Mario Vargas Llosa: all’autore peruviano, 74 anni, il Nobel per la letteratura
di Franco Cordelli
«Pensavo a uno scherzo, come a Moravia» L’amicizia con Sartre, la lite con Márquez
Quando il ventottenne Mario Vargas Llosa pubblicò il suo primo romanzo, La città e i cani, era il 1962. Quel libro aveva alle spalle la frequentazione del Leoncio Prado, un collegio diretto da militari. A mandarvelo era stato il padre, un giornalista che il figlio aveva incontrato molto tardi. «Per un pezzo - raccontò più tardi - ero stato convinto che fosse morto. Quando scoprii che invece esisteva ed era vivo, non c’era già più nessuna possibilità di comunicazione tra noi (...). Lui disapprovava il modo in cui ero stato tirato su, coccolato e vezzeggiato: pensò che il Leoncio Prado avrebbe fatto di me un uomo». Ne fece, in realtà, non solo un uomo, ma anche uno scrittore, benché la letteratura si fosse già affacciata, esponendo il giovane Mario alla disapprovazione generale. In Perù, a Lima, Arequipa (dove è nato, ma dove è oggi da tutti devotamente amato), in quegli anni remoti «essere uno scrittore o un artista era solo un pretesto per fare il pederasta o il fannullone». La città e i cani segue di poco un racconto, I Capi, nel quale è evidente l’influenza di Jean-Paul Sartre, nella fattispecie L’infanzia di un capo. Ma Sartre ritorna nel romanzo, fino dall’epigrafe, e nello sviluppo, vorrei dire nel sentimento, aspro, inflessibile, che non concede alternative. Tutta la giovinezza di Vargas Llosa è così contrassegnata. La grande significatività della sua opera è scritta proprio in questa partenza: fu subito una delle voci potenti della nascente letteratura latinoamericana, quella del boom di cui parlò Josè Donoso; e fu una delle voci di quel tempo, una voce di ribellione, di rivolta. Rivolta non era una parola di Sartre, semmai di Albert Camus, al quale Vargas Llosa approdò più tardi. Ma quando nel 1967 gli fu assegnato a Caracas il premio Rómulo Gallegos, fece un discorso che suonò rivoluzionario. Disse che sapeva bene come certi premi fossero conferiti per «assopire le coscienze degli intellettuali latinoamericani che sono i portavoce di un nuovo ordine»; ma che le sue «aspirazioni erano che nelle spazio di dieci, venti, cinquant’anni i popoli dell’America Latina si liberassero dell’imperialismo seguendo l’esempio di Cuba rivoluzionaria». Dicevo prima che la significatività o addirittura l’esemplarità dell’opera di Vargas Llosa risiede in questo inizio: esso ebbe uno sviluppo di coerenza per tutti gli anni Settanta. L’influsso dell’Europa, della sua cultura letteraria e politica fu ancora più evidente nel secondo romanzo, La casa verde del 1965, e in Conversazione nella Cattedrale del 1969. Sono entrambi opere-mondo in cui Balzac o perfino le laboriose architetture del Nouveau Roman prendono il posto di Sartre. L’ambizione di Vargas Llosa è sempre quella della totalità, è riscattare la povertà, liberare la borghesia dal giogo del passato, congiungere idealmente il Perù e l’Amazzonia, là dove il colonialismo non è riuscito che in modo parziale a celebrare i suoi trionfi. Il punto di svolta letterario è, io credo, La zia Julia e lo scribacchino del 1977; è là dove lo sperimentalismo del Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore si distende in una narrazione affabile, a volte addirittura eccessiva nella sua rotondità, nella pienezza di un racconto che tende a infittire gli eventi e conciliare gli opposti. Vargas Llosa si abbandona al piacere di confondere le tante storie, le intreccia tra di loro, lascia che un personaggio passi dall’una all’altra ed è solo più tardi, otto anni dopo Storia di Mayta, che non dirò la conversione, ma l’evoluzione di Vargas Llosa diventa compiuta: l’aver abbracciato una narrazione più tradizionale coincide con un giudizio politico assai diverso da quello pronunciato a Caracas nel 1967. Mayta è un militante trotskista la cui violenza rivoluzionaria come unico modello di lotta, si chiede colui che ne narra le vicende, a che cosa ha portato? Si tratta di un racconto, o di un resoconto, onesto, ma disincantato, privo di indulgenze. Da quel momento, dalla metà degli anni Ottanta, Vargas Llosa è un narratore diverso: che sempre aspira alla totalità, diciamo nel segno di Balzac, ma che si muove su una falsariga di pensiero del tutto diverso da quello iniziale. A Salisburgo, nel 1999 l’ormai pienamente liberale Vargas Llosa dichiarò: «Non esiste democrazia senza classe media, spazio dove il dispotismo non viene sopportato. Meglio dire dispotismi, perché nella modernità si riproducono arroganze che portano al disordine, dalla politica all’economia. Invece, classe media è sinonimo di Paesi a democrazia stabile. Cresce nell’idea che non vi possa essere progresso, se non si creano nuove ricchezze di cui possa godere una parte larga della popolazione». Tra questa parte larga della popolazione e queste ricchezze ci sono, da mezzo secolo, i romanzi di Vargas Llosa.
P.S. In quanto al Premio Nobel a lui assegnato non vedo, come si potrebbe pensare, una qualche discontinuità rispetto a una tradizione che presume sia un premio che privilegia scrittori progressisti. Il punto di vista generale, o meglio generico, del Nobel tende viceversa a privilegiare scrittori che potremmo definire libertari, da qualunque parte provenga la loro istanza appunto di libertà. C’è semmai da notare come sapientemente si alternino scrittori già celebri, come nel caso di Vargas Llosa, che del Nobel non avrebbero neppure bisogno, e scrittori come Walcott o Szymborska che grazie al Nobel diventano patrimonio universale.
«Corriere della Sera» dell'8 ottobre 2010
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