Tre anni dopo la clamorosa sentenza della Cassazione sulla vicenda di Eluana, che ribaltò una consolidata giurisprudenza, nessun congiunto di malati in stato vegetativo ha approfittato di questo squarcio nell’ordinamento, né ha seguito Englaro sulla via giudiziaria da lui ostinatamente aperta nel nostro ordinamento. I motivi? A ben vedere, erano già chiari prima della decisione
di Claudio Sartea
È appena trascorso il terzo anniversario della sentenza con cui la Cassazione impresse una svolta alla lunga e tormentata vicenda giudiziaria di Eluana Englaro, da alcuni rappresentata più che altro come la tenace battaglia forense del padre e tutore della donna in stato vegetativo. Comunque la si voglia considerare, si è trattato di una storia tragica e straziante che anche a livello di opinione pubblica e di dibattito politico e culturale lacerò gli animi e contrappose talora aspramente differenti punti di vista. Le istituzioni si affrettarono a rassicurarci impegnandosi ad approvare in tempi rapidissimi un testo di legge che scongiurasse simili drammi, ma a tutt’oggi questo testo non ha visto la luce, e dopo l’approvazione in Senato è da mesi all’attenzione dei deputati della Repubblica. Il trascorrere del tempo non è stato comunque privo di significato: anzi, in un certo senso la lentezza del dibattito parlamentare ha messo in mostra la problematicità di diverse questioni. Nel frattempo è progredito anche il livello delle conoscenze scientifiche, che attraverso gli esperimenti di risonanza magnetica funzionale sulle aree cerebrali, di cui è stato pioniere Adrian Owen con la sua èquipe di Cambridge, hanno confermato sul piano empirico quel che già molti intuivano, vale a dire che le persone in stato vegetativo non solo sono vive e quindi meritevoli del pieno rispetto, sono talora capaci d’intendere e volere, pur senza poterlo manifestare.
Pertanto, lungi dal configurare un accanimento terapeutico, la somministrazione a ognuno di essi delle cure di base è doverosa, mentre per quel che riguarda ulteriori iniziative cliniche, con parole di Owen, «il problema etico è la proporzionalità delle cure, ovvero applicare a un malato terapie commisurate alla prognosi e alle previsioni che si possono fare sul suo stato neurologico futuro». In realtà c’è anche un’altra considerazione che è importante fare, a tre anni dalla sentenza. Non mancarono infatti voci che salutarono quella decisione di Cassazione come l’inaugurazione al massimo livello di una giurisprudenza finalmente innovativa in tema di fine vita. Parve a costoro che con la definizione giudiziaria del caso Englaro fosse finalmente possibile dare libero corso a tutte le opzioni: quelle di chi avrebbe comunque insistito per la tutela a oltranza della vita, ma anche quelle di quanti in base a una diversa valutazione degli stati vegetativi e del rapporto tra tecnica, medicina e umanità, da tempo chiedevano il riconoscimento giuridico dell’interruzione delle cure vitali.
Se questa lettura della vicenda fosse stata corretta, avremmo assistito in questi tre anni al moltiplicarsi di casi, a maggior ragione come conseguenza dell’inerzia prolungata del legislatore. Ma nessuno ha «approfittato» di questa possibilità, nessuno ha poi seguito Englaro sulla via giudiziaria da lui così faticosamente aperta nel nostro ordinamento. Si possono dare diverse spiegazioni del fenomeno: quella che mi sembra più plausibile è che i comuni legami affettivi tuttora spingano quanti avrebbero la possibilità legale di prendere certe decisioni, a fare invece ricorso a tutte le risorse che la scienza e la tecnica mettono a disposizione, per continuare a sperare finché la medicina non si arrenda all’inevitabile, o comunque ravvisi il rischio di una palese incongruenza tra risultati di cura e costi, anche solo umani, del trattamento (e in questo, né più né meno, consiste il cosiddetto «accanimento terapeutico», da condannare sia sul piano etico e legale, che su quello tecnicomedico).
