di Bill Emmott
Non è sempre noto per il suo coraggio. Troppo spesso, asseconda con debolezza sentimenti alla moda. Ma quest’anno il Comitato per il Nobel per la Pace ha fatto una scelta coraggiosa e ammirevole con Liu Xiaobo, il dissidente che la Cina ha condannato l’anno scorso a 11 anni di carcere per il terribile delitto di propaganda per la democrazia. Rude e scomposta la replica della Cina, che ha definito la scelta un’offesa. Che potrebbe, in modo non meglio precisato, danneggiare le relazioni tra Cina e Norvegia, non fa che confermare la validità e il merito della scelta.
Qualcuno potrebbe dissentire: diranno che il premio per la Pace dovrebbe andare a chi promuove la pace internazionale, piuttosto che a quelli, come il signor Liu, che tengono campagne per i diritti umani e la democrazia all’interno dei loro Paesi. Questo riconoscimento è, secondo la Cina, un’ingerenza nella sua politica interna e nella sua sovranità.
Sì, lo è, vorrei rispondere, ed è per questo che mi piace. Altri governi o istituzioni internazionali non sono in grado di interferire nella sovranità nazionale. Rischiano di essere accusati di ipocrisia - come è possibile che governi impegnati a espellere gli zingari rom, a dare in gestione la politica di immigrazione alla Libia o a chiudere in galera senza un vero processo persone sospettate di terrorismo diano ad altri lezioni sui diritti umani? E poi devono tenere in considerazione altri interessi, troppi, compresi il commercio e la sicurezza. Ma il Comitato del Premio Nobel per la Pace può farlo liberamente: risponde soltanto alla Fondazione Nobel, al Parlamento norvegese e, più genericamente, all’opinione pubblica mondiale. Il fatto che la Norvegia non sia membro dell’Unione europea è un vantaggio: il comitato non ha bisogno di sentirsi vincolato dalla diplomazia europea o dalle sottigliezze dello sforzo per forgiare una politica estera e una rete di sicurezza comuni.
Per chiunque non sia ipocrita, Liu Xiaobo è una causa eccellente, come lo era quando le fu assegnato il Premio per la Pace nel 1991 Aung San Suu Kyi, l’attivista birmana incarcerata perché vuole la democrazia. Dal massacro di piazza Tienanmen nel 1989, che fu la risposta alle proteste per migliori condizioni e per il controllo dell’inflazione da parte dei lavoratori e a quelle degli studenti per la democrazia, la campagna per la riforma politica in Cina è diventata in gran parte sotterranea. A poco a poco, nei successivi 20 anni, via via che nel Paese crescevano la ricchezza e, sotto molti aspetti, la libertà, è diventato lecito parlare, in termini generali, a favore della democrazia. Ma due cose sono rimaste un anatema per le autorità cinesi: il primo atto inaccettabile è mettere direttamente in discussione il ruolo, attuale o futuro, del Partito comunista nel governo della Cina, il secondo è quello di tradurre le dichiarazioni individuali in un gruppo in qualche modo organizzato.
Due anni fa il signor Liu ha fatto entrambe queste cose inaccettabili: ha collaborato alla redazione di un manifesto chiamato Carta 08 in omaggio al movimento Charta 77, guidato in Cecoslovacchia durante la Guerra fredda da Vaclav Havel, che chiedeva la democrazia pluralista e di fatto la fine del monopolio del potere del Partito comunista. E, invitando altri a firmare la Carta, lui e i suoi colleghi firmatari minacciavano di diventare un vero nucleo di opposizione alle autorità. Per questo motivo è stato immediatamente arrestato, per intimidire gli altri. Fino all’assegnazione del Premio Nobel della Pace, il sistema ha funzionato.
Probabilmente funzionerà ancora. Sebbene la diffusione di Internet e la proliferazione di giornali e riviste abbiano complicato il compito delle autorità nel mettere a tacere il dissenso, riescono ancora a farlo con notevole successo. I redattori sanno dove corrono le linee rosse e obbediscono. La critica delle politiche pubbliche è consentita e in qualche caso anche incoraggiata come una sorta di valvola di sicurezza e di responsabilità pubblica, ma la critica del sistema politico non lo è. La discussione sovversiva su Internet è rapidamente individuata e messa a tacere. Liu è, di conseguenza, quasi sconosciuto in Cina.
Ciononostante, un premio di questo tipo, con tutta l’attenzione internazionale e la copertura mediatica che attira, aumenta per le autorità cinesi la difficoltà di controllare il flusso delle informazioni. Rende inoltre più difficile per i governi stranieri ignorare il problema.
Quasi certamente, quando il passaggio della Cina a una qualche forma di democrazia sarà storia, probabilmente in un momento in cui la diffusione della tassazione sui redditi provocherà l’irresistibile esigenza di rappresentanza della classe media, il Nobel per la Pace di quest’anno meriterà solo una nota a piè di pagina. Ma è una nota ammirevole, una nota di cui il Comitato del Premio per la Pace può essere giustamente orgoglioso. Ed è una nota che si distingue per la piccola possibilità di diffondere il passaparola della democrazia all’interno della Cina e, cosa altrettanto importante, per il coraggio e per i principi.
