Media e dolore
di Aldo Grasso
Dal pozzo di Vermicino al delitto di Avetrana
Ieri, mentre si celebravano i funerali della povera Sarah, al Corriere sono continuate a giungere centinaia di mail di protesta sul programma «Chi l'ha visto?», sull'opportunità di annunciare in diretta alla madre la morte atroce della figlia. Le proteste contro la trasmissione continuano da giorni. Ogni volta per esprimere sdegno e rabbia, come se una moviola potesse far tornare indietro il tempo e una mano soccorrevole spegnere quella telecamera.
Passata la commozione e superato lo shock, dobbiamo provare a ragionare a mente fredda. Certo, la trasmissione poteva essere interrotta e la regia evitare di indugiare sul volto pietrificato della madre, ma in simili situazioni è ancora possibile staccare la spina? Spenta la telecamera di un programma dedicato alle persone scomparse, siamo sicuri che non sarebbe rimasta accesa quella di una tv locale? I media non sono più soltanto strumenti del comunicare, ma rappresentano un nuovo ambiente in cui viviamo, nuotiamo galleggiamo. Interrotto «Chi l'ha visto?», forse noi oggi inseguiremmo sul web quello stesso volto pietrificato, ripreso magari da un telefonino.
Nel 1981 è successa la terribile tragedia di Vermicino, un'atroce, lunga diretta sull'agonia di un bambino sprofondato in un pozzo. Vermicino è stato un punto di non ritorno, una di quelle strade dannate e assurde che l'umanità ogni tanto imbocca e dalla quale non sa più tornare indietro. Con Vermicino qualcosa si è spezzato per sempre. Da allora, tutti i canali hanno alimentato il filone orrorifico, a stento mascherandolo: il dolore come show, la sofferenza come osceno lievito dell'ascolto. Ogni volta, il luogo della tragedia si trasforma in un enorme set televisivo, con il fondato rischio che il dolore declini in spettacolo. Un fremito sembra anzi scuotere gli astanti, parenti e amici (perché la madre era in tv, aveva solo la Sciarelli cui chiedere soccorso?).
Ma «l'effetto Vermicino» riguarda solo l'Italia o è così in tutto il mondo? Qualche anno dopo, era il maggio del 1985, a Bruxelles Juventus e Liverpool si giocavano la finale della Coppa dei campioni. Ebbene, quella sera, allo stadio Heysel, rimasero uccise 39 persone (più 580 feriti): l'infausta serata fece il giro del mondo in diretta e solo la tv tedesca si rifiutò di mandare in onda le immagini. In questo momento, in Cile, 33 minatori sono ancora intrappolati nella miniera di San José. Una trivella sta per raggiungerli e liberarli. Intanto, fuori, c'è un accampamento dove bivaccano parenti e troupe giunte da tutto il mondo. Qualcuno ha evocato il film L'asso nella manica. Speriamo vivamente nel lieto fine, ma succedesse una disgrazia finirebbe immediatamente nell'etere.
Nel luglio di quest'anno, abbiamo assistito alla tragedia di Duisburg, in Germania, dove 19 ragazzi sono morti a un raduno, la Love parade, per le conseguenze di una calca improvvisa scatenata da momento di panico. C'era la tv, ma c'erano soprattutto i telefonini dei ragazzi che sui social network hanno immediatamente caricato i filmati di quel terribile incidente. Se qualche funzionario avesse stoppato le riprese televisive, la tragedia sarebbe comunque andata in onda in diretta, con nuove e inusuali modalità.
L'11 settembre, la stazione di Atocha, l'Iraq, la scuola in Ossezia, l'esecuzione di Fabrizio Quattrocchi da parte dei carnefici di Al Qaeda... Sembra che la brutalità sia la sola retorica della nostra epoca, il solo modo con cui ci esprimiamo. Ci sono giorni in cui malediciamo i media perché mostrano quello che non vorremmo mai vedere: morte, distruzione, sangue. Del resto, i fratelli Kennedy, presidenti del Paese tecnologicamente e democraticamente più avanzato, sono morti sotto l'occhio delle telecamere. Dalla Striscia di Gaza ci giungono spesso immagini di morte. Solo Israele tende a non mostrare l'orrore in tv, come se il ricordo della Shoah fosse sacro e inviolabile: una decisione, la sua, però contestata da molti, quasi che la ritrosia dello Stato di Israele a mostrare lo strazio delle sue vittime favorisca la propaganda avversa.
A volte, abbiamo la sensazione che certi conduttori, come sciacalli, siano pagati per non retrocedere mai di fronte a ciò che non comprendono, per avere parole anche quando non hanno pensieri e che la tv non conosca la potenza del lutto: altrimenti saprebbe ancora far calare il sipario sull'orrore. Bisogna smetterla di parlare della normalità del male; qui siamo di fronte al male della normalità. Un passo indietro si riesce a fare solo quando un'intera comunità ristabilisce il senso del tabù. Ma, da Vermicino, tornando al caso della povera Sarah, il Servizio pubblico non ha mai dettato un codice di comportamento per casi simili, anzi ha allegramente alimentato trasmissioni che hanno trasformato la tragedia in entertainment: il «Novi Ligure show», il «Cogne Show», l'«Erba show», il «Garlasco show» e via elencando. Ha lasciato alla sensibilità dei singoli l'onere di non degenerare. L'etica è un insieme di valori condivisi, appartiene prima alla società, poi alla rete televisiva e infine, di conseguenza, ai singoli conduttori.
