Una grande mostra rende omaggio al genio dell’artista delle «Ninfee», per il quale la natura (en plein air) non era mai matrigna. Una sfilata di capolavori antitragici davanti a cui però sembra mancare un po’ di cuore
di Maurizio Cecchetti
Diamo a Monet quel ch’è di Monet, cioè la vetta sulla scala del sublime pittorico. Fatto chapeau al mostro di bravura – Cézanne ne dà una definizione esatta: «Monet non è che un occhio ma, buon Dio, che occhio!» –- si può anche inquadrare Monet nello spirito di una pittura che ama, come Narciso, se stessa e vuole rivaleggiare con 'Natura'. In un saggio presente nel catalogo della mostra che si è aperta da poco al Grand Palais di Parigi (una delle più importanti mai realizzate e forse irripetibile per la mole e per il contesto in cui avviene, cioè nella Parigi che fu per Monet il 'luogo materno'), Richard Thomson parla di 'naturalismo emotivo' riferendosi ai dipinti di Monet degli anni 1881-’91, ma si tratta, in fondo, di una definizione che può valere per tutta la sua pittura e fino alle ultime opere dove nel giardino di Giverny, che lui stesso organizzò come se già stesse dipingendo un quadro, con caparbia inquietudine scavò giorno dopo giorno il solco di una nuova pittura che la critica considera oggi una fonte dell’'informale' novecentesco.
Ciò che vale per il linguaggio pittorico non deve ingannare sui significati interni di un certo modo di dipingere e quello di Monet non c’entra quasi nulla con l’informale nato dalle viscere di un mondo annientato da una spaventosa guerra. Con Monet siamo su un altro piano di considerazione dell’umano. Dovendo tracciare un’arcata elettiva, si potrebbe dire che la pittura di Monet ha come estremi di partenza e di approdo Turner e Pollock, ma rispetto al loro orizzonte quella di Monet è una pittura 'chiara', ovvero antitragica nello spirito. E la mostra di Parigi lo dice con perentoria e monotona determinazione. Monet ha dipinto per tutta la vita nella 'sublime indifferenza' verso ciò che lo circondava. In un testo emblematico raccolto da François Thiébault-Sisson e pubblicato il 26 novembre 1900 su 'Le Temps', Monet traccia per sommi capi la sua biografia d’artista. Fin da ragazzo – per dirla senza giri di parole – se ne frega di tutto, e oppone una tenace resistenza ai tentativi paterni e materni di fargli cambiare idea. A quindici anni era già un brillante caricaturista a Le Havre, dove viveva con la famiglia: «Tassavo i miei clienti in base al loro reddito». Quando, l’anno dopo, decide di ritornare a Parigi, dove era nato, ha con sé un gruzzoletto di duemila franchi che gli permette di essere autosufficiente rispetto alle minacce paterne di tagliargli i viveri. A vent’anni, va sotto le armi: un biennio in Algeria e poi il congedo, aiutato dal padre che nel frattempo ha accettato l’idea di avere un figlio pittore.
Tornando a Parigi Monet segue per un po’ la scuola di un pittore accademico, Gleyre, ma presto comincia ad annoiarsi. «Si ricordi, giovanotto, che quando si esegue una figura occorre sempre pensare agli antichi», lo ammonisce Gleyre. Che effetto poteva avere su Monet, esemplare selvatico di uomo-natura, un monito del genere? Quello di farlo fuggire altrove. E infatti rinsalda l’amicizia con Pissarro, Sisley, Bazille e Jongkind: «Mi lanciai anima e corpo nella pittura en plein air». E sebbene Proust scrivesse che Manet era il patriarca dell’ en plein air, facendo imbestialire Degas che conosceva bene i fondamenti 'classici' del pittore del Déjeuner sur l’herbe e dell’Olympia, Monet nel 1900 mostra di avere le idee chiare sul suo diritto di precedenza: Manet? Dopo di me.
