); ed una linea che senza cedere al neopaganesimo e all’idolatria dello Stato (che fu di Gentile fascista), riconosceva una connotazione religiosa al processo unitario. Il Risorgimento è la nostra Riforma morale e civile, diceva Del Noce, richiamando Noventa e Gentile. L’idea di Riforma in Del Noce si trasferisce dal piano religioso-ecclesiale del luteranesimo a quello storico-politico del Risorgimento. Un pensiero originale che riesce a trovare un punto d’intesa fra Tradizione e Risorgimento e che concepisce il Risorgimento come categoria distinta tanto da «rivoluzione» che da «reazione». Del Noce vedeva la ripresa del Risorgimento come compito dei nostri anni e immaginava, quando ancora non si era formata l’Unione Europea, una riscoperta dell’Italia «dopo l’Europa», cioè non regredendo all’epoca delle nazioni e dei nazionalismi, ma procedendo oltre, nell’epoca degli incontri e degli scontri di civiltà. Un pensiero italiano e risorgimentale che ancora non trova destinatari.
«Il Giornale» del 1 ottobre 2010
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