09 ottobre 2010

La coscienza di Michele

L'inferno è fare male ed essere soli
di Marina Corradi
Nella tragedia di Avetrana, una delle più atroci che le cronache di questi anni abbiano raccontato, c’è un punto che ap­pare in contraddizione con il fiume di ma­le che ha travolto una ragazza di quindici anni. Perché ad Avetrana ripugnante è la li­bidine di un uomo, che di quella ragazza e­ra come un padre; e raggelante è il silenzio che quest’uomo ha saputo mantenere per un mese, mentre appariva in tv con i suoi limpidi occhi chiari. Come un rigurgito di male, un conato di abissi, venuto su in un piccolo sconosciuto paese del Sud. Accade, talvolta, e ogni volta noi a domandarci co­sa è stato, come è stato possibile che una madre a Cogne, che un 'buon uomo' ad A­vetrana, abbiano potuto; dimentichi, appe­na lo possiamo, di quanto grande sia la for­za del male. Ma ad Avetrana c’è quel particolare che stu­pisce. Non c’era alcuna prova contro l’as­sassino; nessuno aveva visto. Si parlava di ra­pimento. Si sospettava di altri. Col tempo i riflettori sul paese si sarebbero spenti, le te­lecamere se ne sarebbero andate, e il mi­stero sulla fine di Sara sarebbe rimasto per sempre. Che cosa, dunque, ha spinto Mi­chele Misseri a fingere di trovare il telefoni­no della nipote? L’uomo ha confessato che già da tre giorni l’aveva lasciato su una stra­da, in evidenza, sperando che qualcuno lo vedesse. E siccome invece questo non suc­cedeva, lui stesso si è spinto a dire d’averlo per caso ritrovato in campagna. Cosa in­credibile, naturalmente: e gli occhi degli in­quirenti si sono puntati su quel 'buon uo­mo'.
Perché dunque il cellulare, che sembrava dire «prendetemi, sono stato io»? Perché, ha detto lo stesso Misseri, il ricordo di quel che aveva fatto non era tollerabile. Perché l’im­magine di Sara gli era davanti agli occhi in ogni istante; e ogni notte tornava, chieden­do la pietà di rivestirla. Non mentiva l’as­sassino, almeno quando piangendo diceva davanti alle telecamere: «Ho sempre Sara in mente». Era vero. In quel pozzo, insieme al corpo di lei, anche il carnefice era sprofon­dato, in un pomeriggio di fine estate.
E nessuno sapeva, e nessuno osava imma­ginare che a uccidere potesse essere stato u­no che quella bambina bionda l’aveva te­nuta sulle ginocchia come u­na figlia. Ma qualcosa den­tro premeva insopportabil­mente, tanto da obbligare a tradirsi. Cosa, se non la co­scienza? Nonostante il delit­to bestiale, nonostante l’a­trocità e il nascondimento a­bile, freddo, qualcosa resta anche in fondo al peggiore assassino – una voce che non si riesce a zittire in alcun mo­do. La consapevolezza del male è un’evidenza stampa­ta nell’uomo; per quanto cancellata, negata, non tace. Non è ancora rimorso ciò che ha spinto l’as­sassino di Avetrana a tradirsi. È invece l’in­sopportabile angoscia di trovarsi, di fronte a quel ricordo, totalmente solo. Nessuno con cui poter parlare del fantasma che lo inse­guiva, di quella figura esile e bionda che gli chiedeva l’ultima pietà di coprirne i resti. Assolutamente nessuno. Un giogo come un macigno, da reggere solo; facendo finta di niente, a tavola con la famiglia, la sera. In mezzo agli altri, ma solo nel suo pozzo, com­plementare e simmetrico a quello in cui a­veva sepolto la nipote. L’inferno, disse Sar­tre, 'sono gli altri', ma è vero il contrario: l’inferno è essere soli. Con quel volto genti­le sempre davanti, e nessuno a cui poter di­re una parola. Così che, ha detto Misseri, è stato un sollie­vo confessare, e perfino portare i carabinie­ri laggiù, in campagna, nella notte. Forse perfino le maledizioni e gli insulti degli al­tri, in carcere, ora, sono meglio che quella terrificata solitudine. Con una voce dal profondo che però premeva, gridava. L’an­sia di confessare e quindi di tornare fra i vi­vi, fra gli uomini, se pure come il più spie­tato degli assassini. La coscienza soffocata, che però costringe e non dà pace. Avetrana, storia di inferi, dice però che qualcosa an­che nel fondo del buio, anche nel peggiore degli uomini, ostinatamente si oppone al­l’orrore del male e del nulla.
«Avvenire» del 9 ottobre 2010

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