A questo punto, tagliando corto, si arriva ai primi capolavori: la mostra mette l’uno dietro l’altro una sfilza di quadri di paesaggio eseguiti tra il 1865 e il 1870 di fronte ai quali ammirati ci si domanda: «Ma come ha fatto?». Proprio così: come ha fatto? Un mostro, per la sapienza con cui rende la realtà senza diventare un pittore di trompe-l’oeil . È, in genere, la realtà che piace al mondo borghese che sta nascendo. Due parole esprimono lo spirito di questa pittura: metamorfosi e alchimia. Senza tanti impliciti culturali o classici, Monet stringe nell’amplesso del colore la natura madre e sposa («La natura è il mio atelier»). Pittore dei quattro elementi, luce e materia sono una sola cosa per lui, come nel crogiolo dell’alchimista. Non ha senso distinguerle, perché si finirebbe per ridurre tutto all’occhio. Guardando la serie della Cattedrale di Rouen dobbiamo fare uno sforzo per non seguire la via che questa pittura ci suggerisce. In mostra queste tele sono messe accanto alla serie 'pop' di Lichtenstein, paragone comico, se vogliamo, perché travisa lo spirito dei quadri di Monet portando l’accento sulle strutture della percezione visiva, mentre quella serie nasce come sensazione corporea delle cose trasformate dalla luce, che le incendia e le fa ribollire come lava policroma e preziosa che si giustifica in sé stessa. «È atroce la luce»; e ancora: «Ho avuto una notte di incubi; la cattedrale mi crollava addosso, sembrava blu o rosa o gialla». Che senso avrebbe per questo uomo-natura fermarsi alla superficie delle cose senza creare la regola per fare della pittura una materia vivente?
Ed ecco che Monet tenta l’impossibile, cesellando, come un orafo raffinato e barbaro al tempo stesso, l’apoteosi della vita nella metamorfosi gloriosa della materia. Ma l’apoteosi, come insegnano gli antichi rituali funebri, ha in sé il germe della fine.
Di ciò che si disfa e scompare.
A questo, Monet, tenta di resistere e la pittura diventa per lui un’ossessione: «Non dormo più per colpa loro (delle Ninfee). Di notte sono ossessionato da ciò che sto cercando di realizzare». Lo dice a un passo dalla morte, nel 1925, e ne è cosciente: «Ho i giorni contati... Domani forse...». Nel 1913 confessò il disgusto per tutto ciò che aveva dipinto. Era la tipica crisi di chi sta cercando il proprio capolavoro, quello dell’Orangerie. Qui si diventa spettatori della nuova creazione nel grembo acquatico dell’inizio (o della fine). Una musica silenziosa risuona dentro di noi, e sulle acque morte di Monet sembrano danzare gli astri infelici di Debussy. Strepitoso, Monet. Strepitoso e vano. Mai un segno di incertezza, un dubbio sulla pittura, una distrazione per dar conto di ciò che accade attorno a sé, della tristezza di un mondo che si sfalda. In Algeria sembrava affascinato dalla selvatichezza della vita militare; ma quando scoppia la guerra franco-prussiana, nel 1870, Monet ha già trent’anni e fugge a Londra. Edmond de Goncourt nel 'Journal' annota di quel periodo memorie come questa: «Freddo, bombardamento e carestia: ecco le strenne del 1871». Era Capodanno nella Parigi sotto assedio dove trentatré grammi di carne di cavallo (ossa comprese) «deve bastare a due persone per tre giorni». Nel 1900 Monet ricorda questo espatrio con frasi laconiche: «Venne la guerra. Mi ero appena sposato. Mi trasferii in Inghilterra » e, aggiunge, vi «conobbi anche la miseria». C’è un che di assolutorio in queste parole. L’accenno al matrimonio sembra quasi un alibi postumo se si pensa che nel 1879 aveva scritto a Clemenceau: «Al capezzale di una persona morta che mi era molto cara... mi sorpresi a seguire la morte nelle ombre del colorito che essa depone sul volto con sfumature graduali. Toni bli, gialli, grigi...». La persona cara era la prima moglie, Camille, con la quale fuggì a Londra durante la guerra. Dicendo 'cinismo', intendevo appunto questo prevalere dell’occhio sul cuore. Non so se si abbia il diritto di giudicare un artista anche come uomo, credo di no. Qui, però, non si vuol giudicare un uomo, ma capire come un artista veda il mondo e cosa metta al primo posto. Monet ha sempre messo la sua pittura, macchina misteriosa che trasforma il fango in oro, e in questo modo redime la natura stessa, la rende antitragica (facendoci dimenticare che essa è anche matrigna). «Bisognerebbe dipingere con l’oro e con le gemme», diceva. Mi fa pensare all’Oriente, alla luce sacrale che con l’oro occulta l’agire crudele di certi imperatori bizantini. E in effetti in Monet la luce, l’oro e le gemme celano allo sguardo la vita reale del suo tempo. La Ville Lumière è, nella sua pittura, il luogo dell’origine dove le forze primordiali e incandescenti diventano una sorta di maschera pirotecnica che occulta il mistero tragico dell’esistere. L’uomo, in questa visione, è soltanto un accidente.
