Il nobel a Vargas Llosa
di Francesca Lazzarato
È la prima volta che il massimo riconoscimento letterario va a uno scrittore del Perù: «per la cartografia delle strutture del potere e le immagini taglienti della resistenza, rivolta, sconfitta degli individui», che ha saputo disegnare. Questa la motivazione dell'accademia di Stoccolma. Nel 1990 Vargas Llosa fu in lizza per le presidenziali, poi vinte da Fujimori. La delusione lo spinse a assumere la cittadinanza spagnola. Il suo esordio è legato a racconti datati 1959, ma la fama arrivò con il romanzo La città e i cani, bruciato pubblicamente in piazza a Lima
Come sempre l'Accademia Svedese è riuscita a smentire ogni pronostico e a scompaginare tutte le liste delle anticipazioni: quest'anno il suo ambitissimo riconoscimento è andato al peruviano Mario Vargas Llosa, candidato del Nobel da talmente tanto tempo che tutti, lui compreso, pensavano questa chance ormai tramontata, come a suo tempo lo fu per Borges. La prima a appredere la notizia è stata la sua agente Carmen Balcells (che rappresenta anche gli altri due Nobel di lingua spagnola Garcìa Marquez e Camilo Cela), interpellata perchè dalla Svezia non riuscivano a localizzare lo scrittore, irreperibile in ognuna delle quattro città (Madrid, Londra, Parigi, Lima) in cui trascorre una parte dell'anno. Finalmente rintracciato a New York - dove si trovava in una pausa del corso su Borges che tiene all'università di Princeton - per un attimo Vargas Llosa ha creduto a uno scherzo, e finalmente si è arreso allo stupore. Intanto, alla Fiera del libro in corso a Francoforte, nello stand dell'editore spagnolo Alfaguara, si tiravano fuori vino e bicchieri di plastica, e un pennarello rosso scriveva sulla sua foto: premio Nobel 2010.
Erano esattamente dieci anni, da quando a riceverlo fu il messicano Octavio Paz, che uno scrittore di lingua spagnola non aveva accesso al Nobel. Come si sa, su Vargas Llosa pesava un interdetto squisitamente politico, per via della vulgata che lo vuole trasformato - da antico sostenitorie della rivoluzione cubana negli anni '60 - in un feroce reazionario e iperliberista, candidato nel '90 alle elezioni presidenziali nel suo paese per una eterogena coalizione di centro-destra sconfitta con pochi voti da Alberto Fujimori, che col suo braccio destro Montesinon sarebbe poi diventato uno dei più corrotti e sanguinari dittatori della storia peruviana. Ma, come ha sottolineato su El Paìs lo scrittore colombiano Hector Abad Faciolince, Vargas Llosa, non è affatto un «traditore della causa». Il suo maestro e ispiratore - scrive ancora Faciolince - possono essere considerati Karl Popper, «con la sua difesa della società aperta» e, più in generale, «i pensatori liberali anglosassoni».
In Spagna (paese di cui ha preso nel '94 la nazionalità) lo scrittore ha rifiutato il suo appoggio al Partido Popular per via delle posizioni sulla laicità dello stato e sull'omosessualità. Forse anche le molte, dovute, parole di fuoco scritte, sia come giornalista che come romanziere, contro ogni tipo di dittatura, hanno giustificato la motivazione del Nobel, in cui si sottolinea la sua «cartografia delle strutture di potere e la sua acuta riflessione sulla resistenza dell'individuo, della sua ribellione, e della sua sconfitta». La rappresentazione e l'analisi del potere, ma anche il rifiuto fermissimo del nazionalismo - per lui un autentico «cancro morale» - e del colonialismo - «il crimine più grave mai commesso» - sono temi portanti dell'opera di questo scrittore dalla vitalità prodigiosa. Nato ad Arequipa nel 1936 in una famiglia borghese presto trasferita in Bolivia, ancora giovanissimo prese la strada dell'Europa, lontano da un paese in cui - racconta lui stesso - «tra una guerra e l'altra non c'erano che dittature militari». Ed è in Europa, mentre lavorava all'agenzia France Press (il mestiere di giornalista non l'ha più abbandonato) che Vargas Llosa scrisse il suo primo romanzo, La città e i cani, ambientato in un collegio militare di Lima probabilmente assai simile a quello dove gli occorse trascorrere alcuni anni della sua gioventù.
Tra gli altri suoi titoli più significativi, La casa verde e il magnifico Conversazione nella cattedrale», insieme a Pantaleón e le visitatrici» e all'autobiografico La zia Julia e lo scribacchino in cui narra una vicenda del tutto vera, quella del suo matrimonio con la zia acquisita Julia Urquidi, dalla quale divorzierà per sposare Patricia, una cugina.
