di Michele Brambilla
E’ naturale che l’agguato a Belpietro susciti – oltre che solidarietà incondizionata per la vittima – una domanda: stiamo vivendo tempi simili a quelli che prepararono i maledetti Anni Settanta?
Molti osservano che le modalità del fallito attentato sono talmente (e fortunatamente) maldestre da marcare una netta diversità con la tragica efficienza delle Brigate Rosse. E’ un’osservazione che porterebbe a tranquillizzarci e a minimizzare l’allarme.
Ma è un’osservazione sbagliata. Anche i primi brigatisti erano goffi artigiani del terrore. Cominciarono a incendiare qualche auto nei garage, poi disseppellirono vecchi fucili dei partigiani, quindi passarono a qualche sequestro “dimostrativo” che si concludeva, dopo qualche ora, con il rilascio dell’ostaggio. Poi però ci fu il salto di qualità. E quando si cominciò a uccidere, si cominciò a farlo senza la “geometrica potenza” (terribile espressione) dispiegata in via Fani. Chi sottolinea l’imperizia dimostrata dall’oscuro attentatore del direttore di Libero forse non sa, oppure dimentica, che all’inizio degli Anni Settanta ci fu un episodio del tutto simile: un estremista di Lotta Continua (che pure era cosa ben diversa dalle Brigate Rosse) venne bloccato con un revolver in mano sulle scale del condominio in cui abitava il deputato missino Franco Servello.
I motivi di preoccupazione quindi ci sono tutti, anche perché l’episodio dell’altra sera segue ad altri fatti gravi. Il fumogeno lanciato contro Bonanni e la statuetta scagliata in faccia al presidente del Consiglio, tanto per dire i primi due che vengono in mente: fatti che avrebbero potuto anche avere conseguenze peggiori. Ma poi: per convincersi che non c’è dubbio che si stia vivendo un brutto clima, basterebbe riflettere sul fatto che i direttori di giornali (e non solo quelli di destra) sono costretti a girare con la scorta. In quale altro Paese europeo, in questo momento, i direttori di giornali debbono guardarsi le spalle quando portano a scuola i figli?
Tutte queste considerazioni inducono quindi a pensare che il rischio di un ritorno agli Anni Settanta c’è. La storia però non si ripete mai uguale, e quindi vanno sottolineate almeno due differenze fondamentali. La prima è che i cosiddetti anni di piombo appartenevano a un’epoca in cui lo scontro ideologico era fortissimo e non solo in Italia. Il mondo figlio del dopoguerra era spaccato in due: da una parte il blocco occidentale, dall’altro quello comunista. Il comunismo è stato all’inizio del Novecento il sogno e la speranza per milioni di persone: ma quel sogno, laddove si era realizzato, si era trasformato in una dittatura. Una parte dell’umanità il comunismo lo subiva, e avrebbe fatto di tutto per liberarsene; ma un’altra parte l’avrebbe voluto importare dove c’era la democrazia. Qualcuno per via elettorale; ma qualcun altro per via rivoluzionaria. Stiamo parlando di un «qualcun altro» che era fortunatamente una minoranza: ma una minoranza agguerrita che - è scomodo ricordarlo, ma è così - poté godere per molti anni di un sotterraneo consenso nelle fabbriche e soprattutto della vile compiacenza di tanto milieu intellettuale.
Così nacque il terrorismo di estrema sinistra degli Anni Settanta: per inseguire il folle progetto di una rivoluzione proletaria armata. Il terrorismo di estrema destra nacque per reazione al «pericolo rosso»: quello delle Br, ma prima ancora anche quello di una vittoria per via elettorale. Questo terrorismo «nero» si nutrì di una varia umanità: esaltati neonazisti, nostalgici fascisti, generali golpisti, uomini dei servizi segreti in combutta con i bombaroli. Il risultato fu la guerra che ahimè ricordiamo ancora.
Tutto questo è uno scenario oggi riproponibile? Lo escluderemmo. Le ideologie che divisero così duramente il mondo sono per fortuna morte e sepolte.
L’altra differenza è che negli Anni Settanta i toni accesi, le cronache mistificatorie e le campagne di odio venivano scatenate principalmente da una sola parte dei media, e cioè da quelli di estrema sinistra e da quei molti «borghesi» che a un simile andazzo si accodarono nella meschina speranza di potersi appuntare sul petto - a rivoluzione proletaria compiuta - qualche medaglia da militante antemarcia. Oggi l’insulto, la delegittimazione dell’avversario, la scelta sistematica di un «nemico» da offrire in pasto ai lettori, insomma il killeraggio mediatico è purtroppo ampiamente trasversale. Si dimentica, o si finge di dimenticare, che il quinto comandamento («Non uccidere») include pure la calunnia, perché si uccide anche con le menzogne, magari sulla vita privata o sulle personali inclinazioni sessuali.
Insomma ecco in che cosa è simile, il nostro tempo, agli Anni Settanta: nel rischio reale che qualche testa calda traduca in piombo il veleno. Ed ecco in che cosa è invece profondamente diverso: nel fatto che certi toni un tempo riservati ai fogli estremistici ormai sono i toni consueti del dibattito politico e giornalistico. Passate le grandi ideologie, le nuove radici dell’odio stanno in una guerra tra interessi di parte combattuta senza più un minimo di rispetto né per la verità né per le persone. Così l’Italia è ripiombata in un clima che gli altri Paesi occidentali hanno consegnato da un pezzo alla storia.