Parigi, Grand Palais e Orangerie, MONET, fino al 24 gennaio 2011
Ciò che vale per il linguaggio pittorico non deve ingannare sui significati interni di un certo modo di dipingere e quello di Monet non c’entra quasi nulla con l’informale nato dalle viscere di un mondo annientato da una spaventosa guerra. Con Monet siamo su un altro piano di considerazione dell’umano. Dovendo tracciare un’arcata elettiva, si potrebbe dire che la pittura di Monet ha come estremi di partenza e di approdo Turner e Pollock, ma rispetto al loro orizzonte quella di Monet è una pittura 'chiara', ovvero antitragica nello spirito. E la mostra di Parigi lo dice con perentoria e monotona determinazione. Monet ha dipinto per tutta la vita nella 'sublime indifferenza' verso ciò che lo circondava. In un testo emblematico raccolto da François Thiébault-Sisson e pubblicato il 26 novembre 1900 su 'Le Temps', Monet traccia per sommi capi la sua biografia d’artista. Fin da ragazzo – per dirla senza giri di parole – se ne frega di tutto, e oppone una tenace resistenza ai tentativi paterni e materni di fargli cambiare idea. A quindici anni era già un brillante caricaturista a Le Havre, dove viveva con la famiglia: «Tassavo i miei clienti in base al loro reddito». Quando, l’anno dopo, decide di ritornare a Parigi, dove era nato, ha con sé un gruzzoletto di duemila franchi che gli permette di essere autosufficiente rispetto alle minacce paterne di tagliargli i viveri. A vent’anni, va sotto le armi: un biennio in Algeria e poi il congedo, aiutato dal padre che nel frattempo ha accettato l’idea di avere un figlio pittore.
Tornando a Parigi Monet segue per un po’ la scuola di un pittore accademico, Gleyre, ma presto comincia ad annoiarsi. «Si ricordi, giovanotto, che quando si esegue una figura occorre sempre pensare agli antichi», lo ammonisce Gleyre. Che effetto poteva avere su Monet, esemplare selvatico di uomo-natura, un monito del genere? Quello di farlo fuggire altrove. E infatti rinsalda l’amicizia con Pissarro, Sisley, Bazille e Jongkind: «Mi lanciai anima e corpo nella pittura en plein air». E sebbene Proust scrivesse che Manet era il patriarca dell’ en plein air, facendo imbestialire Degas che conosceva bene i fondamenti 'classici' del pittore del Déjeuner sur l’herbe e dell’Olympia, Monet nel 1900 mostra di avere le idee chiare sul suo diritto di precedenza: Manet? Dopo di me.
A questo punto, tagliando corto, si arriva ai primi capolavori: la mostra mette l’uno dietro l’altro una sfilza di quadri di paesaggio eseguiti tra il 1865 e il 1870 di fronte ai quali ammirati ci si domanda: «Ma come ha fatto?». Proprio così: come ha fatto? Un mostro, per la sapienza con cui rende la realtà senza diventare un pittore di trompe-l’oeil . È, in genere, la realtà che piace al mondo borghese che sta nascendo. Due parole esprimono lo spirito di questa pittura: metamorfosi e alchimia. Senza tanti impliciti culturali o classici, Monet stringe nell’amplesso del colore la natura madre e sposa («La natura è il mio atelier»). Pittore dei quattro elementi, luce e materia sono una sola cosa per lui, come nel crogiolo dell’alchimista. Non ha senso distinguerle, perché si finirebbe per ridurre tutto all’occhio. Guardando la serie della Cattedrale di Rouen dobbiamo fare uno sforzo per non seguire la via che questa pittura ci suggerisce. In mostra queste tele sono messe accanto alla serie 'pop' di Lichtenstein, paragone comico, se vogliamo, perché travisa lo spirito dei quadri di Monet portando l’accento sulle strutture della percezione visiva, mentre quella serie nasce come sensazione corporea delle cose trasformate dalla luce, che le incendia e le fa ribollire come lava policroma e preziosa che si giustifica in sé stessa. «È atroce la luce»; e ancora: «Ho avuto una notte di incubi; la cattedrale mi crollava addosso, sembrava blu o rosa o gialla». Che senso avrebbe per questo uomo-natura fermarsi alla superficie delle cose senza creare la regola per fare della pittura una materia vivente?
