di Luigi Mascheroni
Se meritò come soprannome di «Vate», cioè profeta, è perché aveva il dono di precedere gli altri, nel pensiero, nel vivere, nel gusto. Abituato a non curarsi di ciò che gli si parava di fronte, lasciò un segno sugli eventi che accaddero dietro di lui. In letteratura, in politica, nello stile.
Orbo di un occhio ma Veggente, Decadente eppure modernissimo, Superuomo e casalingo, notturno e appartato, in realtà divo e vip ante litteram, Gabriele D’Annunzio si rivela sempre l’opposto dell’uomo di cui ci si ricorda o che gli storici si preoccupano di ricordaci. Entri al Vittoriale degli Italiani, la cittadella che tra gli anni Venti e Trenta del Novecento si fece costruire sul lago di Garda, e ti aspetti il mausoleo del poeta-soldato o l’alcova del dandy-esteta. Ma poi ti imbatti nel «D’Annunzio segreto», che è il nome del nuovo museo aperto nel Vittoriale da Giordano Bruno Guerri, storico e biografo dannunziano, da due anni attivissimo presidente della Fondazione che gestisce il complesso monumentale di Gardone Riviera.
Collocato sotto l’Anfiteatro, all’interno di uno spazio un tempo adibito a magazzino, il museo viene inaugurato oggi dopo mesi di ricerche, ristrutturazioni, progetti. E un’idea: aprire le centinaia di cassetti e armadi rimasti intatti dopo la morte dello scrittore, per mostrarne per la prima volta al pubblico, e d’ora in poi in maniera permanete, l’incredibile contenuto. Oggetti fino a oggi invisibili che tornano a raccontare la vita intima del loro Signore e Padrone.
Eccoci qui, allora, a visitarlo in anteprima, mentre l’architetto Angelo Bucarelli sta ultimando l’allestimento. All’entrata sei monitor su cui scorrono filmati di repertorio provenienti dall’Istituto Luce e dall’archivio Rai, e poi avanti, come urlò una volta, «verso la vita». Che nel caso di D’Annunzio, come in pochi altri, coincide con l’arte. Nelle imprese, nelle opere, negli oggetti d’uso comune. Ecco perché è lui il vero padre del gusto e dello stile italiano.
Appena dentro, in una grande teca è racchiuso il lato femmineo di D’Annunzio: tutti gli oggetti e i capi di abbigliamento che sceglieva per le sue amanti, le «badesse di passaggio» obbligate, quando entravano al Vittoriale, a spogliarsi dei propri abiti e a indossare quelli che il «Priore» D’Annunzio aveva preparato per loro: vestaglie trasparenti, scialli, accappatoi, sandali dorati, profumi, ciprie, pettini, spazzole, specchi, portagioie e forbici d’argento.
Poi un’enorme vetrina a parete con il guardaroba del Vate, o perlomeno la parte fino a oggi segreta: abbiamo contato 40 paia di scarpe, tutte artigianali, da camera, da sera, da giorno, da cerimonia, da notte (un modello, fatto a mano, con un piccolo fallo rosa sulla linguetta e sotto, a rafforzare il concetto, un pesce), bianche, nere, in cuoio, di pelle, coi lacci, con le ghette, basse, alla caviglia, a scarponcino, e poi una dozzina di stivali, e poi ancora bastoni, guanti, foulard, fazzoletti, calzascarpe, tube, bombette, cappelli e cappelliere, bretelle, babbucce orientali, vestaglie, giacche da notte, camicioni.
Uno larghissimo, bianco, che indossava in tarda età, quando aveva vergogna a mostrare il proprio corpo, lungo fino ai piedi ma con un’apertura sul davanti, per potere usare in ogni momento la sua «catapulta inarrestabile». E poi decine di manichini con abiti, frac, cappotti, tutti ideati e firmati da D’Annunzio. Il quale, negli ultimi anni di vita, cosa poco nota, iniziò a disegnare e produrre abiti sartoriali. Ideò, ed è qui in mostra, persino un’etichetta: «Gabriel Nuntius Fecit». Più che un esteta, uno stilista.