I titoli di Vargas Llosa compongono un'opera monumentale che, tra romanzi, pamphlet, raccolte di articoli, pièces teatrali e saggi acuti e raffinati come quelli dedicati a Victor Hugo, Flaubert e Onetti, arriva ai cinquanta volumi: non tutti dello stesso livello, certo, com'è inevitabile in una produzione così vasta, ma per lo più ammirevoli, e capaci di mettere in qualche modo d'accordo critici e pubblico.
Sin dai tempi del cosidetto boom latinoamericano la fortuna anche commerciale di Vargas Llosa non è mai declinata, grazie alla sua straordinaria capacità fabulatoria, che gli ha fruttato traduzioni in oltre trenta lingue. Ma neanche l'attenzione critica nei suoi confronti è mai venuta meno. Dai primi romanzi, così incredibilmente compiuti e maturi, sino alla levità e all'ironia dell'ultima prova pubblicata in italiano Avventure della ragazza cattiva (Einaudi 2006), il suo stile impeccabile, l'architettura rigorosa delle sue opere e il loro trascinante contenuto, insieme all'uso formidabile di una lingua che non esita a ibridarsi e a mutare (Vargas Llosa è grande sostenitore della contaminazione di uno spagnolo che abbraccia due rive dell'Atlantico), ne hanno fatto un maestro riconosciuto, che sa muoversi su piani diversi e persegue la ricerca di un «romanzo totale», capace di ricreare un mondo compiuto, un universo fittizio ma totalmente credibile, più vero del vero: come nelle opere dedicate a tre diverse dittature che hanno oppresso Perù, Brasile e Santo Domingo: Conversazioni nella cattedrale, La guerra della fine del mondo e l'eccezionale Festa del caprone.
Profondamente latinoamericana è la sua consapevolezza della capacità evocativa della storia, che forse ha contribuito a tenerlo lontano dai confini di quel realismo magico al quale, suo malgrado, è stato esemplarmente associatoGarcía Marquez. Proprio con lo scrittore colombiano Vargas Llosa ebbe una celebre lite, nel 1976, motivata probabilmente dalle loro divergenze sulla politica di Fidel Castro: una lite ricomposta solo in occasione degli ottant'anni di García Márquez, che concesse al vecchio amico l'onore di scrivere una premessa alla edizione speciale di Cent'anni di solitudine, realizzata per festeggiare il quarantennale dalla sua pubblicazione. In quella circostanza, Vargas Llosa concesse, a sua volta, la riedizione del celebre saggio del 1971 dedicato all'opera di García Márquez e titolato «Storia di un deicidio», i cui elogi non aveva mai più permesso a nessuno di ripubblicare.
L'ultima tappa della parabola narrativa finora compiuta da Vargas Llosa uscirà tradotta da Glauco Felici per Einaudi (che ha in catalogo l'intera sua opera) nel maggio del 2011 con il titolo Il signore del Celta, e racconterà la tutt'altro che comune vita dell'irlandese Roger Casement, diplomatico al servizio della Corona inglese, grande amico di Joseph Conrad; ma anche cospiratore per la rivoluzione indipendentista irlandese e, soprattutto, primo a denunciare gli orrori e i genocidi perpetrati dal colonialismo belga in Congo, di cui fu console all'inizio del XX secolo, all'epoca del boom del caucciù. Un personaggio, quello disegnato da Vargas Llosa, dalle sfaccettature molteplici: eroe, pioniere, rivoluzionario, ma anche traditore della patria e infine colpito dall'accusa delle peggiori perversioni sessuali. Finì impiccato in Inghilterra, accusato di alto tradimento, nonostante le proteste di personaggi quali Arthur Conan Doyle, William Butler Yeats o George Bernard Shaw. Vargas Llosa si è imbattuto in questa storia per caso e, dopo un lungo lavoro di documentazione, ha dato vita a un personaggio enigmatico e complesso, che denuncia con veemenza gli orrori e gli errori del colonialismo europeo in Africa, e precisamente nel Congo di Leopoldo II, dove si commettevano - scrive l'autore - «le più spaventose atrocità nell'impunità più assoluta». Ancora da completare, invece, un saggio che si intitolerà La civilización del espectáculo, dove afferma che «in una epoca in cui nessuno sa cos'è buono e cos'è cattivo, cos'è brutto o bello... ciò che non passa per lo spettacolo non è cultura.»
E spettacolo, in queste ore di fribillante Fiera del libro di Francoforte, è diventata anche l'assegnazione del Nobel a uno scrittore che, dopo tanta ombra, torna a illuminare in pieno lo scenario della letteratura latinoamericana, per troppo tempo esiliata dal nostro orizzonte. Il giubilo unanime con cui in Spagna e in Sudamerica è stata accolto il Nobel la dice lunga sull'orgoglio delle letterature iberiche, così capaci di rinnovarsi e di procedere lungo una linea che non trascura mai la realtà anche quando la trasfigura, che non è mai neutrale, che non si astiene dal prendere posizione per ripiegare su storie solo ed esclusivamente «private».