Ed ecco che Monet tenta l’impossibile, cesellando, come un orafo raffinato e barbaro al tempo stesso, l’apoteosi della vita nella metamorfosi gloriosa della materia. Ma l’apoteosi, come insegnano gli antichi rituali funebri, ha in sé il germe della fine.
Di ciò che si disfa e scompare.
A questo, Monet, tenta di resistere e la pittura diventa per lui un’ossessione: «Non dormo più per colpa loro (delle Ninfee). Di notte sono ossessionato da ciò che sto cercando di realizzare». Lo dice a un passo dalla morte, nel 1925, e ne è cosciente: «Ho i giorni contati... Domani forse...». Nel 1913 confessò il disgusto per tutto ciò che aveva dipinto. Era la tipica crisi di chi sta cercando il proprio capolavoro, quello dell’Orangerie. Qui si diventa spettatori della nuova creazione nel grembo acquatico dell’inizio (o della fine). Una musica silenziosa risuona dentro di noi, e sulle acque morte di Monet sembrano danzare gli astri infelici di Debussy. Strepitoso, Monet. Strepitoso e vano. Mai un segno di incertezza, un dubbio sulla pittura, una distrazione per dar conto di ciò che accade attorno a sé, della tristezza di un mondo che si sfalda. In Algeria sembrava affascinato dalla selvatichezza della vita militare; ma quando scoppia la guerra franco-prussiana, nel 1870, Monet ha già trent’anni e fugge a Londra. Edmond de Goncourt nel 'Journal' annota di quel periodo memorie come questa: «Freddo, bombardamento e carestia: ecco le strenne del 1871». Era Capodanno nella Parigi sotto assedio dove trentatré grammi di carne di cavallo (ossa comprese) «deve bastare a due persone per tre giorni». Nel 1900 Monet ricorda questo espatrio con frasi laconiche: «Venne la guerra. Mi ero appena sposato. Mi trasferii in Inghilterra » e, aggiunge, vi «conobbi anche la miseria». C’è un che di assolutorio in queste parole. L’accenno al matrimonio sembra quasi un alibi postumo se si pensa che nel 1879 aveva scritto a Clemenceau: «Al capezzale di una persona morta che mi era molto cara... mi sorpresi a seguire la morte nelle ombre del colorito che essa depone sul volto con sfumature graduali. Toni bli, gialli, grigi...». La persona cara era la prima moglie, Camille, con la quale fuggì a Londra durante la guerra. Dicendo 'cinismo', intendevo appunto questo prevalere dell’occhio sul cuore. Non so se si abbia il diritto di giudicare un artista anche come uomo, credo di no. Qui, però, non si vuol giudicare un uomo, ma capire come un artista veda il mondo e cosa metta al primo posto. Monet ha sempre messo la sua pittura, macchina misteriosa che trasforma il fango in oro, e in questo modo redime la natura stessa, la rende antitragica (facendoci dimenticare che essa è anche matrigna). «Bisognerebbe dipingere con l’oro e con le gemme», diceva. Mi fa pensare all’Oriente, alla luce sacrale che con l’oro occulta l’agire crudele di certi imperatori bizantini. E in effetti in Monet la luce, l’oro e le gemme celano allo sguardo la vita reale del suo tempo. La Ville Lumière è, nella sua pittura, il luogo dell’origine dove le forze primordiali e incandescenti diventano una sorta di maschera pirotecnica che occulta il mistero tragico dell’esistere. L’uomo, in questa visione, è soltanto un accidente.
Parigi, Grand Palais e Orangerie, MONET, fino al 24 gennaio 2011
«Avvenire» del 5 settembre 2010
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