Finalmente il Nobel per la pace a Liu Xiaobo
di Gerolamo Fazzini
C’è del coraggio, in Norvegia. Assegnando il Premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, le vestali di Stoccolma hanno finalmente mostrato fegato, dopo alcune scelte politicamente corrette quanto discutibili, dall’ 'ambientalista' Al Gore al neoeletto Obama. Premiando Liu, viene innanzitutto riconosciuta la straordinaria statura morale di una figura che ha pagato di persona un prezzo altissimo (anni di carcere) per i suoi ideali. Arrestato con l’accusa di «sovversione contro lo Stato», Liu non si è mai reso protagonista di atti di violenza, avendo sempre preferito combattere il regime a colpi di penna. Ma 'servire il popolo' aprendo gli occhi alla gente sulla realtà è l’attività più sovversiva che il governo cinese possa concepire.
Perciò, quando il presidente del Comitato per l’assegnazione del premio Nobel, afferma che Liu «è il simbolo più eminente dell’ampia lotta per i diritti umani in Cina», non sta facendo retorica. Ideatore di 'Carta 08' – la lettera-appello ai governanti diffusa nel dicembre 2008, una sorta di manifesto di una 'nuova Cina', in cui libertà e democrazia hanno finalmente cittadinanza – Liu Xiaobo rappresenta la punta di diamante di un movimento di attivisti, intellettuali, ex funzionari di partito che, sebbene allo stato nascente, sta cercando di cambiare la Cina dal basso. Ma che, proprio per questo, è osteggiato durissimamente da Pechino, come confermato dalla scomposta reazione che il governo cinese ha avuto all’annuncio da Stoccolma. Siti internet bloccati, censura in azione, blocco dell’informazione: un copione cui la Cina popolare ci ha abituati ogni volta in cui - ricordate il duello con Google? - i nuovi mandarini hanno la sensazione che sfugga loro il controllo dell’opinione pubblica.
Già da mesi le autorità cinesi non avevano fatto mistero della loro contrarietà all’ipotesi del prestigioso riconoscimento internazionale a Liu. Un paio d’anni fa, in analogo contesto, le autorità di Pechino avevano etichettato un altro dissidente Hu Jia come 'criminale', semplicemente per aver espresso, in forma del tutto pacifica, una serie di critiche al regime.
«Huai dan» (letteralmente 'uova marce', ossia ) è il titolo di una mostra dedicata a Liu Xiaobo e ai suoi 'fratelli', uniti nella denuncia.
Ebbene, rifuggendo ai ricatti e riconoscendo il valore di una persona come Liu Xiaobo, i giurati di Stoccolma mandano a dire a Pechino che la Cina ha bisogno delle «uova marce», di quei sovversivi che, come nel caso di Liu Xiaobo, ma anche di Gao Zhisheng, Han Dongfang e Hu Jia, hanno scoperto la fede cristiana come radice del loro impegno in difesa dei diritti umani.
Così facendo, Stoccolma finalmente ha fatto cadere il muro di omertà e connivenza che l’Occidente ha mantenuto in questi anni nei confronti di una situazione gravissima quale i diritti umani in Cina.
Per cambiare, la Cina non può fare a meno dell’Occidente. Come ha scritto Li Datong, un ex giornalista di partito passato dall’altra parte della barricata: «Le pressioni internazionali a favore delle riforme politiche sono essenziali per lo sviluppo della Cina. Senza di esse, i suoi governanti ricadrebbero nella confortante sicurezza del potere illimitato».
Se le cose stanno così, questo Nobel affida una tremenda responsabilità all’Occidente, perché non c’è peggior servizio che possiamo fare alla causa della 'nuova Cina' riducendo Liu Xiaobo a nuova icona, come San Suu Kyi e altri, e poi dimenticandolo ...
Perciò, quando il presidente del Comitato per l’assegnazione del premio Nobel, afferma che Liu «è il simbolo più eminente dell’ampia lotta per i diritti umani in Cina», non sta facendo retorica. Ideatore di 'Carta 08' – la lettera-appello ai governanti diffusa nel dicembre 2008, una sorta di manifesto di una 'nuova Cina', in cui libertà e democrazia hanno finalmente cittadinanza – Liu Xiaobo rappresenta la punta di diamante di un movimento di attivisti, intellettuali, ex funzionari di partito che, sebbene allo stato nascente, sta cercando di cambiare la Cina dal basso. Ma che, proprio per questo, è osteggiato durissimamente da Pechino, come confermato dalla scomposta reazione che il governo cinese ha avuto all’annuncio da Stoccolma. Siti internet bloccati, censura in azione, blocco dell’informazione: un copione cui la Cina popolare ci ha abituati ogni volta in cui - ricordate il duello con Google? - i nuovi mandarini hanno la sensazione che sfugga loro il controllo dell’opinione pubblica.
Già da mesi le autorità cinesi non avevano fatto mistero della loro contrarietà all’ipotesi del prestigioso riconoscimento internazionale a Liu. Un paio d’anni fa, in analogo contesto, le autorità di Pechino avevano etichettato un altro dissidente Hu Jia come 'criminale', semplicemente per aver espresso, in forma del tutto pacifica, una serie di critiche al regime.
«Huai dan» (letteralmente 'uova marce', ossia ) è il titolo di una mostra dedicata a Liu Xiaobo e ai suoi 'fratelli', uniti nella denuncia.
Ebbene, rifuggendo ai ricatti e riconoscendo il valore di una persona come Liu Xiaobo, i giurati di Stoccolma mandano a dire a Pechino che la Cina ha bisogno delle «uova marce», di quei sovversivi che, come nel caso di Liu Xiaobo, ma anche di Gao Zhisheng, Han Dongfang e Hu Jia, hanno scoperto la fede cristiana come radice del loro impegno in difesa dei diritti umani.
Così facendo, Stoccolma finalmente ha fatto cadere il muro di omertà e connivenza che l’Occidente ha mantenuto in questi anni nei confronti di una situazione gravissima quale i diritti umani in Cina.
Per cambiare, la Cina non può fare a meno dell’Occidente. Come ha scritto Li Datong, un ex giornalista di partito passato dall’altra parte della barricata: «Le pressioni internazionali a favore delle riforme politiche sono essenziali per lo sviluppo della Cina. Senza di esse, i suoi governanti ricadrebbero nella confortante sicurezza del potere illimitato».
Se le cose stanno così, questo Nobel affida una tremenda responsabilità all’Occidente, perché non c’è peggior servizio che possiamo fare alla causa della 'nuova Cina' riducendo Liu Xiaobo a nuova icona, come San Suu Kyi e altri, e poi dimenticandolo ...
«Avvenire» del 9 ottobre 2010
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