Qualcuno potrebbe dissentire: diranno che il premio per la Pace dovrebbe andare a chi promuove la pace internazionale, piuttosto che a quelli, come il signor Liu, che tengono campagne per i diritti umani e la democrazia all’interno dei loro Paesi. Questo riconoscimento è, secondo la Cina, un’ingerenza nella sua politica interna e nella sua sovranità.
Sì, lo è, vorrei rispondere, ed è per questo che mi piace. Altri governi o istituzioni internazionali non sono in grado di interferire nella sovranità nazionale. Rischiano di essere accusati di ipocrisia - come è possibile che governi impegnati a espellere gli zingari rom, a dare in gestione la politica di immigrazione alla Libia o a chiudere in galera senza un vero processo persone sospettate di terrorismo diano ad altri lezioni sui diritti umani? E poi devono tenere in considerazione altri interessi, troppi, compresi il commercio e la sicurezza. Ma il Comitato del Premio Nobel per la Pace può farlo liberamente: risponde soltanto alla Fondazione Nobel, al Parlamento norvegese e, più genericamente, all’opinione pubblica mondiale. Il fatto che la Norvegia non sia membro dell’Unione europea è un vantaggio: il comitato non ha bisogno di sentirsi vincolato dalla diplomazia europea o dalle sottigliezze dello sforzo per forgiare una politica estera e una rete di sicurezza comuni.
Per chiunque non sia ipocrita, Liu Xiaobo è una causa eccellente, come lo era quando le fu assegnato il Premio per la Pace nel 1991 Aung San Suu Kyi, l’attivista birmana incarcerata perché vuole la democrazia. Dal massacro di piazza Tienanmen nel 1989, che fu la risposta alle proteste per migliori condizioni e per il controllo dell’inflazione da parte dei lavoratori e a quelle degli studenti per la democrazia, la campagna per la riforma politica in Cina è diventata in gran parte sotterranea. A poco a poco, nei successivi 20 anni, via via che nel Paese crescevano la ricchezza e, sotto molti aspetti, la libertà, è diventato lecito parlare, in termini generali, a favore della democrazia. Ma due cose sono rimaste un anatema per le autorità cinesi: il primo atto inaccettabile è mettere direttamente in discussione il ruolo, attuale o futuro, del Partito comunista nel governo della Cina, il secondo è quello di tradurre le dichiarazioni individuali in un gruppo in qualche modo organizzato.
Due anni fa il signor Liu ha fatto entrambe queste cose inaccettabili: ha collaborato alla redazione di un manifesto chiamato Carta 08 in omaggio al movimento Charta 77, guidato in Cecoslovacchia durante la Guerra fredda da Vaclav Havel, che chiedeva la democrazia pluralista e di fatto la fine del monopolio del potere del Partito comunista. E, invitando altri a firmare la Carta, lui e i suoi colleghi firmatari minacciavano di diventare un vero nucleo di opposizione alle autorità. Per questo motivo è stato immediatamente arrestato, per intimidire gli altri. Fino all’assegnazione del Premio Nobel della Pace, il sistema ha funzionato.
Probabilmente funzionerà ancora. Sebbene la diffusione di Internet e la proliferazione di giornali e riviste abbiano complicato il compito delle autorità nel mettere a tacere il dissenso, riescono ancora a farlo con notevole successo. I redattori sanno dove corrono le linee rosse e obbediscono. La critica delle politiche pubbliche è consentita e in qualche caso anche incoraggiata come una sorta di valvola di sicurezza e di responsabilità pubblica, ma la critica del sistema politico non lo è. La discussione sovversiva su Internet è rapidamente individuata e messa a tacere. Liu è, di conseguenza, quasi sconosciuto in Cina.
Ciononostante, un premio di questo tipo, con tutta l’attenzione internazionale e la copertura mediatica che attira, aumenta per le autorità cinesi la difficoltà di controllare il flusso delle informazioni. Rende inoltre più difficile per i governi stranieri ignorare il problema.
Quasi certamente, quando il passaggio della Cina a una qualche forma di democrazia sarà storia, probabilmente in un momento in cui la diffusione della tassazione sui redditi provocherà l’irresistibile esigenza di rappresentanza della classe media, il Nobel per la Pace di quest’anno meriterà solo una nota a piè di pagina. Ma è una nota ammirevole, una nota di cui il Comitato del Premio per la Pace può essere giustamente orgoglioso. Ed è una nota che si distingue per la piccola possibilità di diffondere il passaparola della democrazia all’interno della Cina e, cosa altrettanto importante, per il coraggio e per i principi.
(traduzione di Carla Reschia)
«La Stampa» del 9 ottobre 2010
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