Passata la commozione e superato lo shock, dobbiamo provare a ragionare a mente fredda. Certo, la trasmissione poteva essere interrotta e la regia evitare di indugiare sul volto pietrificato della madre, ma in simili situazioni è ancora possibile staccare la spina? Spenta la telecamera di un programma dedicato alle persone scomparse, siamo sicuri che non sarebbe rimasta accesa quella di una tv locale? I media non sono più soltanto strumenti del comunicare, ma rappresentano un nuovo ambiente in cui viviamo, nuotiamo galleggiamo. Interrotto «Chi l'ha visto?», forse noi oggi inseguiremmo sul web quello stesso volto pietrificato, ripreso magari da un telefonino.
Nel 1981 è successa la terribile tragedia di Vermicino, un'atroce, lunga diretta sull'agonia di un bambino sprofondato in un pozzo. Vermicino è stato un punto di non ritorno, una di quelle strade dannate e assurde che l'umanità ogni tanto imbocca e dalla quale non sa più tornare indietro. Con Vermicino qualcosa si è spezzato per sempre. Da allora, tutti i canali hanno alimentato il filone orrorifico, a stento mascherandolo: il dolore come show, la sofferenza come osceno lievito dell'ascolto. Ogni volta, il luogo della tragedia si trasforma in un enorme set televisivo, con il fondato rischio che il dolore declini in spettacolo. Un fremito sembra anzi scuotere gli astanti, parenti e amici (perché la madre era in tv, aveva solo la Sciarelli cui chiedere soccorso?).
Ma «l'effetto Vermicino» riguarda solo l'Italia o è così in tutto il mondo? Qualche anno dopo, era il maggio del 1985, a Bruxelles Juventus e Liverpool si giocavano la finale della Coppa dei campioni. Ebbene, quella sera, allo stadio Heysel, rimasero uccise 39 persone (più 580 feriti): l'infausta serata fece il giro del mondo in diretta e solo la tv tedesca si rifiutò di mandare in onda le immagini. In questo momento, in Cile, 33 minatori sono ancora intrappolati nella miniera di San José. Una trivella sta per raggiungerli e liberarli. Intanto, fuori, c'è un accampamento dove bivaccano parenti e troupe giunte da tutto il mondo. Qualcuno ha evocato il film L'asso nella manica. Speriamo vivamente nel lieto fine, ma succedesse una disgrazia finirebbe immediatamente nell'etere.
Nel luglio di quest'anno, abbiamo assistito alla tragedia di Duisburg, in Germania, dove 19 ragazzi sono morti a un raduno, la Love parade, per le conseguenze di una calca improvvisa scatenata da momento di panico. C'era la tv, ma c'erano soprattutto i telefonini dei ragazzi che sui social network hanno immediatamente caricato i filmati di quel terribile incidente. Se qualche funzionario avesse stoppato le riprese televisive, la tragedia sarebbe comunque andata in onda in diretta, con nuove e inusuali modalità.
L'11 settembre, la stazione di Atocha, l'Iraq, la scuola in Ossezia, l'esecuzione di Fabrizio Quattrocchi da parte dei carnefici di Al Qaeda... Sembra che la brutalità sia la sola retorica della nostra epoca, il solo modo con cui ci esprimiamo. Ci sono giorni in cui malediciamo i media perché mostrano quello che non vorremmo mai vedere: morte, distruzione, sangue. Del resto, i fratelli Kennedy, presidenti del Paese tecnologicamente e democraticamente più avanzato, sono morti sotto l'occhio delle telecamere. Dalla Striscia di Gaza ci giungono spesso immagini di morte. Solo Israele tende a non mostrare l'orrore in tv, come se il ricordo della Shoah fosse sacro e inviolabile: una decisione, la sua, però contestata da molti, quasi che la ritrosia dello Stato di Israele a mostrare lo strazio delle sue vittime favorisca la propaganda avversa.
A volte, abbiamo la sensazione che certi conduttori, come sciacalli, siano pagati per non retrocedere mai di fronte a ciò che non comprendono, per avere parole anche quando non hanno pensieri e che la tv non conosca la potenza del lutto: altrimenti saprebbe ancora far calare il sipario sull'orrore. Bisogna smetterla di parlare della normalità del male; qui siamo di fronte al male della normalità. Un passo indietro si riesce a fare solo quando un'intera comunità ristabilisce il senso del tabù. Ma, da Vermicino, tornando al caso della povera Sarah, il Servizio pubblico non ha mai dettato un codice di comportamento per casi simili, anzi ha allegramente alimentato trasmissioni che hanno trasformato la tragedia in entertainment: il «Novi Ligure show», il «Cogne Show», l'«Erba show», il «Garlasco show» e via elencando. Ha lasciato alla sensibilità dei singoli l'onere di non degenerare. L'etica è un insieme di valori condivisi, appartiene prima alla società, poi alla rete televisiva e infine, di conseguenza, ai singoli conduttori.
«Il Corriere della Sera» del 10 ottobre 2010
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