Molti osservano che le modalità del fallito attentato sono talmente (e fortunatamente) maldestre da marcare una netta diversità con la tragica efficienza delle Brigate Rosse. E’ un’osservazione che porterebbe a tranquillizzarci e a minimizzare l’allarme.
Ma è un’osservazione sbagliata. Anche i primi brigatisti erano goffi artigiani del terrore. Cominciarono a incendiare qualche auto nei garage, poi disseppellirono vecchi fucili dei partigiani, quindi passarono a qualche sequestro “dimostrativo” che si concludeva, dopo qualche ora, con il rilascio dell’ostaggio. Poi però ci fu il salto di qualità. E quando si cominciò a uccidere, si cominciò a farlo senza la “geometrica potenza” (terribile espressione) dispiegata in via Fani. Chi sottolinea l’imperizia dimostrata dall’oscuro attentatore del direttore di Libero forse non sa, oppure dimentica, che all’inizio degli Anni Settanta ci fu un episodio del tutto simile: un estremista di Lotta Continua (che pure era cosa ben diversa dalle Brigate Rosse) venne bloccato con un revolver in mano sulle scale del condominio in cui abitava il deputato missino Franco Servello.
I motivi di preoccupazione quindi ci sono tutti, anche perché l’episodio dell’altra sera segue ad altri fatti gravi. Il fumogeno lanciato contro Bonanni e la statuetta scagliata in faccia al presidente del Consiglio, tanto per dire i primi due che vengono in mente: fatti che avrebbero potuto anche avere conseguenze peggiori. Ma poi: per convincersi che non c’è dubbio che si stia vivendo un brutto clima, basterebbe riflettere sul fatto che i direttori di giornali (e non solo quelli di destra) sono costretti a girare con la scorta. In quale altro Paese europeo, in questo momento, i direttori di giornali debbono guardarsi le spalle quando portano a scuola i figli?
Tutte queste considerazioni inducono quindi a pensare che il rischio di un ritorno agli Anni Settanta c’è. La storia però non si ripete mai uguale, e quindi vanno sottolineate almeno due differenze fondamentali. La prima è che i cosiddetti anni di piombo appartenevano a un’epoca in cui lo scontro ideologico era fortissimo e non solo in Italia. Il mondo figlio del dopoguerra era spaccato in due: da una parte il blocco occidentale, dall’altro quello comunista. Il comunismo è stato all’inizio del Novecento il sogno e la speranza per milioni di persone: ma quel sogno, laddove si era realizzato, si era trasformato in una dittatura. Una parte dell’umanità il comunismo lo subiva, e avrebbe fatto di tutto per liberarsene; ma un’altra parte l’avrebbe voluto importare dove c’era la democrazia. Qualcuno per via elettorale; ma qualcun altro per via rivoluzionaria. Stiamo parlando di un «qualcun altro» che era fortunatamente una minoranza: ma una minoranza agguerrita che - è scomodo ricordarlo, ma è così - poté godere per molti anni di un sotterraneo consenso nelle fabbriche e soprattutto della vile compiacenza di tanto milieu intellettuale.
Così nacque il terrorismo di estrema sinistra degli Anni Settanta: per inseguire il folle progetto di una rivoluzione proletaria armata. Il terrorismo di estrema destra nacque per reazione al «pericolo rosso»: quello delle Br, ma prima ancora anche quello di una vittoria per via elettorale. Questo terrorismo «nero» si nutrì di una varia umanità: esaltati neonazisti, nostalgici fascisti, generali golpisti, uomini dei servizi segreti in combutta con i bombaroli. Il risultato fu la guerra che ahimè ricordiamo ancora.
Tutto questo è uno scenario oggi riproponibile? Lo escluderemmo. Le ideologie che divisero così duramente il mondo sono per fortuna morte e sepolte.
L’altra differenza è che negli Anni Settanta i toni accesi, le cronache mistificatorie e le campagne di odio venivano scatenate principalmente da una sola parte dei media, e cioè da quelli di estrema sinistra e da quei molti «borghesi» che a un simile andazzo si accodarono nella meschina speranza di potersi appuntare sul petto - a rivoluzione proletaria compiuta - qualche medaglia da militante antemarcia. Oggi l’insulto, la delegittimazione dell’avversario, la scelta sistematica di un «nemico» da offrire in pasto ai lettori, insomma il killeraggio mediatico è purtroppo ampiamente trasversale. Si dimentica, o si finge di dimenticare, che il quinto comandamento («Non uccidere») include pure la calunnia, perché si uccide anche con le menzogne, magari sulla vita privata o sulle personali inclinazioni sessuali.
Insomma ecco in che cosa è simile, il nostro tempo, agli Anni Settanta: nel rischio reale che qualche testa calda traduca in piombo il veleno. Ed ecco in che cosa è invece profondamente diverso: nel fatto che certi toni un tempo riservati ai fogli estremistici ormai sono i toni consueti del dibattito politico e giornalistico. Passate le grandi ideologie, le nuove radici dell’odio stanno in una guerra tra interessi di parte combattuta senza più un minimo di rispetto né per la verità né per le persone. Così l’Italia è ripiombata in un clima che gli altri Paesi occidentali hanno consegnato da un pezzo alla storia.
«La Stampa» del 2 ottobre 2010
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