Come disse una volta a Giancarlo Maroni, l’architetto del Vittoriale: «Sono miglior arredatore che poeta». E infatti le pareti e le colonne che dividono gli spazi del museo sono ricoperte con le tappezzerie e i tessuti disegnati da lui stesso per la villa, la «Prioria», oppure, come un racconto nel racconto, con le riproduzioni degli autografi del poeta. C’è una colonna con gli «Appunti di ginnastica da camera» con gli esempi dei vari esercizi schizzati dallo stesso D’Annunzio e una colonna con tutti i bigliettini che Ariel o Gabriel, a seconda dello pseudonimo, lasciava alla sua amata cuoca, Albina, che chiamava Suor Intingola e alla quale, magari, lasciava 300 lire di mancia, equivalenti allo stipendio di un mese, per una buona frittata. Una delle poche cose di cui il poeta, frugale e astemio, era goloso. Lettere come questa: «Mia cara Albina, l’accordo di queste tre cose fritte è sublime. Avevo sognato questo piatto stamani. Ma la tua arte misteriosa va al di là del sogno», datato 26 settembre 1930. Oppure: «Per me non c’è al mondo nessun sapore più squisito della pernice fredda. Ho mangiato tutto ed ho leccato gli ossetti col rammarico che anche una pernice fredda abbia una fine».
In un angolo ci sono i bauli da viaggio, con gli scompartimenti per le scarpe, gli stivali, le camicie... In una teca c’è il necessario per la toilette: rasoi d’argento, asciugamani cifrati, pennelli da barba, spazzolini, flaconi di profumo, acqua di colonia delle marche preferite: Florodor o Chantilly, fatte arrivare da Parigi. Ci sono i gioielli – che Giordano Bruno Guerri è andato in mattinata, scortato, a prelevare nel caveau di una banca di Gardone, dove erano custoditi da decenni – tra i quali collane da donna, gemelli dipinti a mano, medaglie, l’anello d’oro che D’Annunzio portava al dito il giorno del volo su Vienna, e che per lui era un oggetto scaramantico... E c’è la vetrina dedicata ai suoi adorati cani: museruole, frustini, guinzagli, i collari chiodati con le placchette d’argento con incisi i nomi degli animali, che in tarda età il poeta chiamava tutti con nomi che iniziavano per «DAN»: Danzetta, Danchi, Danneggio, Dangiero.
C’è un biglietto, senza data, inviato all’Hotel Cristallo di Cortina alla sua ultima compagna, Luisa Baccara, dalla lettura del quale si fatica a capire se D’Annunzio sia più preoccupato per i suoi levrieri o per l’amata: «Ho avuto una tragedia di sodali. Stop. Danni e Dannozzo fuggirono rimanendo nella montagna due giorni. Stop. Credo che fuggiranno anche le tartarughe. Stop. Prego mandarmi tue buone notizie. Un abbraccio. Ariel».
Orbo di un occhio ma Veggente, Decadente eppure modernissimo, Superuomo e casalingo, notturno e appartato, in realtà divo e vip ante litteram, Gabriele D’Annunzio si rivela sempre l’opposto dell’uomo di cui ci si ricorda o che gli storici si preoccupano di ricordaci. Entri al Vittoriale degli Italiani, la cittadella che tra gli anni Venti e Trenta del Novecento si fece costruire sul lago di Garda, e ti aspetti il mausoleo del poeta-soldato o l’alcova del dandy-esteta. Ma poi ti imbatti nel «D’Annunzio segreto», che è il nome del nuovo museo aperto nel Vittoriale da Giordano Bruno Guerri, storico e biografo dannunziano, da due anni attivissimo presidente della Fondazione che gestisce il complesso monumentale di Gardone Riviera.
Collocato sotto l’Anfiteatro, all’interno di uno spazio un tempo adibito a magazzino, il museo viene inaugurato oggi dopo mesi di ricerche, ristrutturazioni, progetti. E un’idea: aprire le centinaia di cassetti e armadi rimasti intatti dopo la morte dello scrittore, per mostrarne per la prima volta al pubblico, e d’ora in poi in maniera permanete, l’incredibile contenuto. Oggetti fino a oggi invisibili che tornano a raccontare la vita intima del loro Signore e Padrone.
Eccoci qui, allora, a visitarlo in anteprima, mentre l’architetto Angelo Bucarelli sta ultimando l’allestimento. All’entrata sei monitor su cui scorrono filmati di repertorio provenienti dall’Istituto Luce e dall’archivio Rai, e poi avanti, come urlò una volta, «verso la vita». Che nel caso di D’Annunzio, come in pochi altri, coincide con l’arte. Nelle imprese, nelle opere, negli oggetti d’uso comune. Ecco perché è lui il vero padre del gusto e dello stile italiano.
