di Michele Dolz
Nel 1972 un folle prese a martellate la Pietà di Michelangelo nella Basilica di San Pietro, e il settimanale «Times» scrisse impietosamente: «Visitate l’Italia prima che gli italiani la distruggano». Era un titolo offensivo, anche perché l’autore del gesto era un geologo australiano di nome Laszlo Toth.
Ma commenti del genere, tra lo scandalizzato e l’ironico, si sono ripetuti costantemente. Lo scorso 6 luglio il «New York Times» pubblicava un reportage severo dal titolo: «Mentre Roma si modernizza, il suo passato tranquillamente si sbriciola». Si riferiva principalmente al deterioramento del Colosseo e della Domus Aurea. È appena uscito un libro di Roberto Ippolito dal titolo «Il bel paese maltrattato» (Bompiani, pagine 382, 18 euro) che passa in rassegna una gran quantità di sciagure al patrimonio artistico nazionale negli ultimi due anni.
Veramente impressionante, non c’è differenza tra nord e sud ne tra i vari schieramenti politici al potere. È una metastasi diffusa.
Danni per incuria come statue e rovine coperte da vegetazione e letteralmente dimenticate, oppure infiltrazioni d’acqua che fanno crollare soffitti e compromettono gli affreschi.
Danni causati da speculazioni e abusivismo, come edifici costruiti in aree archeologiche.
Danni dovuti a lentezze amministrative. Danni – e questi sono i più dolorosi – a opera di vandali. Si dirà che l’Italia ha un patrimonio «troppo grosso» che richiede grandi somme di denaro e tante risorse umane. È verissimo. Ci sono 4739 musei pubblici e privati, 62128 archivi pubblici e privati, 59910 beni archeologici e architettonici, 1144 aree naturali e protette.
Sorge spontanea la domanda: questa ricchezza è un peso o una risorsa? Lasciamo che gli esperti trovino il modo di far rendere i beni culturali in termini economici, se ci riescono. Ma qui il punto è un altro. Questa ricchezza è componente non secondaria della nostra identità.
Proviamo a dirlo con un gioco di parole: i tesori artistici non sono dello «Stato» ma della «nazione».
Cioè nostri. Lo Stato amministra e conserva, ma in ultima analisi la proprietà è degli italiani. Serve un cambio ci atteggiamento in tutti noi. Ci sono benemerite associazioni che recuperano siti, trovano fondi privati, segnalano, alzando la voce, ciò che non va.
Quasi sempre sono volontari. No, non va bene la mentalità che tutto quel che c’è dal mio portone in fuori non mi riguarda. Così si arriva a tristissimi gesti: uno che spacca con un martello l’alluce del David di Michelangelo, altri che per puro divertimento staccano pezzi alla fonte del Nettuno in Piazza della Signoria, altri ancora che appongono con lo spray il loro logo sulla facciata del duomo o su statue e affreschi. È tristissimo. Si parla tanto di emergenza educativa. Ebbene, mettiamoci dentro anche questo. Insegnare a vedere il patrimonio come appunto «patrimonio», la nostra ricchezza, il nostro passato, la nostra identità. Vuol dire non danneggiare, almeno; ma si potrà anche dare una mano quando serve per conservare ciò che mi appartiene. Le parrocchie, con il loro lavoro capillare posso svolgere un ruolo importante.
Molto spesso sono le chiese stesse lo scrigno d’arte. E di arte cristiana, che i nostri padri hanno usato per insegnare, per catechizzare, col risultato che la chiesa era veramente di tutti.
Ma commenti del genere, tra lo scandalizzato e l’ironico, si sono ripetuti costantemente. Lo scorso 6 luglio il «New York Times» pubblicava un reportage severo dal titolo: «Mentre Roma si modernizza, il suo passato tranquillamente si sbriciola». Si riferiva principalmente al deterioramento del Colosseo e della Domus Aurea. È appena uscito un libro di Roberto Ippolito dal titolo «Il bel paese maltrattato» (Bompiani, pagine 382, 18 euro) che passa in rassegna una gran quantità di sciagure al patrimonio artistico nazionale negli ultimi due anni.
Veramente impressionante, non c’è differenza tra nord e sud ne tra i vari schieramenti politici al potere. È una metastasi diffusa.
Danni per incuria come statue e rovine coperte da vegetazione e letteralmente dimenticate, oppure infiltrazioni d’acqua che fanno crollare soffitti e compromettono gli affreschi.
Danni causati da speculazioni e abusivismo, come edifici costruiti in aree archeologiche.
Danni dovuti a lentezze amministrative. Danni – e questi sono i più dolorosi – a opera di vandali. Si dirà che l’Italia ha un patrimonio «troppo grosso» che richiede grandi somme di denaro e tante risorse umane. È verissimo. Ci sono 4739 musei pubblici e privati, 62128 archivi pubblici e privati, 59910 beni archeologici e architettonici, 1144 aree naturali e protette.
Sorge spontanea la domanda: questa ricchezza è un peso o una risorsa? Lasciamo che gli esperti trovino il modo di far rendere i beni culturali in termini economici, se ci riescono. Ma qui il punto è un altro. Questa ricchezza è componente non secondaria della nostra identità.
Proviamo a dirlo con un gioco di parole: i tesori artistici non sono dello «Stato» ma della «nazione».
Cioè nostri. Lo Stato amministra e conserva, ma in ultima analisi la proprietà è degli italiani. Serve un cambio ci atteggiamento in tutti noi. Ci sono benemerite associazioni che recuperano siti, trovano fondi privati, segnalano, alzando la voce, ciò che non va.
Quasi sempre sono volontari. No, non va bene la mentalità che tutto quel che c’è dal mio portone in fuori non mi riguarda. Così si arriva a tristissimi gesti: uno che spacca con un martello l’alluce del David di Michelangelo, altri che per puro divertimento staccano pezzi alla fonte del Nettuno in Piazza della Signoria, altri ancora che appongono con lo spray il loro logo sulla facciata del duomo o su statue e affreschi. È tristissimo. Si parla tanto di emergenza educativa. Ebbene, mettiamoci dentro anche questo. Insegnare a vedere il patrimonio come appunto «patrimonio», la nostra ricchezza, il nostro passato, la nostra identità. Vuol dire non danneggiare, almeno; ma si potrà anche dare una mano quando serve per conservare ciò che mi appartiene. Le parrocchie, con il loro lavoro capillare posso svolgere un ruolo importante.
Molto spesso sono le chiese stesse lo scrigno d’arte. E di arte cristiana, che i nostri padri hanno usato per insegnare, per catechizzare, col risultato che la chiesa era veramente di tutti.
«Avvenire» del 15 ottobre 2010
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