Come sempre l'Accademia Svedese è riuscita a smentire ogni pronostico e a scompaginare tutte le liste delle anticipazioni: quest'anno il suo ambitissimo riconoscimento è andato al peruviano Mario Vargas Llosa, candidato del Nobel da talmente tanto tempo che tutti, lui compreso, pensavano questa chance ormai tramontata, come a suo tempo lo fu per Borges. La prima a appredere la notizia è stata la sua agente Carmen Balcells (che rappresenta anche gli altri due Nobel di lingua spagnola Garcìa Marquez e Camilo Cela), interpellata perchè dalla Svezia non riuscivano a localizzare lo scrittore, irreperibile in ognuna delle quattro città (Madrid, Londra, Parigi, Lima) in cui trascorre una parte dell'anno. Finalmente rintracciato a New York - dove si trovava in una pausa del corso su Borges che tiene all'università di Princeton - per un attimo Vargas Llosa ha creduto a uno scherzo, e finalmente si è arreso allo stupore. Intanto, alla Fiera del libro in corso a Francoforte, nello stand dell'editore spagnolo Alfaguara, si tiravano fuori vino e bicchieri di plastica, e un pennarello rosso scriveva sulla sua foto: premio Nobel 2010.
Erano esattamente dieci anni, da quando a riceverlo fu il messicano Octavio Paz, che uno scrittore di lingua spagnola non aveva accesso al Nobel. Come si sa, su Vargas Llosa pesava un interdetto squisitamente politico, per via della vulgata che lo vuole trasformato - da antico sostenitorie della rivoluzione cubana negli anni '60 - in un feroce reazionario e iperliberista, candidato nel '90 alle elezioni presidenziali nel suo paese per una eterogena coalizione di centro-destra sconfitta con pochi voti da Alberto Fujimori, che col suo braccio destro Montesinon sarebbe poi diventato uno dei più corrotti e sanguinari dittatori della storia peruviana. Ma, come ha sottolineato su El Paìs lo scrittore colombiano Hector Abad Faciolince, Vargas Llosa, non è affatto un «traditore della causa». Il suo maestro e ispiratore - scrive ancora Faciolince - possono essere considerati Karl Popper, «con la sua difesa della società aperta» e, più in generale, «i pensatori liberali anglosassoni».
In Spagna (paese di cui ha preso nel '94 la nazionalità) lo scrittore ha rifiutato il suo appoggio al Partido Popular per via delle posizioni sulla laicità dello stato e sull'omosessualità. Forse anche le molte, dovute, parole di fuoco scritte, sia come giornalista che come romanziere, contro ogni tipo di dittatura, hanno giustificato la motivazione del Nobel, in cui si sottolinea la sua «cartografia delle strutture di potere e la sua acuta riflessione sulla resistenza dell'individuo, della sua ribellione, e della sua sconfitta». La rappresentazione e l'analisi del potere, ma anche il rifiuto fermissimo del nazionalismo - per lui un autentico «cancro morale» - e del colonialismo - «il crimine più grave mai commesso» - sono temi portanti dell'opera di questo scrittore dalla vitalità prodigiosa. Nato ad Arequipa nel 1936 in una famiglia borghese presto trasferita in Bolivia, ancora giovanissimo prese la strada dell'Europa, lontano da un paese in cui - racconta lui stesso - «tra una guerra e l'altra non c'erano che dittature militari». Ed è in Europa, mentre lavorava all'agenzia France Press (il mestiere di giornalista non l'ha più abbandonato) che Vargas Llosa scrisse il suo primo romanzo, La città e i cani, ambientato in un collegio militare di Lima probabilmente assai simile a quello dove gli occorse trascorrere alcuni anni della sua gioventù.
Tra gli altri suoi titoli più significativi, La casa verde e il magnifico Conversazione nella cattedrale», insieme a Pantaleón e le visitatrici» e all'autobiografico La zia Julia e lo scribacchino in cui narra una vicenda del tutto vera, quella del suo matrimonio con la zia acquisita Julia Urquidi, dalla quale divorzierà per sposare Patricia, una cugina.
I titoli di Vargas Llosa compongono un'opera monumentale che, tra romanzi, pamphlet, raccolte di articoli, pièces teatrali e saggi acuti e raffinati come quelli dedicati a Victor Hugo, Flaubert e Onetti, arriva ai cinquanta volumi: non tutti dello stesso livello, certo, com'è inevitabile in una produzione così vasta, ma per lo più ammirevoli, e capaci di mettere in qualche modo d'accordo critici e pubblico.