Si fa strada, allora, l’inquietante sensazione che l’assolutezza del cosiddetto «diritto di autodeterminazione», da alcuni sbandierata senza ritegno in quei mesi dolorosi, abbia più che altro un valore ideologico, poco assistito da riscontri sociali: tutt’al più, si può pensare che magari in astratto siano molti a sostenere la priorità delle individuali libere volizioni, ma poi, nel momento del bisogno, si preferisca lasciar fare ai familiari e ai medici, alle persone che ci vogliono bene e a quelle che sanno come prendersi cura di noi. Tenuto conto della notorietà del caso Englaro, rimane davvero modesto il numero di «testamenti biologici» a contenuto eutanasico redatti (senza nessun valore legale, ma pur sempre simbolicamente significativi); ed è difficile non trarne la conclusione che l’esperienza di un triennio ci conferma che a fronteggiare l’orientamento adottato in quella circostanza dalla Cassazione non fosse qualche contro-ideologia più o meno religiosamente ispirata, bensì un comune senso di umanità, in fondo più coerente con l’autentico progresso della medicina e con il senso del diritto come presidio dell’uomo.
Pertanto, lungi dal configurare un accanimento terapeutico, la somministrazione a ognuno di essi delle cure di base è doverosa, mentre per quel che riguarda ulteriori iniziative cliniche, con parole di Owen, «il problema etico è la proporzionalità delle cure, ovvero applicare a un malato terapie commisurate alla prognosi e alle previsioni che si possono fare sul suo stato neurologico futuro». In realtà c’è anche un’altra considerazione che è importante fare, a tre anni dalla sentenza. Non mancarono infatti voci che salutarono quella decisione di Cassazione come l’inaugurazione al massimo livello di una giurisprudenza finalmente innovativa in tema di fine vita. Parve a costoro che con la definizione giudiziaria del caso Englaro fosse finalmente possibile dare libero corso a tutte le opzioni: quelle di chi avrebbe comunque insistito per la tutela a oltranza della vita, ma anche quelle di quanti in base a una diversa valutazione degli stati vegetativi e del rapporto tra tecnica, medicina e umanità, da tempo chiedevano il riconoscimento giuridico dell’interruzione delle cure vitali.
Se questa lettura della vicenda fosse stata corretta, avremmo assistito in questi tre anni al moltiplicarsi di casi, a maggior ragione come conseguenza dell’inerzia prolungata del legislatore. Ma nessuno ha «approfittato» di questa possibilità, nessuno ha poi seguito Englaro sulla via giudiziaria da lui così faticosamente aperta nel nostro ordinamento. Si possono dare diverse spiegazioni del fenomeno: quella che mi sembra più plausibile è che i comuni legami affettivi tuttora spingano quanti avrebbero la possibilità legale di prendere certe decisioni, a fare invece ricorso a tutte le risorse che la scienza e la tecnica mettono a disposizione, per continuare a sperare finché la medicina non si arrenda all’inevitabile, o comunque ravvisi il rischio di una palese incongruenza tra risultati di cura e costi, anche solo umani, del trattamento (e in questo, né più né meno, consiste il cosiddetto «accanimento terapeutico», da condannare sia sul piano etico e legale, che su quello tecnicomedico).
Si fa strada, allora, l’inquietante sensazione che l’assolutezza del cosiddetto «diritto di autodeterminazione», da alcuni sbandierata senza ritegno in quei mesi dolorosi, abbia più che altro un valore ideologico, poco assistito da riscontri sociali: tutt’al più, si può pensare che magari in astratto siano molti a sostenere la priorità delle individuali libere volizioni, ma poi, nel momento del bisogno, si preferisca lasciar fare ai familiari e ai medici, alle persone che ci vogliono bene e a quelle che sanno come prendersi cura di noi. Tenuto conto della notorietà del caso Englaro, rimane davvero modesto il numero di «testamenti biologici» a contenuto eutanasico redatti (senza nessun valore legale, ma pur sempre simbolicamente significativi); ed è difficile non trarne la conclusione che l’esperienza di un triennio ci conferma che a fronteggiare l’orientamento adottato in quella circostanza dalla Cassazione non fosse qualche contro-ideologia più o meno religiosamente ispirata, bensì un comune senso di umanità, in fondo più coerente con l’autentico progresso della medicina e con il senso del diritto come presidio dell’uomo.
«Avvenire» del 27 ottobre 2010
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