Appena dentro, in una grande teca è racchiuso il lato femmineo di D’Annunzio: tutti gli oggetti e i capi di abbigliamento che sceglieva per le sue amanti, le «badesse di passaggio» obbligate, quando entravano al Vittoriale, a spogliarsi dei propri abiti e a indossare quelli che il «Priore» D’Annunzio aveva preparato per loro: vestaglie trasparenti, scialli, accappatoi, sandali dorati, profumi, ciprie, pettini, spazzole, specchi, portagioie e forbici d’argento.
Poi un’enorme vetrina a parete con il guardaroba del Vate, o perlomeno la parte fino a oggi segreta: abbiamo contato 40 paia di scarpe, tutte artigianali, da camera, da sera, da giorno, da cerimonia, da notte (un modello, fatto a mano, con un piccolo fallo rosa sulla linguetta e sotto, a rafforzare il concetto, un pesce), bianche, nere, in cuoio, di pelle, coi lacci, con le ghette, basse, alla caviglia, a scarponcino, e poi una dozzina di stivali, e poi ancora bastoni, guanti, foulard, fazzoletti, calzascarpe, tube, bombette, cappelli e cappelliere, bretelle, babbucce orientali, vestaglie, giacche da notte, camicioni.
Uno larghissimo, bianco, che indossava in tarda età, quando aveva vergogna a mostrare il proprio corpo, lungo fino ai piedi ma con un’apertura sul davanti, per potere usare in ogni momento la sua «catapulta inarrestabile». E poi decine di manichini con abiti, frac, cappotti, tutti ideati e firmati da D’Annunzio. Il quale, negli ultimi anni di vita, cosa poco nota, iniziò a disegnare e produrre abiti sartoriali. Ideò, ed è qui in mostra, persino un’etichetta: «Gabriel Nuntius Fecit». Più che un esteta, uno stilista.
Come disse una volta a Giancarlo Maroni, l’architetto del Vittoriale: «Sono miglior arredatore che poeta». E infatti le pareti e le colonne che dividono gli spazi del museo sono ricoperte con le tappezzerie e i tessuti disegnati da lui stesso per la villa, la «Prioria», oppure, come un racconto nel racconto, con le riproduzioni degli autografi del poeta. C’è una colonna con gli «Appunti di ginnastica da camera» con gli esempi dei vari esercizi schizzati dallo stesso D’Annunzio e una colonna con tutti i bigliettini che Ariel o Gabriel, a seconda dello pseudonimo, lasciava alla sua amata cuoca, Albina, che chiamava Suor Intingola e alla quale, magari, lasciava 300 lire di mancia, equivalenti allo stipendio di un mese, per una buona frittata. Una delle poche cose di cui il poeta, frugale e astemio, era goloso. Lettere come questa: «Mia cara Albina, l’accordo di queste tre cose fritte è sublime. Avevo sognato questo piatto stamani. Ma la tua arte misteriosa va al di là del sogno», datato 26 settembre 1930. Oppure: «Per me non c’è al mondo nessun sapore più squisito della pernice fredda. Ho mangiato tutto ed ho leccato gli ossetti col rammarico che anche una pernice fredda abbia una fine».
In un angolo ci sono i bauli da viaggio, con gli scompartimenti per le scarpe, gli stivali, le camicie... In una teca c’è il necessario per la toilette: rasoi d’argento, asciugamani cifrati, pennelli da barba, spazzolini, flaconi di profumo, acqua di colonia delle marche preferite: Florodor o Chantilly, fatte arrivare da Parigi. Ci sono i gioielli – che Giordano Bruno Guerri è andato in mattinata, scortato, a prelevare nel caveau di una banca di Gardone, dove erano custoditi da decenni – tra i quali collane da donna, gemelli dipinti a mano, medaglie, l’anello d’oro che D’Annunzio portava al dito il giorno del volo su Vienna, e che per lui era un oggetto scaramantico... E c’è la vetrina dedicata ai suoi adorati cani: museruole, frustini, guinzagli, i collari chiodati con le placchette d’argento con incisi i nomi degli animali, che in tarda età il poeta chiamava tutti con nomi che iniziavano per «DAN»: Danzetta, Danchi, Danneggio, Dangiero.
C’è un biglietto, senza data, inviato all’Hotel Cristallo di Cortina alla sua ultima compagna, Luisa Baccara, dalla lettura del quale si fatica a capire se D’Annunzio sia più preoccupato per i suoi levrieri o per l’amata: «Ho avuto una tragedia di sodali. Stop. Danni e Dannozzo fuggirono rimanendo nella montagna due giorni. Stop. Credo che fuggiranno anche le tartarughe. Stop. Prego mandarmi tue buone notizie. Un abbraccio. Ariel».
«Il Giornale» del 2 ottobre 2010
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