Sin dai tempi del cosidetto boom latinoamericano la fortuna anche commerciale di Vargas Llosa non è mai declinata, grazie alla sua straordinaria capacità fabulatoria, che gli ha fruttato traduzioni in oltre trenta lingue. Ma neanche l'attenzione critica nei suoi confronti è mai venuta meno. Dai primi romanzi, così incredibilmente compiuti e maturi, sino alla levità e all'ironia dell'ultima prova pubblicata in italiano Avventure della ragazza cattiva (Einaudi 2006), il suo stile impeccabile, l'architettura rigorosa delle sue opere e il loro trascinante contenuto, insieme all'uso formidabile di una lingua che non esita a ibridarsi e a mutare (Vargas Llosa è grande sostenitore della contaminazione di uno spagnolo che abbraccia due rive dell'Atlantico), ne hanno fatto un maestro riconosciuto, che sa muoversi su piani diversi e persegue la ricerca di un «romanzo totale», capace di ricreare un mondo compiuto, un universo fittizio ma totalmente credibile, più vero del vero: come nelle opere dedicate a tre diverse dittature che hanno oppresso Perù, Brasile e Santo Domingo: Conversazioni nella cattedrale, La guerra della fine del mondo e l'eccezionale Festa del caprone.
Profondamente latinoamericana è la sua consapevolezza della capacità evocativa della storia, che forse ha contribuito a tenerlo lontano dai confini di quel realismo magico al quale, suo malgrado, è stato esemplarmente associatoGarcía Marquez. Proprio con lo scrittore colombiano Vargas Llosa ebbe una celebre lite, nel 1976, motivata probabilmente dalle loro divergenze sulla politica di Fidel Castro: una lite ricomposta solo in occasione degli ottant'anni di García Márquez, che concesse al vecchio amico l'onore di scrivere una premessa alla edizione speciale di Cent'anni di solitudine, realizzata per festeggiare il quarantennale dalla sua pubblicazione. In quella circostanza, Vargas Llosa concesse, a sua volta, la riedizione del celebre saggio del 1971 dedicato all'opera di García Márquez e titolato «Storia di un deicidio», i cui elogi non aveva mai più permesso a nessuno di ripubblicare.
L'ultima tappa della parabola narrativa finora compiuta da Vargas Llosa uscirà tradotta da Glauco Felici per Einaudi (che ha in catalogo l'intera sua opera) nel maggio del 2011 con il titolo Il signore del Celta, e racconterà la tutt'altro che comune vita dell'irlandese Roger Casement, diplomatico al servizio della Corona inglese, grande amico di Joseph Conrad; ma anche cospiratore per la rivoluzione indipendentista irlandese e, soprattutto, primo a denunciare gli orrori e i genocidi perpetrati dal colonialismo belga in Congo, di cui fu console all'inizio del XX secolo, all'epoca del boom del caucciù. Un personaggio, quello disegnato da Vargas Llosa, dalle sfaccettature molteplici: eroe, pioniere, rivoluzionario, ma anche traditore della patria e infine colpito dall'accusa delle peggiori perversioni sessuali. Finì impiccato in Inghilterra, accusato di alto tradimento, nonostante le proteste di personaggi quali Arthur Conan Doyle, William Butler Yeats o George Bernard Shaw. Vargas Llosa si è imbattuto in questa storia per caso e, dopo un lungo lavoro di documentazione, ha dato vita a un personaggio enigmatico e complesso, che denuncia con veemenza gli orrori e gli errori del colonialismo europeo in Africa, e precisamente nel Congo di Leopoldo II, dove si commettevano - scrive l'autore - «le più spaventose atrocità nell'impunità più assoluta». Ancora da completare, invece, un saggio che si intitolerà La civilización del espectáculo, dove afferma che «in una epoca in cui nessuno sa cos'è buono e cos'è cattivo, cos'è brutto o bello... ciò che non passa per lo spettacolo non è cultura.»
E spettacolo, in queste ore di fribillante Fiera del libro di Francoforte, è diventata anche l'assegnazione del Nobel a uno scrittore che, dopo tanta ombra, torna a illuminare in pieno lo scenario della letteratura latinoamericana, per troppo tempo esiliata dal nostro orizzonte. Il giubilo unanime con cui in Spagna e in Sudamerica è stata accolto il Nobel la dice lunga sull'orgoglio delle letterature iberiche, così capaci di rinnovarsi e di procedere lungo una linea che non trascura mai la realtà anche quando la trasfigura, che non è mai neutrale, che non si astiene dal prendere posizione per ripiegare su storie solo ed esclusivamente «private».
«Il manifesto» dell'8 ottobre 2010
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